Koinonia Giugno 2018


IL BANCHETTO DEL REGNO (I)

 

 Parte prima: L’umiltà di Dio

 

Non è forse proprio lo sperare di essere un giorno a tavola con il Signore nel suo Regno, insieme all’attesa della risurrezione dei morti, il cuore, lo specifico della fede cristiana? Nel Regno, che ancora non c’è, ma che incessantemente siamo chiamati a invocare che “venga” nell’unica preghiera che Gesù ci ha insegnato (Mt 6,10; Lc 11,2), entreremo in carne e ossa, così come in “carne e ossa” (Lc 24,39) è già ora il Risorto che siede “alla destra di Dio” (Mc 16,19) e che di nuovo “verrà” (At 1,11), nel giorno ultimo. E insieme al Signore verrà anche la “Gerusalemme nuova”: lì ci incontreremo, e sarà luogo in cui finalmente “non vi sarà più la morte / né lutto né lamento né affanno … perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,1-4).

Ma se le cose di prima passeranno lo sarà nel senso che saranno redente e consolate non cancellate, dimenticate. La fede è sempre un atto di memoria, memoria di un futuro che ci è stato promesso e nel quale proprio per questo davvero speriamo. Le lacrime che il Signore tergerà dai nostri occhi non possono che essere le lacrime versate durante ciò che avremo patito nel passato della nostra vita. Se sono “beati” già ora “quelli che sono nel pianto” è per un motivo soltanto, “perché saranno consolati” (Mt 5,4).

E se deve essere così per noi in quanto singoli, lungi da ogni intimistica spiritualizzazione, a essere salvata sarà anche l’intera comunità umana, dalla prima all’ultima generazione della storia: guai a dimenticare coloro che giacciono da gran tempo sottoterra. “Io sono la Vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui!”, fa dire a Gesù un’antica omelia del Sabato Santo (PG 43,439), sarà dunque un salvarsi insieme, noi e il Dio fatto uomo, bisognosi della stessa unica salvezza.

  Ma se ci è possibile sperare nel banchetto del Regno è perché è stato il Signore stesso a promettercelo, in particolare quando si trovò una sera nei pressi di Gerusalemme con i suoi discepoli attorno a una mensa per consumare quella che sarebbe stata la sua ultima cena, e con addosso il terrore della morte. Lì infatti il Cristo diventerà per noi “l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29), proprio offrendosi - allora come ora e ogni giorno sulla faccia della terra - come agnello “immolato” (Ap 4,5.6.12).

È con nel cuore la salvezza futura che dobbiamo continuare a riunirci “in memoria” di lui attorno a una tavola (Lc 22,14-20), che è insieme anche altare del sacrificio, altare in cui ogni volta, il Cristo che “morì una volta per tutte” (Rm 6,10), continua a donarsi offrendo anche a noi la speranza di risorgere come egli è risorto. Nella sua umiltà Dio è sceso tra noi come “ultimo Adamo” diventato, proprio per questo, “spirito datore di vita” (1Cor 15,45), scegliendo di continuare a farci compagnia col suo corpo e col suo sangue in un piccolo pezzetto di pane e in un goccio di vino durante le nostre misere eucaristie.

“Guardate, frati, l’umiltà di Dio!”, diceva ai suoi amici il Poverello d’Assisi davanti a tale mistero (Fonti Francescane, 221). Qui non siamo di fronte al divinizzarsi della cosa piccola ma all’umanizzarsi, all’abbassarsi, al diventare inimmaginabilmente piccolo di ciò che è infinitamente grande. Qui è in qualche modo Dio stesso, nel Figlio, a diventare l’umile agnello del sacrificio pasquale, è lui il “servo di JHWH” che diventa “pecora muta”, “agnello condotto al macello” di cui profetò Isaia secoli prima (Is 53,7). Solo così ha potuto vincerla la morte e donare anche a noi speranza di vita eterna.

 Pochi sono riusciti a esprimere questa umiltà di Dio che mendica il nostro amore quanto Miguel de Unamuno: “Si è racchiuso il Verbo in un pezzo di pane materiale, affinché noi mangiandolo lo si faccia nostro, parte di questo nostro corpo dove abita lo spirito, e si agiti nel nostro cuore, pensi nel nostro cervello e sia coscienza. Lo hanno imprigionato in quel pezzo di pane affinché, seppellendolo nel nostro corpo, risusciti nel nostro spirito” (Del sentimento tragico della vita).

Come ha fatto notare anche Ivan Illich, i primi cristiani si riunivano non solo per mangiare, ma anche per respirare insieme, nell’unico Spirito che li univa tra loro e al Cristo. Per questo prima di sedersi a tavola, durante l’Eucaristia, essi vivevano insieme la cosiddetta conspiratio, “espressa dal bacio bocca a bocca”, a significare “che ciascuno dei presenti attorno alla mensa contribuiva col proprio spirito” (Pervertimento del cristianesimo) a formare intensamente la comunità spirituale del Regno in attesa di avere presto tra loro anche il Signore in carne e ossa.

Proprio per questo, che il Verbo, il Cristo risusciti soltanto nel nostro spirito non basta, egli deve con la potenza della sua risurrezione coinvolgere anche il nostro corpo, solo così si compirà davvero quanto ci è stato promesso. Solo così il mistero del “battesimo”, grazie al quale “siamo stati sepolti insieme” al Signore (Rm 6,4), diventerà una cosa sola col mistero dell’Eucaristia, nel quale è lo stesso corpo del Signore che seppelliamo, mangiandolo, nel nostro corpo mortale affinché possiamo un giorno risorgere come egli è risorto. “Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione” (Rm 6,5). E non solo noi risorgeremo grazie a lui, ma anche lui, in qualche misterioso modo confermerà il suo essere risorto con noi che risorgeremo: solo così la nostra fede non sarà stata “vana” (1Cor 15,15-17). Per questo il “bacio santo” con cui ci si deve salutare radunandosi nelle case per la “cena del Signore”, diventa una cosa sola col desiderio del ritorno del Signore espresso nell’invocazione: “Maràna-tha!” (1Cor 11,20; 16,19-22).

Sergio Quinzio, nel concludere il suo penultimo libro, La sconfitta di Dio, arriva a toccare un simile mistero: “Mentre Dio è ‘sconfitto’, ‘sconficcato’ lasciato cadere come un inutile brandello e dimenticato, noi con la nostra fede saliamo sulla croce… e avverrà il supremo capovolgimento. Il nostro sacrificio infonderà vita, risusciterà Dio. Dio che si è offerto a noi, che aspetta da noi la salvezza”. Ricordo come ora quando Guido Ceronetti mi sbatté sul tavolo di casa sua a Cetona quel libro appena uscito dicendomi arrabbiato: “Io almeno un po’ di luce la lascio!”. Eravamo io e lui soli, e non tentai nemmeno di replicare, ma ero convinto che insieme alla sconfitta di Dio, Sergio aveva mantenuto ancora nel cuore una speranza di salvezza e un fondamento di fede, che Ceronetti nemmeno immaginava.

La salvezza ha un prezzo altissimo e saranno molte le macerie che resteranno sul terreno della storia. Questo non altro ci rivela, a saperlo comprendere fino in fondo, il mistero della croce di Cristo! È soltanto diventando agnello macellato che il “buon pastore” (Gv 3,11) riuscirà alla fine a strappare, “dalla bocca del leone” (Am 3,12), il misero brandello di quella umanità che ha fatto di tutto pur di salvarla amandola fino a morire.

 Dio è nel gemito, Dio soffre, per questo nel Regno non soltanto egli asciugherà le nostre lacrime ma anche noi le sue, lui che ha persino promesso, in Cristo, di mettersi il grembiule e di servirci a tavola. Tale sarà la sua gioia nel ritrovare chi avrà avuto la forza di combattere, credere e aspettare il suo ritorno fino all’inverosimile, fino al culmine della notte, quando ormai nessuno riuscirà più nemmeno a pensare come egli possa ancora tornare a salvarci (cfr. Lc 12,37-40).

 L’Amnios, l’umile “Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29), annunciato dal Battista e del quale ha parlato Giovanni nel suo vangelo, diventerà nel giorno ultimo, secondo l’Apocalisse, l’Arnion, l’“Agnello” che, sebbene immolato, sta “in piedi” e possiede “sette corna” (Ap 5,6), diventerà cioè onnipotente e vittorioso proprio perché prima capace di scendere fin negli abissi dell’umiliazione, e della morte. “Dieci corna” ha “la bestia”, corna che altro non sono che “dieci re” che ce la mettono tutta pur di vincere l’“Agnello”, ma nulla possono e sarà lui alla fine a vincerli, “perché è il Signore dei signori e il Re dei re” (Ap 17,11-14).

E “al vincitore”, a chi cioè riuscirà fino all’ultimo a credere e attendere con tutto il cuore la vittoria dell’Agnello, sarà data infine “la manna nascosta” (Ap 2,17), quella che Geremia nascose in una “caverna”, nel luogo che “deve restare ignoto, finché Dio non avrà riunito la totalità del popolo e si sarà mostrato propizio” (2Mc 2,4-8). Una manna che rappresenta il nutrimento del Regno, quello che il popolo d’Israele attendeva ogni giorno che scendesse dal cielo, da Dio, durante il durissimo cammino nel deserto.

E tuttavia si sappia che “il pane dal cielo, quello vero” non sarà alla fine “la manna” mangiata “nel deserto”, ma “colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” e che disse: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo … Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,30-54). Come il “sangue dell’alleanza” del Signore tornerà a essere “frutto della vite” (Mt 26,28-29), così la sua “carne” tornerà a essere vero “pane”, simile a quello che nel deserto scendeva ogni giorno dal cielo per il popolo affamato nel duro cammino verso la terra promessa.

Il Vangelo di Giovanni non ha il racconto dell’ultima cena, ma soltanto parole come queste pronunciate “nella sinagoga a Cafarnao”, parole che noi accogliamo senza battere ciglio ma che allora suonavano tutt’altro che orecchiabili. Infatti non la gente comune, ma “molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: ‘Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?’”. E ne furono a tal punto scandalizzati che “da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui” (Gv 6, 59-66).

Non si può capire nulla del mistero sprigionato in quell’offrirsi a noi di Dio in Cristo, senza provare scandalo: guai, diceva Karl Barth, pensare di avere a che fare con Cristo senza scandalizzarsi. Davanti a molte parole e fatti che ci raccontano i Vangeli, soltanto se lì per lì riusciamo a scandalizzarci riusciremo anche a comprendere fino in fondo quello che il Signore ha da dirci.

 Il memoriale della Pasqua ebraica, probabilmente celebrata quella stessa sera, diventerà a sua volta, nelle nostre eucaristie, memoriale dell’ultima Cena come pregustazione del banchetto del Regno. Ma viene sempre da lì, dalla stessa speranza di Israele. I primi cristiani “ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore” (At 2,46). Il tempio è stato distrutto nel 70 d.C. ed è significativo che in questo versetto si parli della prima comunità giudaico-cristiana che fino a quel momento non percepisce ancora alcuna contraddizione nel frequentare quotidianamente il tempio, con tutto ciò che la Torah prescriveva, e il ritirarsi intimo nelle proprie case a spezzare il pane della santa cena.

Come dirà Paolo “apostolo delle genti”, noi altro non siamo che rami di “olivo selvatico” semplicemente innestati nell’olivo buono d’Israele, da quello noi riceviamo la “linfa”, è quella la “radice” che ci “porta” (Rm 11,13-18). Scordarsi delle proprie origini, sarebbe esattamente un guaio quanto lo scordarsi delle cose ultime, è soprattutto questo il motivo per cui la Chiesa non può scordare la presenza millenaria, accanto a sé della Sinagoga, di quel “servo muto” di cui ha fatto cenno Franz Rosenzweig scrivendo a Eugen Rosenstock, ebreo convertito fin da giovane al cristianesimo: “Perché voi che vivete in una ecclesia triumphans avete bisogno di un servo muto che ogni volta che credete di aver racchiuso Dio nel pane e nel vino vi gridi: Signore, ricordati delle cose ultime” (citato in H. J. Schoeps, J?dische Geistwelt). Come a dire: guai se la memoria dell’ultima cena resta del tutto bloccata, in quanto memoriale, al presente della mensa eucaristica, scordandosi di aspettare il Cristo che ha promesso di tornare a bere insieme a noi il vino “nuovo” (Mt 26,29) attorno al banchetto del Regno.

 

Daniele Garota

(1. continua)

 

.