Koinonia Agosto 2018


Il Diario di Etty Hillesum

 

UN INCONTRO CHE LASCIA IL SEGNO

 

Il Diario di Etty Hillesum non è soltanto un libro da leggere, è un incontro che lascia il segno, un’esperienza, una rivelazione. Ogni volta che lo si prende in mano (l’avevo già letto anni fa), lo si capisce in maniera diversa, si va con la matita a sottolineare righe diverse. Questo perché il lettore non può non riversare, su Etty, il proprio vissuto, non può fare a meno di risponderle, conversare con lei.  Le sue affermazioni, infatti, anche se convinte, non sono mai assiomatiche, costituiscono la tappa del suo processo maturativo. Spesso vien fatto di confessarle: “io, Etty, a questo non sono ancora arrivata, confido, però di riuscirci”, o, per dirlo con le parole di una sua amica che aveva perso il marito: “Dio mi ha messo in una classe superiore, i banchi sono ancora un po’ grandi”.

 

I lettori di Koinonia sanno tutti chi è Etty Hillesum: una giovane donna ebrea olandese, figlia di un insegnante di lingue classiche e di una russa espatriata, sorella di due giovani molto dotati e promettenti. Dopo una laurea in Giurisprudenza, intraprende lo studio delle lingue slave e della psicologia. Vive sola in una stanza tutta per lei presso una famiglia della quale diventa presto molto amica. Si mantiene insegnando russo, ha una vita affettiva molto vivace e libera (che, soprattutto per quella generazione, non sarebbe stata accettata in Italia).

Quando ha inizio il diario (che ho riletto nella edizione Adelphi del 1985 e che non è completo), Etty ha 27 anni: è il 9 marzo 1941, la seconda guerra mondiale divampa, Hitler ha già promulgato le leggi razziali. Ancora, però, l’Olanda non era stata invasa dai tedeschi (cosa che avvenne in pochi giorni nel maggio di quell’anno). 

 

La discriminazione degli ebrei nei Paesi Bassi  fu condotta in maniera infiltrante, forse perché in quel paese gli ebrei erano tanti e perfettamente integrati, essi rimasero a lungo ignari dei pericoli ai quali andavano incontro e di quanto stava avvenendo in tutta Europa. Etty non fa trapelare preoccupazioni, pensa che, al massimo, sarebbe stata mandata a lavorare in Polonia.

Poi cominciano a comparire i primi cartelli di divieto, le prime proibizioni, le prime discriminazioni.  Il cerchio si stringe, si verificano episodi di resistenza che vengono spietatamente repressi.  Etty viene assunta al Consiglio ebraico di Amsterdam, incarico che svolge malvolentieri anche perché cagionevole di salute

Nel luglio del ‘42 c’è una grande retata di israeliti ad Amsterdam e Etty non vuole accettare l’opportunità, offertale dal Consiglio dove lavora, di sottrarsi alla deportazione. Sceglie di condividere la sorte del suo popolo e di partire sola, non con la sua famiglia. Raduna poche cose, tra le quali una Bibbia, le lettere di Rilke, un vocabolarietto russo, carta e penna. Un treno stipato all’inverosimile la conduce a Westerbork, un campo di smistamento nella zona orientale dei Paesi Bassi, ultima tappa prima di Auschwitz. Quivi lavora nel reparto ospedaliero e ha il permesso di andare qualche volta ad Amsterdam dove consegna lettere ai familiari dei deportati e riporta medicinali.

Le ultime pagine del Diario (luglio 1943) ci mostrano una donna gravemente ammalata che tuttavia ancora spera di poter riacquistare le forze necessarie per prestare aiuto alle persone che gli sono accanto.

Muore ad Auschwitz il 30 novembre del ‘43, insieme con padre, madre e uno dei fratelli.

 

Fin qui “la cornice” del quadro: una vicenda comune a milioni di altre donne come lei, come lei deportate e uccise dopo sofferenze atroci. Quello che rende unica questa testimonianza, però, non è la cornice, è il quadro che ci presenta una personalità straordinariamente umana, inquieta, passionale, determinata ad essere sempre più se stessa, sempre più libera, consapevole, coraggiosa, capace di essere d’aiuto agli altri.

Le prime pagine vertono soprattutto sull’incontro con Julius  Spier, lo psicanalista junghiano, chirologo, suo terapeuta, amico e infine amante.  Un uomo molto più grande di lei, divorziato, dotato di grande capacità intuitiva e forza comunicativa, che gode di un fortissimo prestigio presso tutte le persone che gli si rivolgono. Spier la introduce sempre più nel suo universo interiore del tutto nuovo, una forza incredibile di lotta e  potenziale crescita maturativa, la aiuta ad avviarsi verso quello che sarà, fino alla fine, il suo straordinario processo di avvicinamento alla “parte migliore di sé”, che lei chiama Dio. “Mi sono resa conto di quanto grande sarà il peso di S. sullo sviluppo ulteriore del mio spirito…”.

 

Ben presto si rende conto che quell’amicizia, che sta diventando sempre più importante, non deve esaurirsi in un rapporto a due, deve aprirsi all’umanità intera. Capisce di dover combattere, dentro di sé, la gelosia che nutre verso gli altri (e soprattutto le altre) pazienti. “Non devo considerare S. come un fine, ma come un mezzo per continuare a crescere e maturare. Non devo cercare di possederlo”. 

Liberarsi dal desiderio di possedere (che, a suo dire è caratteristica delle donne) è il primo passo per aprirsi agli altri, per riuscire a donarsi senza riserve. “Questo atteggiamento che per ora chiamo “possessivo” è cessato. Mille catene sono state spezzate, respiro di nuovo liberamente, mi sento in forze e mi guardo intorno con occhi raggianti. Ed ora che non voglio più possedere nulla e che sono libera, ora possiedo tutto e la mia ricchezza interiore è immensa.”

 

Condizione per “possedere tutto” è dunque “non possedere nulla”: vivere pienamente la vita nel presente per quello che essa offre, nel bene come nel male. Etty capisce di essersi troppo allontanata dalla realtà che la circonda (forse anche in contrasto con la madre, che invece, dalla realtà quotidiana, è totalmente assorbita), di vivere troppo esclusivamente nel suo universo spirituale: “…dobbiamo tenerci in contatto col mondo attuale e dobbiamo trovarci un posto in questa realtà, non si può vivere solo con le verità eterne…”.  

I due mondi, quello interiore e quello esterno devono trovarsi in accordo, devono comunicare tra loro: questo un motivo ricorrente nelle pagine del diario. “Devo buttarmi e ributtarmi nella realtà, devo confrontarmi con tutto ciò che incontro sul mio cammino, devo accogliere e nutrire il mondo esterno col mio mondo interno e viceversa…”.  

 

Questo proponimento sarà poi quello che l’aiuterà ad affrontare le gravi prove del momento: “A volte siamo così distratti e sconvolti da ciò che capita, che poi fatichiamo a ritrovare noi stessi. Eppure si deve. Non si può affondare, per una sorta di senso di colpa, in ciò che ci circonda. E’ in te che le cose devono venire in chiaro, non sei tu che devi perderti nelle cose.”

Queste scoperte conducono la giovane donna a maturare una fede del tutto personale e “irreligiosa” (in senso etimologico).Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo. M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le a mani, credo che cerchino Dio dentro di sé.”

 

Dissotterrare Dio, liberarlo dagli ostacoli che derivano dalle nostre difficoltà personali e da quelle che provengono dall’esterno, attingere a quella sorgente la fiducia, il coraggio, la speranza, che nello stesso tempo liberano  noi stessi e ci rendono capaci di liberare gli altri.  Il processo di reciproco avvicinamento è dunque parallelo quello della reciproca liberazione”.

Aiutare gli altri non significa infatti soltanto “fare” qualcosa per loro, significa cercare di scoprire in essi la loro “parte migliore” e presentargliela, metterli in contatto con essa: “Amo così tanto gli altri perché amo, in ognuno, un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te. E cerco di disseppellirti dal loro cuore, mio Dio”.  Etty fa questo sforzo persino con uno dei suoi carnefici.

Resta aperto il quesito che tutti i credenti si pongono quando pensano ad Auschwitz: “perché Dio ha voluto/permesso una cosa simile? È ancora possibile, dopo Auschwitz, credere in Lui?”  La risposta di Etty è sconcertante: “mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi.”  Se tanto male è esistito, dunque, la causa va ricercata nel fatto che in tanti lo hanno consentito, rinunciando a dissotterrare in se stessi quella sorgente che Etty chiama Dio.

 

Il male e il bene, la gioia e la sofferenza devono convivere: “la forza autentica, primaria, consiste in ciò, che se anche si soccombe miseramente, fino all’ultimo si sente che la vita è bella e ricca di significato…”

                                                     

Anna Marina Storoni Piazza

 

 

 

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