Koinonia Giugno 2018


ELOGIO DELLA DIASPORA

 

Da un po’ di tempo a questa parte, la parola più ricorrente che mi passa per la mente per  esprimere e decifrare le situazioni che si presentano, è: diaspora. Fino al punto di ritrovare qui la realtà e il significato più concreto della parola “chiesa”: se la chiesa è assemblea, comunità, comunione, popolo, raccolta, lo è a partire dalla dispersione, dalle periferie e in vista della disseminazione o della “uscita”. Se, in altre parole, essa appare “una” nella sua visibilità istituzionale e organizzativa, nella sua realtà invisibile è “diaspora”.

 

In questo senso  c’è da dire che la ricerca comunitaria,  dominante dopo il Concilio come superamento dell’assetto societario, ha portato sì alla rivalutazione di una chiesa-comunione, ma non tanto come decentramento capillare e inclusivo, quanto come tendenza centripeta ed autoreferenziale, a danno di una rinnovata lievitazione e inseminazione nel mondo della Parola di Dio. Per cui abbiamo una chiesa costellazione di monadi autarchiche chiuse in se stesse, dove l’unità è puramente formale e convenzionale, magari come organizzazione  o  manifestazione.

 

Di conseguenza, il rapporto col mondo - primo punto  nell’ordine del giorno del Concilio - torna ad essere di nuovo asimmetrico e di potere, alla stregua dei re delle nazioni che dominano su di esse e si spacciano come benefattori (cfr Lc 22.24). La speranza era che si potesse arrivare ad un rapporto di assunzione, di servizio, di animazione, di solidarietà evangelica. E quindi di interazione, di “incarnazione” del Verbo di Dio che prende forma umana in coloro che l’accolgono e credono nel suo Nome: “i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,13). Se davvero vogliamo tornare alle origini, esse sono qui, e non possiamo stabilirle diversamente a nostro piacimento!

 

È necessario che questo processo di vita - di grazia e di verità - si rinnovi e si prolunghi: esso attraversa i secoli e vuole trovare terreno adatto per manifestarsi e portare frutto. La dottrina dei semina Verbi o del Lógos spermatikòs ci riporta alla diaspora, appunto come disseminazione: come base di partenza per ogni  ulteriore “cura” o coltivazione da parte nostra. Forse è il caso di ricordare quanto ci fa presente Paolo: “Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere” (1Cor 3,6).

 

Mi si ripresenta una immagine della chiesa che ebbi tanto tempo fa: è un campo unico in cui nascono tanti fiori diversi e non un insieme di piccoli vasi con fiori tutti uguali. La differenza non è all’origine ma alla maturazione, quando è possibile distinguere il grano dalla zizzania.

 

Questo ci porta a dire che il seme della Parola di Dio deve crescere in noi come cultura, come coltivazione di sé e della propria vita, per portare frutto: non basta cioè  che prenda subito forma di culto o di prassi come espressioni religiose indotte in cui identificarsi. È importante perciò ritrovare un saldo terreno comune, che è poi quello in cui siamo dispersi nella nostra quotidianità, ma è anche quello in cui possiamo incontrarci e fare comunione. Del resto, la stessa parola “parrocchia” sta ad indicare l’insieme di quelli che sono nelle vicinanze più che significare concentrazione e arroccamento. A dimostrazione appunto del fatto che il Popolo di Dio vive nella realtà secolare o del mondo, nella laicità, nel profano,  che risulta tale solo in rapporto ad un presunto primato del sacro: ed è in questo spazio che deve ritrovare il suo habitat, il suo stile di vita, senza voler cristianizzare tutto ma cercando di umanizzare e rendere carne la propria fede.

 

Può risultare strano che un elogio della diaspora venga fatto all’ombra di Koinonia, nome che suona antitetico. In realtà, se ci siamo dati questo nome non è stato per proporre una forma comunitaria di chiesa già definita in cui collocarsi, ma per avere una linea di tendenza e un motivo di tensione verso una koinonia sempre in fieri, a partire dalle situazioni e dalle circostanze della vita come luogo della comunione reale. Per di più, se diaspora sta a significare la dispersione del Popolo di Dio tra i popoli o tra le genti, allora siamo riportati all’idea guida del nostro cammino: e cioè alla “Chiesa dei gentili”, che rimane la nostra stella polare e l’orizzonte in cui muoversi. Non è questione di essere “diversamente chiesa” sul piano delle molteplici forme; sarebbe necessario dare vita ad una chiesa che sia interfaccia di quella costituita e visibile. Anche per uscire dal conformismo di comodo in cui tutti ci rifugiamo in un comune grigiore.

 

A parte questi cenni di chiarimento, rimane il fatto che viviamo la condizione di dispersi e isolati rispetto agli spazi  di visibilità istituzionale;  e se il desiderio è quello di ritrovarsi e radunarsi - come succede a volte e con alcuni - il bisogno primario rimane  quello di uno spirito comune e di un’anima sola grazie a cui sentirsi membra gli uni degli altri anche in diaspora: come uditori della Parola, come discepoli di Cristo e a servizio del suo vangelo fino ai confini della terra.

 

Se di una identità cristiana si può parlare, questa nasce di qui e deve avere questi connotati, che non sono uno sfondo sociologico evanescente, ma sono i tratti di una personalità inedita, che potremmo definire in termini di santità.  Poiché è questo il contrassegno dell’uomo redento, più che la stessa moralità personale o i segni di appartenenza collettiva e di specifiche spiritualità.

 

Si tratta in ultima analisi di essere adoratori del Padre in spirito e verità più che nella osservanza del sabato a pratiche religiose fatte dall’uomo e per l’uomo. Per cui una vera conversione non consiste nell’adottare questa o quella forma di vita, quanto nello sforzarsi di entrare nella vita per la porta stretta (cfr Mt 7,13): qualcosa che non avviene mai in massa ma appunto in diaspora, singolarmente e in tempi diversi, sia pure per partecipare insieme al banchetto del Regno.

 

Per troppo tempo ci siamo impegnati in un esercizio di “modellismo ecclesiale” cercando e perfezionando modelli con marchio di origine o di nuovo conio, dimenticando che la questione di fondo è “credere al vangelo di Dio” grazie a colui che è  “l’apostolo e il sommo sacerdote della fede che professiamo” (Ebrei 3,1). Se pensiamo che il Verbo fatto carne è questo spazio nuovo in cui dimorare e comunicare pur nella diaspora, possono essere illuminanti alcune  parole del diario di Etty Hillesum di cui si può leggere in questo numero. Ecco quanto scrive:

 

“Un solo spazio compenetra ogni essere: spazio interiore del mondo [...] Portare l’altro con sé, sempre e dappertutto, racchiuderlo in se stessi, e lì vivere con lui. E non con uno solo, ma con molti. Includere l’altro nello spazio interiore, non solo, lasciare anche che vi sbocci, donargli uno spazio in cui possa crescere e fiorire. Vivere autenticamente con gli altri, anche con chi non vediamo per anni, lasciare malgrado ciò che l’altro prosegua la sua vita in te e vivere con lui, questo è l’essenziale. È così che si può continuare a vivere insieme a qualcuno, protetti dalle vicissitudini esterne di questa vita. Si tratta di una grande responsabilità” (Venerdì mattina 13 marzo 1942).  

 

Se questo è vero, ricadute interiori e pastorali sono inevitabili! Ma in fondo è quanto ci è dato di vivere.

 

Alberto B. Simoni op

 

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