Koinonia Agosto 2018


DALLA CETRA DI DAVIDE ALLO SHOFAR MESSIANICO

 

Comprendo poco di musica, lo ammetto, ma sono stato confortato, dovendomene un poco occupare, da un pensiero di Adorno: “Noi non capiamo la musica - è la musica che capisce noi”. Il compito di un pensatore sarebbe infatti non quello di comprendere o spiegare, o addirittura teorizzare, bensì quello di “reagire” alle sollecitazioni della musica, cogliere in essa, come in uno specchio, quel che siamo nell’intimo di noi stessi. La musica ci interpella aiutandoci a capire chi siamo. E se siamo credenti ci aiuta a cogliere anche la fonte da cui tutto proviene e il luogo al quale siamo destinati, ci aiuta, in definitiva, a capire non solo Dio, ma anche la storia e il suo “oltre”.

Il credente ha a che fare con ciò che non vede e che tuttavia spera in futuro di vedere, sulla base di una parola che ascolta, di una promessa che gli è stata fatta. Perciò chi rinuncia all’ascolto rischia di non avere fede, di non sperare in ciò che ancora non vede. E sarebbe anche questo il motivo per cui quando la musica fa’ a noi cenno di quel che ancora non si vede, all’“oltre” che ci è stato promesso, aiuta la fede. Il credente desidera di poter ascoltare un giorno il suono della voce del Signore guardandolo in volto. E considera, questo, un desiderio legittimo e buono, un desiderio di fede.

La musica può avere a che fare con Dio più di quanto si immagini. E ciò appare all’interno di due ambiti necessari alla fede quanto la Parola che viene da Dio: il creato e la storia.

Parlando qui di fede si deve fin da subito chiarire che ci si riferisce alla fede di Abramo, un uomo che credeva fermamente nel Dio unico che sta all’origine di ogni cosa, nel Dio che cammina con noi lungo il corso della storia. La fede di Gesù e in Gesù radica profondamente in quel che ha creduto Abramo, ci fa camminare sulle stesse vie.

Nell’orizzonte religioso ci si può muovere secondo canoni del tutto estetici o etici, qui ci muoveremo, invece, secondo l’esercizio della fede, un esercizio che non può essere confuso con altro, come ben sapeva Kierkegaard, uno dei pensatori cristiani moderni che ci aiutano molto a reggere il peso della fede di fronte all’urto della secolarizzazione moderna.

 

Iniziamo dal creato, da non confondere con la natura, concetto del tutto pagano. L’ebreo Einstein ammirando gli esseri umani, i vegetali e la polvere cosmica si accorgeva come tutti alla fine “danziamo al ritmo di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio invisibile” (Articolo per The Saturday Evening Post, 26 ottobre 1929). Il creato può trasmetterci ancora oggi, a saperlo udire e vedere, la presenza del Creatore, e penso al cielo stellato o al silenzio della mia campagna, quand’è interrotto soltanto dal canto degli uccelli e delle cicale, dal fruscio del vento.

Non ci incanti troppo però tutto questo: l’ebreo Walter Benjamin diceva che a saperlo udire, in ogni stormire di fronda echeggia un lamento. E prima di lui è stato l’ebreo san Paolo a dirci come “tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto” in “ardente aspettativa” (Rm 8,19-23). Nessun romanticismo di maniera, nessuna ingenua teologia ecologica può qui aiutare a comprendere quel che ha davvero da dirci san Paolo, un credente che sapeva udire il dolore della creazione tutta, tesa all’evento della redenzione, due millenni prima dei problemi d’inquinamento che affliggono il mondo di oggi.

E poi la storia. Prendiamo la Bibbia, fin dal principio si parla di musica, di accompagnamento della preghiera comunitaria con strumenti musicali. È scritto che dalla discendenza di Caino esce Iubal, “il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto” (Gen 4,21). “Andate a prendermi un suonatore di cetra” dice Eliseo. “E mentre il suonatore suonava il suo strumento, la mano del Signore fu sopra Eliseo” che subito si mise a pronunciare parole ispirate (2Re 3,14-15).

Ma chi più sembra avere dimestichezza con la musica e i suoi ritmi, e proprio in onore del Signore, è Davide, colui che quando “un cattivo spirito” scendeva “sul re Saul, prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui” (1Sam 16,14.23).

Straordinaria è la scena di Davide che, già re d’Israele, con evidentissima “gioia” trasporta l’Arca santa danzando “con tutte le forze davanti al Signore”. E fa riflettere che quando il corteo sta per entrare nella “Città di Davide” e “Mical, figlia di Saul, guardandolo dalla finestra” si mette a disprezzarlo in cuor suo dicendo: “Bell’onore si è fatto oggi il re d’Israele scoprendosi davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe davvero uomo da nulla!”, egli risponde: “L’ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele, ho danzato davanti al Signore. Anzi mi abbasserò anche di più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma presso quelle serve di cui tu parli, proprio presso di loro, io sarò onorato!” (2Sam 7,12-22). Stessa umiltà e capacità di coinvolgersi con tutto il corpo che ritroveremo in un uomo come Francesco d’Assisi, colui che assomigliò al Cristo come pochi.

Davide è figura messianica, ma Gesù, che la gente pur chiamava “Figlio di Davide”, lo supera ampiamente. Davide stesso, in un momento di ispirazione “lo chiama Signore” un titolo in Israele riservato solo a Dio (Mt 22,41-45). Si dice che Gesù non abbia mai riso né suonato né cantato, eppure amava stare a tavola e per distinguersi dal modo di fare del Battista che digiunava e si batteva il petto nei lamenti, egli tendeva a identificarsi con coloro che suonano il flauto e chiamano la gente a ballare. Gesù è uno che “mangia e beve”, che ama la vita (Mt 11,16-19).

Mai dimenticare che le immagini più vere del mondo nuovo promesso da Dio sono quelle di un banchetto di nozze, di una tavola attorno alla quale si beve allegri un buon bicchiere di vino. Il Regno di Dio sarà inaugurato da una festa nella quale il Signore asciugherà le lacrime di coloro che hanno pianto (Ap 21,4), e li stringerà come fa un pastore quando stringe “gli agnellini sul petto” (Is 40,11). Poi si metterà il grembiule servendoci a tavola (Lc 12,37, e lo vedremo infine ballare per noi gridando di gioia (Sof 3,17). Ci sarà anche qualcuno a suonare? Forse sì, altrimenti che danza potrà mai essere?

Sono immagini che consolano e che aprono il cuore di coloro che riescono ancora a crederci.

 

Nella storia della salvezza dunque, la musica si accompagna a un forte desiderio di liberazione e di vita, di anelito messianico. La stessa liturgia acquista tutto il suo senso in particolare quando si accompagna alla musica, poiché è proprio la musica a rinviarla all’“oltre”, al non ancora della fede.

Riprendendo un verso di una sua famosa poesia, Clemente Rebora definisce la musica liturgica “imminenza d’attesa”. Il ruolo della musica nella liturgia non deve avere nulla di mondano, pur essendo nel mondo essa deve farci sentire, desiderare qualcosa che non è di questo mondo, non dell’aldilà, ma del mondo nuovo che deve ancora venire, i cieli nuovi e la terra nuova promessi. Protagonista di ogni liturgia cristiana è il Cristo stesso, il Messia che è già venuto ma che deve pur ancora venire nel mondo. Perciò la musica liturgica non può essere, nel suo intimo, che escatologica, aperta cioè alle cose ultime credute e attese dalla comunità dei credenti. Mai la musica in certi contesti può prescindere da quel che la liturgia significa.

Stessa cosa, a ben rifletterci, accade davanti alla Torah scritta, per comprendere la quale è difficile prescindere dal suono che emana pronunciandola. Fondamentale per Israele non è la visione ma l’ascolto. “Vedere significa essere in un mondo che è interamente qui, e che basta a se stesso”, dice Emmanuel Lévinas. Mentre “nel suono – come nella coscienza compresa in termini di ascolto”, vi è “una rottura del mondo sempre compiuto della visione”. E questo può accadere perché “il suono è, integralmente, simbolo, esplosione, scandalo… Per cui il mondo che è qui dischiude una dimensione non traducibile in visione”. Non si tratta però qui di suoni per così dire naturali, poiché “i suoni e i rumori della natura sono parole deludenti”, mentre “udire realmente un suono significa udire una parola. Il suono puro è Verbo” (Hors sujet). I cristiani giungono addirittura a identificare con Dio “il Verbo”, e poi un uomo di carne e ossa, il “Figlio unigenito che viene dal Padre” (Gv 1,1.14).

Ho trovato una citazione straordinaria riportata da Massimo Cacciari nel suo Icone della Legge: “Una profonda conoscenza della Torah può essere raggiunta solo cantandola” (A.Z. Idelsohn, Jewis Music, New York 1929). È significativo che i testi più antichi della Bibbia nella loro lingua originale ebraica siano scritti solamente con le consonanti aprendosi dunque ogni volta alla partecipazione vocale e personale di chi li legge. Pensiamo anche solamente al nome di Dio, al cosiddetto Tetragramma, YHWH, del quale si è persa l’esatta pronuncia, perdita dovuta al divieto di pronunciarlo durato secoli e secoli. Come conoscere il Nome di Dio se non lo si pronuncia? Forse è un modo tutto ebraico per dire che Dio nella sua essenza e grandezza è inconoscibile. Così come, dunque, nessuno può vedere Dio, così anche nessuno lo può pronunciare né cantare.

 

Ascoltando Mozart un teologo come Karl Barth si chiedeva come fosse possibile considerare  quella musica teologia, fino a renderla addirittura parte “della dottrina della creazione e poi anche dell’escatologia”. Cosa aveva di tanto speciale questo uomo che conduceva una vita che potremmo giudicare persino frivola? Il fatto è, dice Barth, “che egli ha avuto coscienza di qualcosa che nessuno ha sentito come lui o quanto meno nessuno ha saputo come lui esprimere e mettere in evidenza”. E questo tanto più emerge se si pensa al periodo in cui visse Mozart. Si era infatti al tempo del grande terremoto di Lisbona, un avvenimento terribile che fece vacillare l’idea di un Dio buono e giusto, e fece sentire tutta la fragilità della ragione umana. È in quel momento lì che a Mozart è dato di udire “ciò che noi vedremo soltanto alla fine dei giorni: la coerenza della provvidenza”, dice Barth, qualcosa che aiuta al di là di tutto a confidare ancora in Dio. Egli non aveva visto la luce in mezzo al buio, come non la vediamo noi, ma “aveva udito ciò che noi vedremo soltanto alla fine dei giorni: la coerenza della provvidenza… egli ha udito il creato intero avvolto in questa luce”, ha lasciato “parlare la creazione buona di Dio, che comprende anche il limite e la fine dell’uomo” (Dogmatica ecclesiale III/3, 338-339).

Ma cosa dice la fede che vedremo “alla fine dei giorni”? Questo è il punto. E nulla di meglio abbiamo, per spiegarlo, del suono dello shofar, il corno d’ariete molto usato nei momenti solenni della memoria ebraica. Dove corre la mente degli ebrei ascoltandolo? Ad Abramo che sacrifica il figlio Isacco e alla venuta del Messia, momenti fondamentali e significativi anche per il cristianesimo. Gesù è l’Agnello sacrificato dal Padre in espiazione dei nostri peccati e Gesù è il Messia che deve venire a salvare il mondo. E Gesù è Dio, il Dio crocifisso che, solo, può reggere l’urto di tutte le domande contro Dio emerse dopo Auschwitz.

Contro ogni tendenza romantica, che fa tutto ogni volta scivolare verso l’armonia e il sublime, la musica ad un certo punto della soglia moderna subisce una vera e propria rottura, nel segno di quel che è successo in particolar modo nel terribile evento della Shoah. E questo è accaduto, non a caso, attraverso musicisti e pensatori di origine ebraica. Si è come dovuta interiorizzare una lacerazione, le solite risposte della teologia non reggevano più: solo un Dio impotente e crocifisso poteva ancora reggere il confronto con quello che era accaduto nei primi decenni del Novecento. In musica forse più che in altre forme espressive si è ad un certo punto avuta una sorta di interruzione. Non momentanea per poi ritrovare l’antica armonia, ma una ferita aperta e perenne. “Sarà impossibile liquidare tale lacerazione e tornare poi a fare musica come nell’Ottocento – ha detto il teologo Pierangelo Sequeri - con armonie levigate e prive di qualsiasi tensione che non fosse già predisposta alla risoluzione”. Mentre in altre forme artistiche si è cercato in qualche modo di assimilare la lacerazione, in musica è invece diventata un “elemento linguistico, un codice della costruzione. Ormai, non si può più fare armonia senza investire strategicamente il codice della dissonanza (armonica, timbrica, melodica), senza la consapevolezza che l’elemento della rottura, del salto, della ferita non è un espediente retorico per esaltare in seguito l’avvenuta riconciliazione, ma un dato che permane costantemente” (Il regno-attualità 18/1993).

Tra grida e silenzio

 

Fa pensare, o meglio, fa “reagire” (per dirla con Adorno), l’ascolto del brano  dell’ebreo Arnold Schönberg Un sopravvissuto di Varsavia.  È un oratorio per voce recitante, coro maschile e orchestra di durata brevissima, 7 minuti appena, che Schönberg compose nell’agosto del 1947. Autore anche del testo, in lingua inglese, egli utilizza, insieme ad altre fonti, il vero racconto di un ebreo sfuggito al massacro nel ghetto di Varsavia. Schönberg era rimasto sconvolto dalle notizie che provenivano dall’Europa in merito ai campi di sterminio nazisti in cui aveva perso la vita anche un suo nipote.

Per un debito di memoria ognuno di noi avrebbe il dovere di ascoltare questo brano almeno una volta nella vita. Ascoltandolo sapendo bene quel che si ascolta, provoca una certa impressione. Comincia con un improvviso squillo di tromba e rullo di tamburi. Poi una voce narrante che inizia a raccontare una tipica giornata nel ghetto di Varsavia. L’inflessione melodica quasi non esiste vi saranno piuttosto urla improvvise. Il sopravvissuto dice di non poter ricordare ogni cosa, quel che lì accadeva gli fece infatti perdere la conoscenza per quasi tutto il tempo. Il racconto si concentra sulla orribile conta dei soldati tedeschi che spingono i prigionieri verso la morte. Sbagliano, ricominciano da capo, il ritmo della recitazione cresce, si fa concitato, le parole diventano grido, l’orchestra intona un drammatico crescendo e nel suo punto culminante ecco improvviso il coro del gruppo di ebrei che s’avvia al campo di sterminio che intona lo Shema in coro: “Shema Israel…”, “Ascolta Israele…”, la professione di fede di coloro che ancora nonostante tutto continuano a credere in Dio. Gli ebrei, hanno detto alcuni tra loro, possono vivere contro Dio, prendendo Dio per il bavero chiedendogli conto di quanto accade, ma non possono vivere senza Dio, senza ciò che Dio gli ha trasmesso e promesso.

Sono sette minuti di una narrazione cruda e drammatica accompagnata da una scrittura musicale strettamente dodecafonica. Il pensiero e il dramma della modernità hanno nella dodecafonia di Schönberg una delle testimonianze più alte: ogni struttura naturale e armonica della musica lì è distrutta, vi si sostituisce qualcosa che viene soltanto dall’uomo. È stato detto che lì è dato di percepire “il nulla sotto il mondo naturale dell’armonia”, un nichilismo radicale in cui alla fine persino la dissonanza scompare “perché questa presupporrebbe che ci fosse armonia” (V. Mathieu, La voce, la musica, il demoniaco, Milano 1983, p.53).

L’opera fu presentata per la prima volta negli Stati Uniti, e in Italia a Torino, molti anni più tardi, nel 1961. Al termine della prima esecuzione il pubblico rimase in silenzio assoluto, nessuno ebbe il coraggio di muovere applausi: la reazione fu il turbamento, la gente ne fu sconvolta.

La grandezza di quest’opera ha fatto dire a Milan Kundera, su una pagina di Repubblica del 23 ottobre 2007,  che “si tratta del più grande monumento che la musica abbia mai dedicato alla Shoah”. E che “tutta l’essenza esistenziale del dramma degli ebrei del XX secolo è in quest’opera viva e presente. In tutta la sua atroce grandezza. In tutta la sua bellezza atroce. Ci si batte perché degli assassini non vengano dimenticati. E Schönberg lo abbiamo dimenticato”.

La musica è anche un fatto di memoria, la musica ci aiuta a non dimenticare. Il vero ascolto è provocato da suoni grandiosi, da suoni che attraversano il creato e da strumenti musicali fatti da mani d’uomo. La teofania del Sinai è introdotta dai tuoni e da “un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore… Tutto il monte tremava molto. Il suono del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce” (Es 19,16-19).

 

Secondo un commentario ebraico, la curva dello shofar richiama l’umiltà del credente e la parte diritta la sua semplicità. Il rauco suono dello shofar anticamente donava ritmo ai più importanti appuntamenti religiosi d’Israele: l’inizio del mese, la festa di Capodanno e l’anno giubilare, l’inizio e la fine del giorno di sabato. Attorno allo shofar e al suo suono la tradizione ebraica imbastisce diverse riflessioni. “In tutti i giorni dell’anno gli israeliti sono occupati nelle loro opere,  ma a Capodanno essi prendono i loro corni e soffiano in essi davanti al Santo, sia Egli benedetto, che si alza dal trono del giudizio e si sposta su quello della misericordia, ed è ricolmo di compassione per essi” (Levitico rabbah XXIX, 10). Altrove si parla addirittura della “segreta intenzione di Dio di rendersi simile a uno shofar, per meglio dar voce al desiderio di riscatto d’Israele” (Levitico rabbah XXIX, 6).

Il suono dello shofar richiama nel popolo d’Israele i fatti salienti della storia della salvezza, dalla manifestazione di Dio fin dai primi giorni della creazione, alla risurrezione dei morti nell’ultimo giorno della storia.

Mentre nel Libro di Isaia viene annunciato il giorno in cui “verranno gli sperduti” prostrandosi “al Signore”, e “suonerà il grande corno” (Is 27,13), in un testo molto più recente, scritto probabilmente nel VIII secolo, Alfa beta de-rabbi ‘Aqiva, ci si chiede: “In qual modo il Santo, sia egli benedetto, risuscita i morti per il mondo a venire?”, rispondendo subito dopo così: “Prende in mano un enorme corno, lungo mille braccia delle braccia del Signore benedetto, vi soffia dentro e il suono che ne esce va da un capo all’altro del mondo. Al primo rimbombo il mondo intero sussulta, al secondo rimbombo la polvere viene scossa, al terzo rimbombo le loro ossa si ricompongono, al quarto rimbombo le membra si riscaldano, al quinto rimbombo la loro pelle si stende a membrana, al sesto rimbombo gli spiriti e le anime entrano nei loro corpi, al settimo rimbombo sono vivi e s’alzano in piedi, vestiti” (Citato in Giulio Busi, Simboli del pensiero ebraico).

La redenzione futura annunciata dall’esperienza di fede ebraico cristiana è concreta e visibile, è rinnovamento della creazione tutta, è risurrezione della carne. La fede ebraico cristiana tende al compimento e non si lascia imbrigliare da spiritualizzazioni o illudere da salvezze a buon mercato. Si narra che “uno stolto, senza che nessuno se ne accorgesse, salì sul Monte degli Ulivi e dalla cima soffiò la tromba dello shofar. Nel popolo spaventato si diffuse la notizia che questo fosse il suono dello shofar che annunzia la redenzione. Quando la voce arrivò agli orecchi di Rabbi Menhahem egli aprì la finestra, guardò fuori nel mondo e disse: ‘Non vedo rinnovamento’” (M. Buber, I racconti dei Chassidim).

La salvezza che viene dagli ebrei ha a che fare con l’ascolto, ma è diretta a concretissime cose che si vedono e si toccano. Il credente ascolta i suoni e le voci con le sue orecchie, ma i suoi occhi e il suo cuore sono incessantemente rivolti al concretissimo “oltre” promesso. Il veggente del Libro dell’Apocalisse apre la rivelazione dicendo: “Udii dietro di me una voce potente, come di tromba… Mi voltai per vedere la voce che parlava con me” (Ap 1,10.12). In certi momenti la voce non è dato solo d’ascoltarla, ma anche di vederla. Chi ha esperienze di questo genere ha la fortuna di riceverla come un dono soprannaturale e immenso, come una gustosissima primizia.

La voce e la musica non riguardano solo l’ascolto ma, a saperle accogliere, sarebbero in grado di riempire a tal punto e così intensamente il nostro cuore, da farci percepire, anche se solo per degli attimi, come una cosa sola ciò che ci è stato rivelato e promesso e ciò che un giorno ci sarà dato finalmente di vedere. Il volto del Signore soprattutto, di colui che nel libro dell’Apocalisse si presentò nella voce come “il Primo e l’Ultimo, e il Vivente”, come colui che ha le chiavi “della morte e degli inferi” (Ap 1,17-18).

 

Daniele Garota

 

 

 

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