Koinonia Agosto 2018


Per Kairos-Italia

Dal discorso alla città che l’arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice, ha tenuto il 15 luglio scorso  in occasione del “FESTINO DI S. ROSALIA”.

 

LA NAVE ITALIA

Vengo qui a parlarvi da padre e da pastore, ma sento profondamente di essere sulla vostra stessa barca, toccato dai tanti dolori della nostra terra, in cerca come voi di speranza e di verità. Da questo punto di vista, il Festino deve rappresentare per noi un momento di gioia, di condivisione, ma non di evasione e di estraneazione dalla realtà. Non è tempo di dormire, ma di stare svegli! È tempo di guardare con gli occhi ben aperti a quelli che Papa Giovanni XXIII chiamava “i segni dei tempi”. Che cosa sono i segni dei tempi? Sono gli eventi della storia concreta delle donne e degli uomini d’oggi che ci parlano, ci chiamano ad un cambiamento, interpellano la Parola di Dio che delle nostre esistenze custodisce il senso e la speranza. Vorrei stasera comunicare a tutti voi l’appello che riguarda noi, credenti della Chiesa di Palermo, e – perché no? – tutti voi, convenuti qui, donne e uomini di buona volontà uniti in una ideale assemblea della nostra Città, nell’affetto antico e sempre nuovo per Rosalia.
Ecco, c’è un’immagine tipica della festa della nostra Santa che stasera mi pare illuminante. È l’immagine della nave, del vascello che portiamo per le strade di Palermo e che ci ricorda la salvezza dal flagello della peste grazie ad un volto, apparso ad una donna semplice, in un momento terribile della vita della nostra Città. Sentiamoci stasera tutti ‘imbarcati’ su questa nave di Rosalia e alziamo lo sguardo verso coloro che possono rappresentare un punto di riferimento, offrirci una guida nella tempesta epocale del nostro tempo. Sono testimoni del passato che hanno ancora parole buone per il presente. Il vascello è uno solo, ma ha tre forme che vorrei mettere in luce separatamente, con voi, stasera.

 

2. La seconda nave. Sì, assieme, in porto. È una parola questa che vale anche per il vascello della nostra Italia. Come Palermo, pure l’Italia soffre. Lo dicevamo. La paura e la povertà, se non ascoltate, se non interpretate e raccolte, creano diffidenza, isolamento, disillusione, frattura. Questo dovrebbe essere il compito della politica, della scuola, delle nostre parrocchie: rompere l’isolamento, ascoltare il grido, raccontare il dolore, la fatica di vivere, e darle senso. Oggi a questo compito spesso veniamo meno: viene meno la politica, che usa il disagio e non se ne fa carico; viene meno la Chiesa, quando riduce la fede ad una devozione individuale, che non investe tutta la vita e non si fa fonte di autentica comunità. Un’illusione pericolosa si sta diffondendo: che la chiusura, lo stare serrati, la contrapposizione all’altro siano una soluzione, siano la soluzione. Ma una civiltà che si fondi sul “mors tua, vita mea”, una civiltà in cui sia normale che qualcuno viva perché un altro muore, è una civiltà che si avvia alla fine. È questo che vogliamo? In verità, la fortissima globalizzazione, contro le sue stesse intenzioni, ha reso l’umanità una totalità in cui il destino di uno, di un gruppo, di un popolo, condiziona la vita e il destino di tutti. Come in una famiglia. E chi di noi, chi di voi vorrebbe star bene dentro la sua famiglia al prezzo del disagio degli altri suoi familiari? Quale madre, quale padre potrebbe sentirsi felice, sereno, se gli altri membri della famiglia soffrono e vivono nell’indigenza! La felicità costruita e mantenuta sull’infelicità degli altri è perversa e menzognera, pronta in breve a rivelarsi tale. Lo sappiamo bene, per esperienza. Emmanuel Levinas in una intervista dichiarava: «L’altro uomo, che innanzitutto, fa parte di un insieme, che sostanzialmente mi è dato come gli altri oggetti, come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in qualche modo da tale insieme precisamente con la sua comparsa come volto, che non è semplicemente una forma plastica, ma è immediatamente un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al servizio di questo volto, non solamente questo volto, servire l’altra persona che in questo volto mi appare contemporaneamente nella sua nudità, senza mezzi, senza protezioni, nella sua semplicità, e al tempo stesso come il luogo dove mi si comanda. Questa maniera di comandare, è ciò che chiamo la parola di Dio nel volto».

Il patrono della nostra Italia, Francesco d’Assisi, a cui vogliamo guardare stasera dal nostro vascello, propugnava e difendeva la fraternitas. Per Francesco, nel Cristo fratello, diventano fratelli sia il lebbroso esiliato fuori dalla città, sia il vicino di casa, il prossimo più prossimo. Per Francesco, cioè, la fraternità significa che siamo tutti figli, tutti sullo stesso piano, responsabili gli uni degli altri, legati reciprocamente con un vincolo inscindibile. Quello che ci raduna in nome di un Padre e ci raccoglie alla fine tra le braccia di una terra madre. La paternità di Dio per Francesco infatti era il principio di una nuova nascita: non la nascita di un popolo di figli omologati, ma di un popolo di diversi, di donne e di uomini che si riconoscono diversi e per questo si rispettano, per questo si accolgono, per questo imparano anche a dissentire, a discutere, sapendo che la relazione è l’unica strada. Fratelli diversi, ma fratelli. E quanto questa parola bellissima – fratello! – appare settaria se non indica una apertura totale a tutti, al più vicino e al più lontano! Ripartiamo da qui, dalla parola e dall’esempio del Patrono d’Italia Francesco d’Assisi. Non per nulla l’attuale vescovo di Roma, il Santo Padre Francesco, ha scelto questo nome come programma del suo pontificato. E a lui stasera va il nostro pensiero grato e affettuoso per la visita a cui vogliamo prepararci con un ‘salto’ di fraternità e di attenzione ai poveri, ai fratelli ‘minori’, a tutti i bambini di Palermo. Sono convinto, d’altronde, che non c’è facinoroso, non c’è politico, non c’è uomo pubblico catturato da slogan e da semplificazioni, che non porti dentro di sé quel tesoro di pace e di bene che Francesco augurava, quel nucleo profondo di umanità che ci rende legittimamente diversi, ma mai nemici. San Francesco – ci ricorda il Santo Padre – è stato un grande missionario di speranza”.

 

Mons. Corrado Lorefice

 

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