Koinonia Giugno 2018


 

Etty Hillesum maestra di resilienza*

 

Etty Hillesum è ormai piuttosto conosciuta in ambienti di vario genere e a vario titolo: la figura di questa giovane donna, per tanti versi così contemporanea, è oggetto di studi scientifici, ma anche di una sorta di “culto” da parte di cristiani, laici, persone che si ispirano alle religioni orientali e via dicendo.

Di sicuro è una voce che merita di essere ascoltata da chiunque intenda svolgere nella propria vita un cammino spirituale, per la sua profondità, per la sua ricchezza, per la capacità che ha di parlare all’uomo di oggi.

Di lei abbiamo pubblicati ormai nella loro integralità i diari e le lettere che sono state conservate, e su di lei un’ormai folta bibliografia; occorre allora spiegare il senso di una nuova raccolta antologica.

Per farlo, vorrei iniziare da queste parole di Etty Hillesum, scelte tra le più sconvolgenti:

 

Lettera n. 60. A Henny Tideman

Westerbork (campo di concentramento nazista), mercoledì 18 agosto 1943

Oggi pomeriggio, mi riposavo sulla mia branda e d’un tratto ho dovuto scrivere queste cose nel mio diario, te le invio: Mi hai tanto arricchita, mio Dio, fa’ che anch’io possa elargire a piene mani. La mia vita si è trasformata in un unico dialogo ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande dialogo. Quando sono in un angolino del campo, i piedi ben saldi sulla tua terra, la testa alzata verso il tuo cielo, a volte scendono sul mio volto lacrime che nascono da un intimo moto di gratitudine alla ricerca di un modo per manifestarsi. Anche stasera, mentre distesa a letto riposo in te, mio Dio, mi scendono sul volto lacrime di gratitudine ed è questa la mia preghiera.

 

Suona folle, inconcepibile, incomprensibile che una ragazza di 29 anni spenda lacrime di gratitudine per Dio in un campo di concentramento e possa, da là dentro, proclamare che la sua vita è un ininterrotto dialogo con Lui.

Ma queste parole suonerebbero ancora più strane al lettore che conoscesse Etty per come si presenta nelle prime pagine del Diario (primavera 1941) e da lì saltasse verso la fine (estate 1943): una ragazza intelligentissima e colta ma – a suo stesso dire – terribilmente egocentrica, stretta in un nodo interiore ingarbugliato, assillata dalla paura di essere pazza e dal pensiero del suicidio; incapace di godere i piaceri della vita da cui è piuttosto divorata, come esplosa in mille pezzi che non riescono in nessun modo a trovare una qualche unità.

Io sono convinta che per riportare alla loro verità parole come quelle occorra incastonarle nel percorso spirituale entro il quale sono potute fiorire. Con quanta più precisione si ricostruisce questo percorso, con tanta maggior profondità si può comprendere non solo ciò che ha scritto ma ciò che ha fatto questa giovane donna, in particolare la sua scelta di farsi inviare nel campo di Westerbork, di seguire spontaneamente il “grande flusso” delle deportazioni.

E con un’attenta opera di ricostruzione dei suoi progressi spirituali riconduciamo la Hillesum  a tutta la sua umanità, che è stata un’umanità vera, piena, altrettanto vera e piena di quella di chi allora ha cercato di fuggire la minaccia nazista.

Di più: ricostruendo questo percorso, siamo in grado di inserirla in una lunga schiera di “spirituali” che, in secoli, latitudini e tradizioni diverse, hanno vissuto un’esperienza simile e quindi hanno parlato anche un linguaggio simile.

Nel saggio Uno sguardo nuovo, dicevo che leggendo Etty talvolta sembra di leggere Silesio o Teresa d’Avila, anche se non sono mai citati.

La mia antologia quindi vuol essere una sorta di mappa che orienti il lettore a capire la crescita spirituale di Etty individuandone i punti e le parole chiave. La nuova traduzione in cui offro i testi non pretende certo di sostituirsi a quella splendida dell’edizione Adelphi, ma ha l’intento di mettere in risalto il lessico mistico – riportato poi nel glossario finale –, anche a costo di mantenere eventuali ripetizioni o dissonanze, di modo che al lettore sia possibile rinvenirle e seguirle là dove sono nell’originale.

La ragazza afflitta da mille problemi si reca da uno psicoterapeuta junghiano che le era stato raccomandato, l’ebreo tedesco Julius Spier, sedicente “psicochirologo” che con una serietà e un impegno degni di nota viveva quotidianamente e cercava di trasmetterla ai suoi pazienti una scoperta che aveva fatto: una concezione oggi diremmo olistica della salute, per cui per curare la psiche occorre dedicarsi anche allo spirito; personaggio affascinante, carismatico, coltivava una sua particolare ma seria spiritualità – ispirata alle religioni orientali ma soprattutto ai vangeli e al nuovo testamento.

L’incontro con lui segnerà una svolta in Etty, una vera conversione nel senso etimologico; in poco tempo, sarà il legame profondo che si stabilisce tra i due, i consigli terapeutici, la scrittura del diario, la conoscenza della fede di Spier e della sua attitudine a pregare, sarà il frequentare il circolo che era nato intorno a Julius, oppure tutto questo insieme, fatto sta che in pochissime settimane Etty non solo può sentirsi guarita da tutti i suoi mali ma la sua vita cambia.

Inizia a dedicarsi a quella che chiama igiene spirituale: liberarsi dal proprio piccolo io, ascoltando dentro se stessa, andare più in profondo dell’io psicologico, sgombrare il campo dal ciarpame che sono i sentimenti meschini, appropriativi, egocentrici, allargare i confini dell’anima, dare spazio a ciò che sale da dentro, ascoltarsi dentro, diventare impersonale.

 

Quell’io così ottuso, con i suoi desideri che si limitano a inseguirne le meschine soddisfazioni, deve essere sradicato, estinto

La maggior parte delle persone ha in testa rappresentazioni convenzionali della vita, invece ora bisogna liberarci interiormente di tutto, di ogni rappresentazione fossilizzata, di ogni slogan, di ogni legame, bisogna avere il coraggio di distaccarsi da tutto, da ogni modello e da ogni punto di riferimento convenzionale, bisogna osare il grande salto nel cosmo e allora, allora la vita diviene infinitamente ricca, traboccante di doni, anche nella sofferenza più profonda”.

 

Scopre un centro dentro di sé, che si allarga sempre di più, la vita comincia a diventare un’unica grande avventura interiore. Punteggiano le pagine del diario termini come quiete, vastità, semplicità. Etty guarisce dalla sua mortale infelicità, e fa tutta una serie di scoperte sulla vita, sul mondo, su Dio.

 

Il centro intimo, che si fa sempre più vasto fino a divenire “un regno”, “una grande sala”, fino a ospitare il cielo (“la grande beatitudine”) è quel tesoro evangelico per il quale val la pena vendere tutto il resto: lì abita Dio e se quella dimensione diviene la tua casa, allora niente e nessuno può farti del male. Nemmeno i nazisti, da cui Etty non vuole fuggire, per un senso di responsabilità storica, per non sottrarsi al destino comune del suo popolo, tanto “non si è nelle grinfie di nessuno se si riposa nelle braccia di Dio”.

Grazie a questa scoperta, di sé e di Dio allo stesso tempo, cresce in lei a dismisura, insieme a una grande quiete interiore, la fiducia nella vita, quel fiducioso abbandono che si chiamerà negli scritti dell’ultimo anno – perché la Hillesum legge un’antologia di scritti di Meister Eckhart e la porta con sé a Westerbork - gelatenheid, la gelassenheit eckhartiana.

Fiducioso abbandono alla vita, alla corrente sotterranea di senso ed energia che pervade tutto, al Cosmo, in una parola a Dio.

Un Dio che coincide con l’io più profondo di noi, che è anche un Tu a cui rivolgersi, riguardo al quale Etty fa poi una scoperta illuminante: non è Lui che può aiutarci ma siamo noi a dover aiutare Dio. E’ proprio aiutandolo a vivere in noi, a riempire il nostro spazio interiore che salviamo noi stessi, ed è l’unica salvezza possibile.

 

In tutto questo si inserisce il suo discorso così peculiare sull’odio e l’amore, il suo insistere a non voler odiare i tedeschi, a distinguere le persone e non generalizzare, pensare che anche i soldati tedeschi hanno madri che li piangono al fronte feriti o morti. E poi l’odio è una malattia dell’anima. Tra tutto il ciarpame di sentimenti bassi e meschini che va rimosso dal nostro interno, l’odio è il più velenoso, così come le parole di odio – a spargerle in giro – avvelenano l’atmosfera e gli animi degli altri. E non solo, esso è anche una mozione di sfiducia nei confronti della vita, di Dio; vuol dire pretendere di saper giudicare, pretendere che la vita sia bella solo quando va secondo i nostri piani.

L’amore e la compassione, invece, sono sentimenti originari in noi, primitivi, ma vengono poi sepolti sotto cumuli di scorie. Per fortuna ci sono parole, come quelle del famoso inno alla carità di san Paolo (ICor13) che fungono da bacchette da rabdomante, sono capaci di intercettare la corrente di acqua viva che scorre nel profondo di noi, una corrente di Amore universale che, dal momento in cui lo si fa emergere e sgorgare, si espande all’infinito e permette di dimenticare se stessi per gli altri, in una donazione totale di sé: “ho spezzato il mio corpo come fosse pane”, così termina il diario di Etty.

Così questa giovane donna rispose alle tragiche domande che il suo tragico tempo poneva, facendosi carico di quella che individuò come la sua “piccola missione”, come il compito tutto suo: disseppellire Dio dal cuore devastato degli uomini braccati, perseguitati, oppressi e, sforzandosi di mantenere odorosa la sua anima, dire una parola nuova per il dopo. Nel campo provare ad essere il cuore pensante, colei che nell’apparente assenza di qualunque senso, di qualunque traccia di Uomo e di Dio – se manca l’uno manca l’altro perché sono la stessa cosa -  ne testimoni la presenza, testimoni che Dio c’era, c’era anche nel bel mezzo della Shoà.

E credo che ancora oggi Etty possa parlare ai cuori spezzati degli uomini.  Il suo itinerario spirituale si dà a noi come traccia, come pista da seguire. Mutatis mutandis, è evidente, ma quello che ha vissuto lei, che ha “realizzato” dentro di sé e quindi anche fuori, è possibile a tutti, in misura diversa forse, ma è possibile a tutti.

Anzi, sono convinta che tutti siamo proprio chiamati a questo, che mettersi in ascolto di ciò che sale da dentro e vivere radicati nello spirito – ovvero in interiore homine, dove Dio abita -sia proprio la nostra più nobile e vera natura, quella di “scintille” di Dio, che aspetta solo di essere realizzata. E che questo sia il vero senso di ogni cammino religioso.

Dunque la Hillesum va inserita, come lei stessa d’altronde si sentiva di essere, tra i grandi spirituali di sempre (diceva di essere una degli eletti di Dio, di essere erede di un grande lascito spirituale e di sentirne tutta la responsabilità); con un punto di forza tutto suo: con la libertà di costumi che la contraddistinse, con tutte le contraddizioni, la distanza dalle istituzioni religiose e dai dogmi, per la forza che aveva in lei la parte “razionale, critica, atea”, potremmo dire nihilista, più di altri forse sa parlare all’oggi perché appartiene profondamente alla nostra epoca.

Potremmo definirla, con una parola che va fin troppo di moda, ma che trovo bella, maestra di resilienza, se resilienza è imparare a guardare con occhi nuovi gli eventi avversi e farne occasioni, occasioni di crescita, occasioni per sviluppare appieno il proprio potenziale.

Maestra di resilienza perché ci insegna che ciò che può mutare lo sguardo e regalarcene uno nuovo è la vita che si attinge nello spirito, nel profondo di noi laddove, per usare l’immagine che dà il titolo all’antologia, il profumato e virgineo gelsomino - che fuori le tempeste della vita tentano di abbattere e deturpare facendone cadere i bianchi fiori nelle melmose pozzanghere – può continuare invece a fiorire indisturbato.

 

Beatrice Iacopini

 

*Etty Hillesum, Il gelsomino e la pozzanghera, Le Lettere 2018, 14,00

Antologia di testi dal Diario e dalle Lettere. A cura di Beatrice Iacopini

 

 

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