Koinonia Giugno 2018


L’articolo di Piero Calamandrei (“Il Ponte», luglio 1948)

 

Maggioranza e opposizione

 

Per far funzionare un Parlamento, bisogna essere in due, una maggioranza e una opposizione. Ma non nel senso gastronomico in cui quel ghiottone che fu Iarro soleva dire che «per mangiare un tacchino bisogna essere in due: io e il tacchino»; questa ricet­ta da buongustaio non vale per il Parlamento, dove la maggioranza non deve essere un ventricolo pronto a trangugiare l’opposizione, né un pugno per strangolarla, né un piede per schiacciarla come si schiaccia un tafano sotto il tallone.

La maggioranza, affinché il Parlamento funzioni a dovere, bisogna che sia una libera intesa di uomini pensanti, tenuti insieme da ragionate convinzioni, non solo tolleranti, ma desiderosi della discussione e pronti a rifare alla fine di ogni giorno il loro esame di coscienza, per verificare se le ragioni sulle quali fino a ieri si son trovati d’accordo continuino a resistere di fronte alle confutazioni degli oppositori.

Se la maggioranza si crede infallibile solo perché ha per sé l’argomento schiacciante del numero e pensa che basti l’aritmetica a darle il diritto di seppellire l’opposizione sotto la pietra tombale del voto con accompagnamento funebre di ululati, questa non è più una maggioranza parlamentare, ma si avvia a diventare una pia congregazione, se non addirittura una società corale, del tipo di quella che durante il fatidico ventennio dava i suoi concerti nell’aula di Montecitorio.

Chi dice che la maggioranza ha sempre ragione, dice una frase di cattivo augurio, che solleva intorno lugubri risonanze; il regime parlamentare, a volerlo definire con una formula, non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza.

Ma anche l’opposizione, se si vuol che il Parlamento funzioni, non deve mai perdere la fede nella utilità delle discussioni e nella possibilità che hanno gli uomini, anche uno contro cento, di persuadersi tra loro col ragionamento (che è qualcosa di diverso dalle vociferazioni e dalle invettive). Anche se ridotta a un esiguo drappello di pochi isolati, l’opposizione deve esser convinta di poter prima o poi, colla ostinata fede nella bontà delle proprie ragioni, disgregar la maggioranza e trascinarla con sé; e deve guardarsi dal «complesso di inferiorità» consistente nel credere che restar fuori dal governo voglia dire esser fuori dal Parlamento o ai margini di esso, quasi in esilio o in penitenza.

In realtà, se la opposizione intende l’importanza istituzionale della sua funzione, essa deve sentir­si sempre il centro vivo del Parlamento, la sua forza propulsiva e rinnovatrice, lo stimolo che dà senso di responsabilità e dignità politica alla maggioranza che governa: un governo parlamentare non ha infatti altro titolo di legittimità fuor di quello che gli deriva dal superare giorno per giorno pazientemente i contrasti dell’opposizione, come avviene nel volo aereo, che ha bisogno per reggersi della resistenza dell’aria.

Si dirà che questo idilliaco quadro del governo parlamentare pecca di ingenuo ottimismo. E sia pure. Ma insomma, chi vuol sul serio il sistema parlamentare non può concepirlo che così: altrimenti del Parlamento resta soltanto il nome sotto il quale può anche rinascere di fatto la «Camera dei fasci e delle corporazioni».

Ora, a guardar le prime prove date dal nuovo Parlamento italiano, ci sarebbe da credere che in questa Camera (parlo specialmente della Camera dei Deputati) gli elementi indispensabili del sistema parlamentare, una maggioranza e una opposizione, manchino purtroppo tutt’e due. Certo, a guardare al numero, una maggioranza c’è: e come plumbea e massiccia! E in quanto all’ opposizione, se per costituirla bastassero i clamori, anche i sordi si accorgerebbero che l’opposizione non tace.

Ma quel che manca per ora tra queste due quantità contrapposte è un terreno comune di discussione, sul quale possa svolgersi quella dialettica di ragionati contrasti che è già, nelle lotte parlamentari, un modo di solidarietà e di collaborazione. Affinché dall’incontro della tesi coll’antitesi venga fuori la sintesi, ossia, per parlar più semplice, affinché dalle discussioni tra due contraddittori venga fuori una soluzione intermedia che abbia qualche costrutto pratico, occorre prima di tutto che tutt’e due cerchino di capirsi, cioè di capire almeno quali sono i punti del loro dissidio; ma in questo Parlamento sembra proprio, finora, che i due antagonisti facciano di tutto per non capirsi, per non incontrarsi se non in veri e propri «Incontri» di natura pugilistica; l’opposizione non fa nulla per farsi ascoltare, la maggioranza si rifiuta energicamente di stare ad ascoltare l’opposizione. Vanno avanti, gli uni e gli altri, per proprio conto, su due diversi piani, sui quali non avranno mai l’occasione di imbattersi e di guardarsi in faccia.

Non c’è dubbio che il livello qualitativo della nuova Camera è molto più scadente di quello dell’Assemblea costituente. I migliori componenti di questa, i parlamentari più vecchi e più autorevoli, e anche quei pochi uomini politici nuovi che si erano distinti nelle commissioni della Costituzione, sono passati al Senato, o sono rimasti soccombenti nelle elezioni.

Il difetto fondamentale del sistema proporzionale, che è quello di portare in Parlamento non uomini qualificati per i loro meriti individuali, ma pedine di un partito (tantoché talvolta ci si domanda perché le sedute parlamentari non si riducano per semplicità a riunioni dei soli capigruppo, ognuno dei quali si porti in tasca per le votazioni tante palline quanti sono i deputati ai suoi ordini), è stato aggravato, nell’interno delle liste di partito, da quell’infido congegno di selezione a rovescio che è il giuoco delle preferenze: in grazia del quale, in ciascuna lista, vengono a galla i più intriganti a scapito dei più meritevoli, che sono sempre i più discreti e i meno disposti all’intrigo. Questa generale decadenza qualitativa, la quale, anche quando l’aula è piena, diffonde intorno un senso di vuoto, è visibile, mi pare, in tutti i settori; ma soprattutto è visibile in quelli della Democrazia cristiana, la quale laborat magnitudine sua: ha vinto troppo, e soffre di questa sua vittoria ipertrofica che l’ha costretta a riempire gran parte dei suoi seggi con uomini improvvisati, che ignorano l’abbecedario parlamentare e che per ora non hanno altra esperienza politica che quella, piuttosto sommaria, fatta nei comizi della campagna elettorale. E questo sarebbe il minor male: perché sempre è accaduto che i nuovi eletti non avessero alcuna esperienza parlamentare e che, in breve, col prendere parte ai lavori del Parlamento, riuscissero a procurarsela. Ma qui il male è più grave: ed è che questa mastodontica maggioranza democristiana è venuta fuori non da una lotta politica, ma da una lotta religiosa; sicché questa massa di gregari, usciti vittoriosi da questa lotta di religione, cova in sé tutte le intolleranze di chi è riu­scito a mettere in fuga gli eretici e a ricacciare i diavoli nell’inferno. [ ... ]

In tutte le assemblee parlamentari, e anche nella Camera italiana dei tempi migliori, zuffe ci son sempre scappate ogni tanto; e sono state considerate sem­pre con indulgenza, come segni di esuberante vitalità politica. Non si dimentichi che quasi mezzo secolo fa a Montecitorio si dové provvedere a inchiodare i calamai sui banchi, come sono tuttora, per evitare che gli onorevoli se li lanciassero da un settore all’altro (una volta uno di questi proiettili sperduti giunse a macchiare il palamidone di Giolitti); e che ci fu perfino un presidente contro il quale i deputati dell’estrema sinistra si divertivano a tirare pallo­tole di carta per spregio! Ciò che invece, secondo me, meglio rivela gli umori intransigenti di questa maggioranza, la quale, secondo i momenti, è pronta a trasformarsi in un’agitata confraternita di flagellanti o in una raccolta processione di salmodianti, è la sprezzante noncuranza manifestata più volte contro l’opposizione col silenzio e colla deliberata astensione da ogni reazione polemica: com’è avvenuto, se non sbaglio, anche durante il discorso ultimo dell’onorevole Togliatti, alle cui critiche sferzanti la maggioranza seduta ha saputo contrapporre una compunta e disciplinata sordità. [...] Queste forme di sprezzante rifiuto, colle quali la maggioranza ostenta di non degnarsi neppure di discutere gli argomenti dell’opposizione, mi sembrano, per la sorte del sistema parlamentare, più pericolose delle reazioni violente; è una specie di ostruzionismo a rovescio con cui la maggioranza, mirando a screditar l’opposizione, viene in realtà a tradire la ragion d’essere del Parlamento, nel quale il voto dovrebbe essere in ogni caso la conclusione di una discussione e non il mezzo brutale per soffocarla.

Questa è la maggioranza: ma che diremo di questa opposizione? Essa sembra fatta apposta, su misura, per favorire il giuoco della maggioranza: per aiutare questa a diventare più compatta e impenetrabile e superba della sua onnipotenza. [...] Questa non è opposizione parlamentare: questo negare la legittimità elettorale della maggioranza e la legittimità costituzionale del governo, questo accusare la maggioranza e il governo di essere strumenti dello straniero, possono essere motivi eccitanti di agitazione rivoluzionaria, in momenti in cui si crede di poter passare a breve scadenza dall’azione parlamentare all’azione diretta. Ma se l’opposizione ha intenzione di rimanere in Parlamento (e ci dovrà rimanere per cinque anni!), questo tentativo di mettere fuori legge la maggioranza e il governo perde ogni mordente: irrita senza far paura; alla fine la stessa foga di chi lancia queste accuse si smorza e tradisce la fiacca. E tutto questo potrebbe servire soltanto a far sorgere o a rafforzare nella maggioranza o nel governo l’idea di metter fuori legge l’opposizione.

E qui ci sarebbe da domandarsi se il Partito comunista, colla tattica da esso adottata in tutto il mondo, possa rassegnarsi in una funzione di critica cooperante e costruttiva, quale è, secondo il classico sistema parlamentare, la funzione dell’opposizione «di sua maestà». C’è da dubitarne: e la conferma se ne ha nell’atteggiamento che ha assunto in Italia dopo lo scioglimento del «tripartito», quando, per il fatto di non esser più al governo, ha cominciato a gridare allo scandalo e al tradimento, e a condurre nell’aula un’opposizione piena di risentimenti verbali ma vuota di ogni costrutto tecnico, che ha rafforzato nell’opinione pubblica la posizione del governo democristiano e che è stata una delle cause più decisive della sconfitta elettorale del fronte.

Insomma l’atteggiamento dei comunisti italiani da un anno a questa parte par che sottintenda questa premessa: che un governo per essere legittimo deve esser affidato al Partito comunista o a una coalizione di cui esso faccia parte; e che là dove il giuoco parlamentare abbia messo i comunisti in minoranza, sì da costringerli a restare all’opposizione, solo per questo il governo sia illegittimo o traditore del popolo. Ma questo non è il sistema parlamentare: nel quale l’opposizione va fatta dal di dentro, prendendo sul serio il metodo democratico, e non dal di fuori, per screditarlo e per impedirne il normale funzionamento.

Purtroppo anche questo atteggiamento della minoranza comunista deriva da una fondamentale intransigenza dogmatica che è molto simile a quella della maggioranza democristiana. [ ... ]

In questo fronteggiarsi di due intransigenze religiose, sembra quanto mai problematico che ci sia da attendersi dalle nuove assemblee legislative un funzionamento corrispondente alla fisiologia del sistema parlamentare: e si può dubitare se non ci si avvii a una situazione parlamentare che riproduca in forma torpida e cronica quella stessa malattia di cui in forma acuta soffrì la Camera italiana tra il 1924 e il 1927, quando la maggioranza considerava gli oppositori («biechi» e «lividi» per definizione) come banditi, e l’opposizione aventiniana a sua volta aveva lasciato l’aula proprio per non aver contatto con quella maggioranza di ritenuti criminali, coi quali non c’era più la possibilità morale neanche di una discussione polemica in stile parlamentare. Anche allora il piccolo drappello comunista, dopo essere uscito col grosso della secessione aventiniana, rientrò coraggiosamente nell’aula per sostenervi fino all’estremo la parte dell’opposizione; ma voleva essere (come ebbe a dichiarare, in uno dei suoi memorabili scontri di ingiurie colla maggioranza fascista, il deputato Maffi) una opposizione di carattere meramente agitatorio, fatta per lanciare messaggi rivoluzionari al paese e non per aiutare il governo con critiche costruttive. Anche allora la maggioranza ostentava di voler ignorare l’opposizione e l’opposizione negava la legittimità della maggioranza; il discorso che costò la vita a Giacomo Matteotti fu, anche allora, una requisitoria contro le violenze elettorali.

Per fortuna oggi manca il peggio, cioè il fascismo; manca il delitto; manca la violenza armata. Non c’è, tra questi due gruppi contrapposti, l’ombra di una «questione morale»; a capo del governo non c’è un dittatore demente, ma un onest’uomo che personalmente ama la libertà; e, a capo dello Stato, un uomo saggio che non si presterebbe a lasciarla tradire. E poi chi osserva come si comportano, dopo essersi colluttati e insolentiti nell’ aula, i deputati delle due opposte schiere quando si incontrano nel bar del «transatlantico» si riconforta accorgendosi che i loro rancori non devono essere molto penetranti, se non impediscono agli avversari di ritrovarsi insieme, subito dopo, a prendere il caffè ... [ ... ]

E tuttavia, anche a non voler vedere le situazioni in luce drammatica, certo è questo: che per ora, in questa Camera, una opposizione parlamentare non c’è; che per ora manca, in questo Parlamento, quella dialettica di ragionati contrasti, che è lo stimolo vitale di ogni regime democratico. [ ... ]

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