Koinonia Luglio 2018


Editoriale del Quaderno n. 2 - aprile-giugno 2018

 

40 ANNI DI ESODO...

 

Ripensiamo ai nostri 40 anni (1978-2018) per guardare dentro la nostra micro-storia all’interno della più grande storia che ci ha preceduto e accompagnato, con l’obiettivo di trarre bussole e strumenti per orientarci, qui e ora, in un mondo inedito, e per riuscire a capire la nostra responsabilità come donne e uomini, e anche come cristiani. Ancor più di ieri, siamo consapevoli della nostra inadeguatezza, dei nostri limiti, e pensiamo ancor più necessario allargare la “comunità di amici in ricerca”, convinti che la pratica del sapersi “minore” e dell’amicizia sia la condizione per un’autentica ricerca. Per questo cerchiamo di rafforzare il nostro metodo di lavoro condiviso, e non somma di spazi in cui ciascuno dice la sua, teso non a insegnare ma a imparare assieme, a porre le domande e a chiarirne i termini.

Molte le testimonianze ricevute, raccolte in questo quaderno, iniziando da chi ha inquadrato il nostro percorso nel più ampio contesto dei “movimenti” che hanno interessato la società italiana e, in essa, il mondo cristiano e cattolico. Gli interventi sottolineano come Esodo non sia iniziato dal nulla proprio in quell’anno, ma sia nato dentro e in seguito a una storia di radicali mutamenti,

ponendo fin dall’inizio l’esigenza di ripensamento critico della fase precedente, senza perdere quella intuizione centrale che aveva animato la stagione del ‘68: una dialettica positiva tra individuo e collettivo, insieme alla sperimentazione di pratiche antiautoritarie.

Ponevamo la necessità di riallacciare nuovi, inediti rapporti, di allargare i nostri confini, per rimetterci ‘sulla soglia’ a guardare anche altrove, e avviare una necessaria fase di disincanto.

La storia si dipana nelle testimonianze che ricostruiscono la lunga fase di incubazione, dai primi anni ’60, dalla Pacem in terris e dal Concilio, maturata nel post concilio e nella deflagrazione dei movimenti politici, culturali, sociali ed ecclesiali, che interessano tutti i 20 anni precedenti la nostra nascita, periodo a torto o a ragione spesso contrassegnato dalla data centrale del “sessantotto”, di cui non casualmente ricorre in questo stesso anno il cinquantenario.

È quella una data che si dilata in un prima e in un poi, nel quale le nostre coscienze sono cresciute, forse per la prima volta - almeno come percezione - “dentro” le prove della storia, attraverso quello che veniva sentito come “l’impegno”. E in questo certamente ha giocato un ruolo la riscoperta di una radicalità cristiana post conciliare, che, appunto, si manifestava in un’altrettanto radicale ricerca di giustizia, identificata come la cifra del Vangelo.

Questa, d’altra parte, era la stessa cifra comune alle variegate provenienze  del gruppo promotore, che coprivano un’ampia gamma di esperienze di impegno sociale e politico, una varietà che ha favorito l’attitudine al confronto. Per la nostra cultura della nonviolenza, totalmente estranea era anche la tentazione a legittimare ogni forma di lotta violenta, come pure era chiaro il rifiuto di tradurre la citata radicalità cristiana in “estremismo” politico. Siamo appunto nati in una fase in cui la riduzione di tanti ideali e intuizioni in slogan ormai svuotati all’insegna di un’autoconservazione ripetitiva e sterile, ci imponeva di non adattarci a questo riflusso. Processo che coinvolgeva, peraltro, le istituzioni, anche ecclesiastiche, che si ritiravano sulla difensiva, autorestaurandosi, dopo una fase propositiva e di vera o apparente apertura, fonte di grandi speranze.

Per capire meglio ciò che ci premeva - allora forse solo intuito ma divenuto poi il filo conduttore - pensiamo valida la chiave di lettura della dialettica infinita fra Parola viva e lettera morta, in quanto costituisce la trama di fondo della storia del cristianesimo nella lunga durata. Da tale prospettiva si comprendono

i grandi passaggi storici, così come le micro-storie, come la nostra.

Una dialettica in quel periodo tradotta e vissuta con dinamiche complesse, nel rapporto-scontro tra “cristiani-comunità di base” e chiesa romano-tridentina. Problema tuttora aperto.

Possiamo aggiungere che questa dialettica, parola viva-lettera morta, può applicarsi più in generale all’intera storia politico-sociale, non solo italiana. In questa direzione, abbiamo cercato fin dal primo momento (significativo il titolo

“dopo il dissenso” del quaderno che ripensa i primi 10 anni) di offrire strumenti

critici di lettura del passato e di discernimento del presente, ponendo le domande fondamentali etico-antropologiche per costruire la polis, ed esistenziali per individuare responsabilità personali, ciascuno secondo coscienza, nel pluralismo delle scelte. È la ricerca, che ci poniamo anche ora, di tener viva la parola, attraverso una continua reinterpretazione e attualizzazione, anche attraverso nuove parole. Al momento della nostra nascita la lettera morta si manifestava allora (e ora?) paradossalmente in un “ottimismo messianico”. Prendere consapevolezza della crisi di questo modello, nello stesso tempo politico e teologico, ha costituito un “motore” della nostra ricerca fin dall’inizio, attraverso l’analisi degli aspetti sia teorici che relativi al processo storico di liberazione umana, che avrebbe dovuto compiersi in un momento della storia, e all’idea di un soggetto, la classe operaia, portatrice di questo processo.

Attorno a questa base critica abbiamo raccolto, lungo l’esodo, amici, redattori

e collaboratori che hanno condiviso questa stessa volontà, arricchendo il nostro percorso, senza mai tralasciare tutte le grandi “questioni di giustizia”, che la stessa lettura evangelica pone in rapporto alla società. Con un’attenzione in più. Abbiamo cercato di evitare il rischio di un esito riduttivo, insito nell’equazione cristianesimo-impegno sociale: il perseguimento di un progetto umano d’emancipazione ha finito per far prevalere la via dell’immanenza, resa progressivamente obsoleta la fede nella cosiddetta “vita eterna”, estinta la fede non tanto nella forma del rifiuto, quanto di una progressiva irrilevanza del Christus aeternus rispetto al Christus caritas. È stato proprio il confronto con i “non credenti” a interrogarci su queste contraddizioni.

Ebbene proprio la consapevolezza di questo rischio, che già al nostro esordio facevamo risalire a una semplificazione della stagione del ’68, ci ha fatto mantenere alta la tensione per il paradosso della fede cristiana, attraverso una ricerca comune anche di quel senso “ultimo”, “aeternus”, che libera da ogni tipo di idolo; una fatica, mai conclusa, che non si è mai fermata a risposte univoche ed elusive del problema. Abbiamo condotto, anche su questo tema centrale, una ricerca comune, pur con sensibilità ed esperienze molto diverse, tesa a una fede non fideistica e non provvidenzialistica, sia religiosa che secolarizzata, a una fede quindi incredula, di cui pure dare ragione. Abbiamo rimesso in discussione i volti e i nomi di Dio come dell’uomo, messo in dubbio le “meravigliose sorti e progressive”, a cui diversamente credenti si affidano.

Anche e soprattutto su questa base di ricerca di senso abbiamo accolto nuove energie, allargato la redazione e la comunità di amici in ricerca, sviluppato una rete di collaboratori/trici. In diversi modi, tutti hanno colto questa tensione, mai definitiva e mai appagata, per le cosiddette “realtà ultime”, che non comportano la fuga dal mondo, anzi.

Oggi, infatti, siamo in una nuova lunga fase di svolta antropologica, in cui però si ripropongono, pur in forme radicalmente nuove, un uso ideologico delle religioni, un nuovo messianismo ideologico, legato a un uso onnipotente della scienza e delle sue applicazioni tecnologiche, un pensiero unico dogmatico, dominato dall’economico con i miti del mercato e della globalizzazione, contemporaneamente a quelli dello Stato-Nazione, e la conseguente crisi della forma democratica e dell’universalità dei diritti che avevano contrassegnato le attese del secolo scorso dopo la tragedia di due guerre mondiali. Il rischio è ancora il predominio della lettera morta, di rendere “cosa morta” il pensiero, le relazioni, gli “scartati”. Porre la domanda radicale se “resteremo umani”, e che significa “umano”, non è cedere a una visione apocalittica - come mai abbiamo fatto - ma cercare con vero realismo di comprendere i termini delle questioni nella loro dimensione strutturale e di lunga durata, senza chiuderci nell’immanenza e nell’immediatezza. E ci consegna una nuova e antica missione: la de-ideologizzazione della speranza. Solo così possiamo anche cogliere le potenzialità del presente, con uno sguardo libero da appartenenze. Mentre vediamo che un mondo si sta rinchiudendo nell’autoconservazione, cercando nuovi nemici, ripetendo vecchie categorie e illusioni, colorate con nuovi linguaggi, la crisi stessa manifesta nuove soggettività e nuove modalità di relazione. A queste cerchiamo di far attenzione, con la difficoltà di essere noi frutto di quel vecchio mondo.

 

Carlo Bolpin e Carlo Rubini

 

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