Koinonia Giugno 2018


Per fare LA conoscenza DI Faraj Bayraqdar*

 

Nato nel 1951 in un paesino del governatorato di Homs, Faraj Bayraqdar ha conosciuto innumerevoli celle e tre lunghi periodi di detenzione. Il primo risale al 1978, quando era studente di letteratura all’Università di Damasco e pubblicava, assieme ad alcuni compagni di studi, una rivista culturale ostile al regime di Hafez al-Assad. Arrestato dai servizi segreti dell’aeronautica militare, Bayraqdar ha scontato diversi mesi, prima di essere rilasciato e arrestato di nuovo, il giorno dopo il rilascio, dai servizi di sicurezza interna. Contro di lui c’era una seconda accusa - affiliazione al partito comunista laburista siriano (hizb al-’amal al-shuyú`í) - e su questa base lo hanno trattenuto, di nuovo, per diversi mesi. Nel 1987 è stato arrestato una terza volta e tenuto in carcere senza processo fino al 1993, per poi essere condannato a quindici anni di lavori forzati per partecipazione ad attività politiche sovversive.

 

Dal 1987 al 1993, Faraj Bayraqdar ufficialmente non esiste. Privato delle visite in carcere, non ha notizie della sua famiglia, e  questa non ha notizie di lui. Privato di radio e di giornali, non ha alcuna possibilità di sapere quello che succede nel mondo esterno. Perfino la privazione del nome, evocata in seguito in uno scritto in prosa, completa questa strategia carceraria, che mira a togliere al detenuto qualsiasi forma di identità personale: “All’inizio ci hanno dato numeri al posto dei nomi. In seguito, soprannomi ispirati al nostro aspetto fisico o al colore dei nostri vestiti: pigiama blu, camicia beige, maglione grigio, biondo cacca, moro cane, testa di mulo, nuca pelata, e così via. I primi mesi avevo molti nomi, voglio dire numeri, [...] ma il nome che mi ha accompagnato più a lungo, e con cui ero conosciuto, era detenuto numero 13. Forse è un numero sfortunato a parere di molti, fuori. Dentro, invece, tutti i numeri sono sfortunati e maledetti e figli di cane”.

 

Dentro e fuori sono, per questi primi sei anni, due mondi paralleli, che non si incontrano mai. In una recente intervista, Bayraqdar parla di questa cesura come di un annientamento del senso: “Il carcere è, tra le altre cose, uno spaziò particolarmente ostile e un tempo particolarmente aggressivo, sempre in agguato, e l’unica cosa che può fare un detenuto politico è cercare di tornare a disporre del proprio spazio e del proprio tempo in modo che gli forniscano il retroterra necessario per non farsi inghiottire dal carcere. Il carcere è un tentativo di togliere senso al carcerato, anzi di togliere senso e basta. Creare un senso contribuisce a far fallire la missione del carcere. La creazione artistica in generale, e la poesia in particolare, si basano sull’immaginazione. E non è facile imprigionare l’immaginazione di un uomo all’interno di una cella. La poesia per me è il più bel volo che la libertà possa fare all’interno di una cella e contemporaneamente all’esterno”’.

 

Il senso è creato. Privato di carta e di inchiostro, del supporto materiale su cui scrivere, Bayraqdar scrive con l’immaginazione, registra nella memoria.… L’altalena delle emozioni, tra rabbia e affetto, tra sconforto e nostalgia, è di per sé una vittoria sulla morte del senso che il carcere vorrebbe produrre. Nonostante i periodi di isolamento, Bayraqdar non la vive come un successo individuale ma come una speranza collettiva, da condividere con i compagni. Se la sua poesia li aiuta a resistere alla vita quotidiana di reclusione, sono loro che aiutano il poeta a esistere, fino a toccare il mondo esterno.

 

Il 16 novembre del 2000, grazie all’impegno dell’associazione PEN Club e alle incessanti, pressioni internazionali, Faraj Bayraqdar può uscire di  prigione. Il regime _dí Damasco è a una svolta: Hafez al-Assad è morto il 10 giugno, e il figlio e successore Bashar cerca di dare un’immagine progressista della dittatura. Allo scopo di mostrare clemenza nei confronti degli oppositori, a Bayraqdar viene risparmiato l’ultimo scampolo di detenzione. Crudele ironia: dopo essere stato incarcerato senza processo, privato dei diritti fondamentali, torturato, Bayraqdar è stato graziato di qualche mese di prigione. La clemenza finisce qui. L’apertura culturale annunciata da Bashar, e celebrata con l’appellativo di “Primavera di Damasco”, non sfocerà mai in una riforma delle istituzioni politiche e culturali.

 

Consapevole di non avere spazio nel suo Paese, neppure da uomo libero, Faraj Bayraqdar si trasferisce in Svezia con la famiglia. Tuttora residente a Stoccolma, non ha mai smesso il suo impegno di oppositore politico. Fin dal marzo 2011, quando i siriani sono scesi in piazza per protestare pacificamente contro la dittatura, Bayraqdar non ha mai fatto mancare il suo sostegno alle rivendicazioni laiche e democratiche che sono state espresse.

 

… La poetica di Faraj Bayraqdar può essere condensata in questa armonia di opposti: lunghezza e brevità, realismo e lirismo, crudezza e soavità, sgomento e rigore. Più che una scelta artistica, questa danza di contrari sembra scaturire naturalmente dall’esperienza del carcere, dal volo della mente nella costrizione fisica del corpo. Secondo Bayraqdar, figure retoriche come l’ossimoro, l’antitesi, la metafora non sono frutto di elucubrazioni ma di questo tipo di vita: “Nei momenti duri - voglio dire gli interrogatori e la tortura, per esempio, o i provvedimenti punitivi o la privazione di elementi fondamentali per la sopravvivenza fisica e morale - capita che il carcerato veda l’ambiente che lo circonda come una serie di enigmi confusi, impossibili da penetrare. Se riesce a decifrare il primo strato, ne nota subito un altro del tutto simile, che necessita di un’altra decifrazione, e poi di una terza, e così via. Il che somiglia al gioco della matrioska, anche se in versione insanguinata, cupa, spaventosa. La poesia ‘Matrioska siriana’ non mi sarebbe mai venuta in mente se non ci fosse  stato il carcere. È il carcere che suscita nostalgia e richiama immagini antitetiche. Come quella della farfalla o della colomba ad ali spiegate. In car-cere si può riflettere a lungo e capire il senso profondo della prigionia e della libertà, così come un malato capisce il senso profondo del dolore e della salute”. Quando la detenzione è così profondamente vissuta, sofferta e resistita, può finire per rovesciarsi nel suo opposto, in una condizione paradossale in cui il poeta può dire, fuor di metafora: “La libertà è patria / Il mio Paese è esilio / Io sono il mio contrario”.

 

Elena Chiti

 

* È una riduzione dell’articolo “Faraj Bayrakdar, una colomba ad ali spiegate”

apparso in “Poesia 313”,  marzo 2016

 

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