Koinonia Maggio 2018


Il ‘68 come categoria dello spirito

 

 “QUESTIONE ECCLESIALE” E NODI DA SCIOGLIERE

 

 “Nel 1969, dopo l’allontanamento da Firenze, mi trovo a Pistoia. Il coinvolgimento nella vicenda Isolotto mi aveva però segnato, non tanto per i provvedimenti a mio carico quanto piuttosto per la problematica che era esplosa e che  faceva parte ormai di un vasto incendio che andava sotto il nome di dissenso, contestazione, l’equivalente ecclesiale di rivoluzione, lotta di classe e altri ecc…

 

Ragion per cui mi sono ritrovato  dentro queste situazioni, al tempo stesso in cui ero interessato a capire cosa stesse succedendo al di là dei fatti di cronaca e a pensare quali strategie di pensiero e di azione fossero necessarie  per uscire da questo stato di conflitto, standoci dentro. Soprattutto perché in gioco c’era il senso e il destino dello stesso Concilio Vaticano II all’indomani della sua chiusura.

 

Come traccia di questo lavorio interiore  - per di più dentro una condizione di vita conventuale “reazionaria” -, nell’ottobre del ’69 la rivista “Vita sociale” ospita una mia riflessione dal titolo ambizioso - “Proposta per l’Isolotto” - ma indicativo per un  orientamento evangelico e pastorale nel futuro. In effetti, rileggendo questo articolo dopo cinquanta anni, vi ritrovo i termini di una “questione ecclesiale” che ha fatto da leit-motiv nella vicende successive, questione che rimane aperta anche oggi con tutte le varianti del caso.

 

In questo senso, una rilettura prospettica di quella vicenda può aiutarci a discernere un conflitto persistente  nella chiesa ma di fatto  rimosso: e ci mette davanti alla necessità e responsabilità di una risoluzione tutta da inventare. Se di cambiamento d’epoca si parla, è qui che deve avvenire! Annotavo allora - ma vale anche per ora - che “è proprio la sensibilità di fede e il sentimento di fraternità del popolo di Dio a chiedersi come siano possibili e come si spieghino questi contrasti all’interno della Chiesa; a domandarsi cosa se ne debba pensare e cosa ci sia da fare. Poiché, il primo, comune torto di fronte a quanti sentono di non doversi schierare - e sono i più - potrebbe essere il fatto che questo contrasto ci sia, che sia offesa la fraternità, indipendentemente da ogni preciso bilancio dei torti e delle ragioni”.

 

Chiamato in causa nel confessionale, dovevo prendere atto che nel dramma della chiesa fiorentina c’era da tener  conto non solo dei  due protagonisti in lizza, ma anche del terzo attore, quello principale: e cioè l’intero Popolo di Dio destinato purtroppo a fare da spettatore e da vittima, magari sollecitato a schierarsi, senza che venisse chiamato in causa e fosse rispettato nella sua piena dignità e nelle sue attese. In realtà non posso dimenticare che sul momento, per voler difendere le proprie rispettive ragioni e posizioni, la base della chiesa non veniva tenuta presente ed ascoltata, o forse veniva evocata in modo strumentale.

 

Ed è per rispondere a questa istanza che mi sono avventurato in quella controversia: per riscoprire e far valere le potenzialità del popolo dei credenti, qualcosa che è stato poi il filo conduttore di tutte le altre scelte e rimane il criterio orientativo in questo momento di nuovo passaggio. Il filo conduttore che lega tutta la nostra esperienza è il primato reale del Popolo di Dio in carne ed ossa, per poter uscire dall’equivoco tra l’affermazione di un primato puramente teologico o di principio  e la rivendicazione di un primato ideologico o di fatto: questione più che mai aperta della natura edel ruolo del Popolo di Dio! Una risposta non può venire che da chi a pronto a farsene interprete!

 

1 – I termini della questione

Il riferimento al contesto fiorentino del ’68 e alla vicenda Isolotto è per partire da una situazione di fatto, che ci fa capire  in quali termini si poneva la questione più generale della chiesa in quegli anni e come si presenta oggi. In effetti eravamo davanti ad un braccio di ferro tra autorità legittimamente costituita e comunità con esperienze pastorali degne se non altro di considerazione. E tutto all’insegna di un equivoco, che investiva ormai la Chiesa, il Vangelo, il Cristo stesso, anche in questo caso segno di contraddizione.

 

Al di là di reciproci torti o ragioni, ci si trovava di fronte a questa situazione assurda ed insostenibile: la collisione di due sistemi di vita ecclesiale, ciascuno dei quali chiuso in se stesso e coerente con se stesso, ma incapace di recepire o comprendere  dialetticamente l’altro; due metodi, insomma, o stili di conduzione pastorale, che si trasformano via via in modi diversi ed incompatibili di essere e voler essere Chiesa.  E qui naturalmente  affioravano le differenze radicali nella interpretazione e nella gestione della svolta conciliare, per cui questioni di forma intaccavano la stessa sostanza della fede.

 

Eravamo all’indomani della chiusura del Vaticano II sull’onda di attese e di speranze che avevano generato una corrente di “aggiornamento” che confluirà nel più ampio movimento innovativo – se non rivoluzionario – del ’68, uscendone però divaricato nel modo di  intendere lo stesso “aggiornamento”: o in senso di continuità o in senso di rottura. Da una parte si puntava sul fatto che il vangelo non cambia, per mantenere  intatto il contesto in cui veniva trasmesso; dall’altra si privilegiava la nuova comprensione che stava emergendo, sia pure a rischio dei contenuti della fede comune. In fondo si trattava del principio dialettico enunciato da Papa Giovanni nel discorso di apertura del Concilio, quando affermava: “Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale”.

 

Non si può sottovalutare il fatto che qui si parla di un “metodo” da applicare con pazienza, e che quindi le questioni vanno risolte  né d’autorità né per il solo contenuto materiale, ma secondo una prospettiva generale di annuncio “la cui indole è prevalentemente pastorale”.  Ecco perché anche la situazione che stiamo rivisitando va riportata ai minimi termini di questo metodo, che distingue tra “le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina,.. e il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione”. È qui il criterio e queste sono le coordinate intorno a cui si sviluppano gli eventi, che possono essere letti unitariamente in questa luce.

 

Questo criterio, naturalmente, non riguarda soltanto la dimensione strettamente dottrinale, ma tutto il complesso comunicativo della fede della chiesa. Il sintomo emblematico di un processo involutivo è stato – sempre nel ’68 – l’enciclica Hamanae vitae, che ha fatto da detonatore in quella che sarà poi la contestazione e il fenomeno del dissenso.

 

Tornando alla nostra questione, segnalavo allora il rischio di minimizzare le proporzioni di un dramma, che superava gli stessi interpreti locali; e anche il pericolo di adottare un atteggiamento scandalistico ed allarmistico di chi preferiva dispensarsi dal guardare le cose in faccia. In effetti, un ostacolo alla attuazione dell’aggiornamento conciliare risiede nel fatto che la maggioranza è alla finestra ad osservare e magari deprecare quei pochi che sono scesi in strada o in campo. Una riforma cioè non è più – come sembrava potesse essere  durante il concilio – un fenomeno di portata generale e di opinione pubblica, ma appare compito solo di reduci o di nostalgici.

 

Le forze in campo, di  conseguenza, sono solo minoranze disperse, ed anche se ci sono sollecitazioni dall’alto - Papa Francesco - il grosso della chiesa rimane seduto e rinchiuso nella sua autosufficienza. Come allora, anche oggi si rischia una polarizzazione tra avanguardie isolate e la massa sempre più fuori dei giochi e spettatrice, appunto perché gratificata dal funzionamento efficace della macchina-chiesa che viaggia in propri circuiti chiusi e sicuri. Per cui anche un  confronto e un dialogo rimane estremamente difficile.

 

Scrivevo in quel tempo: “Questo spiega, ad esempio, come ogni tentativo di incontro e di dialogo si sia spesso risolto in motivo e fattore di maggiore irrigidimento. E non so se sia del tutto esagerato dire che ci troviamo ormai di fronte ad una polemica che ha smarrito le sue più valide e legittime motivazioni e che va soffocando la sua ispirazione e la sua stessa ragion d’essere, per imporsi ed esaurirsi quasi come fine a se stessa. “Si lotta si lotta - ci si sente dire - ma non si sa ormai più perché!”.

 

Ora come allora è necessario chiarire che la questione è seria e quale sia la reale posta in gioco per tutti: qualcosa che supera rendite di posizione o posizioni prese. E ora come allora “non è sufficiente, per rispondere a queste richieste e per inquadrare un fenomeno così vasto e complesso, ricorrere ad interpretazioni parziali e limitate di carattere disciplinare, canonico, o anche sociologico e politico. Si richiede invece una visione e valutazione d’insieme e globale, che tenda non tanto a sottolineare e mettere in rilievo inevitabili difetti e manchevolezze reciproche, ma a scorgere le effettive possibilità di un risanamento, di crescita e sviluppo del Corpo del Cristo, la Chiesa, nelle forme in cui l’umanità, che è la sua, lo richiede, e non solo come una certa prassi lo impone”.

 

In altre parole: rimettere in moto una corrente conciliare al di là delle stesse realizzazioni, acquisizioni e carenze,  e trovare un punto di forza e di equilibrio per riattivare una comunicazione interna di vasi comunicanti e non di compartimenti-stagni.

 

2 - La posta in gioco

Sottolineavo allora la mancanza di un punto di vista superiore condiviso: “l’assenza o la carenza di un criterio valido ed abbastanza ampio di valutazione, di lettura esatta di questi autentici segni dei tempi, belli o brutti, buoni o cattivi che siano. L’Osservatore Toscano, organo della Curia fiorentina, non manca di ingenuità, quando crede di dirimere inequivocabilmente la questione, facendo ricorso alla autentica teologia, quella da sempre professata dal Magistero della Chiesa Cattolica” (strano connubio tra teologia e Magistero!), da contrapporre alle “argomentazioni quanto meno strane” di un semplice incaricato, il noto religioso P. Balducci, a “presentare una teologia di comodo come quella che si predica e si pratica all’Isolotto”.

 

C’era incomunicabilità: “Questo semplicemente per dire – annotavo - dove sia il punctum dolens di tutta la faccenda: in due diverse concezioni o modi di intendere la Chiesa, contrapposte l’una all’altra, senza il tramite di una adeguata mentalità evolutiva e dialettica della vita concreta della Chiesa, a cui ogni teologia dovrebbe ispirarsi e rimanere asservita. E spesso, anche chi si batte per il rinnovamento non trova il modo giusto di operarlo e rimane ugualmente vittima di una mentalità assolutista ed intransigente, sia pure dall’altra sponda. Per questo sembra che non vi sia via di mezzo, fermo restando che questa via rimane comunque da ricercare”. C’era un modo autarchico e speculare di confrontarsi.

 

Qualche via di uscita cercavo di intravederla in questo modo: “Non si può, ad esempio, continuare ad ignorare, escludere e rifiutare una esperienza ecclesiale proprio in forza di quei principi e di quei sistemi messi in questione dalle nuove e lecite istanze di una più autentica vita di Chiesa: un rinnovamento non è un insieme di ritocchi o di modifiche, ma investe tutta una mentalità ed esige sempre una conversione collettiva al Vangelo, anche perché ‘a vino nuovo otri nuovi’. Nel caso contrario ci sarebbe una fedeltà soltanto formale ad un tipo stereotipato ed ideale di Chiesa, che sembra già fuori del mondo ed estranea agli uomini, ad una Chiesa fedele più a se stessa ed alla sua tradizione umana che al senso profondo di Dio che deve animarla e che deve trasmettere agli uomini”.

 

“D’altra parte - aggiungevo - non ci si deve illudere di poter rispondere alle istanze ed alle sollecitazioni a cui la Chiesa è sottoposta da parte del mondo, incorrendo poi nello stesso inconveniente che si riscontra e di cui si accusa la Chiesa cosiddetta ufficiale: vale a dire l’integrazione al mondo, a discapito del suo carattere sacramentale di Mistero e della sua missione profetica. Poco importa se questa integrazione non sia più col deprecato mondo borghese e capitalista, il mondo dei padroni, ma col mondo del proletariato, in cui si ritroverebbero identificati in pieno i poveri del Vangelo”.

 

“Non sono che i sintomi di un dissidio radicale, che ci portano a riconoscere l’assurdo di un lievito fuori dalla pasta - una Chiesa mondo a sé - ma anche il non-senso di un sale divenuto scipito, vale a dire l’apertura al mondo come indice di propria inconsistenza interna e come unica convalida che la Chiesa possa dare a se stessa di fronte agli uomini. Sarebbe come dire: se una volta, per imporsi aveva bisogno di farsi forte e grande, ora, sempre per farsi valere, deve diventare piccola e debole! Non per altro si richiederebbe la “povertà”, o almeno non principalmente perché i poveri possano ottenere il Regno di Dio!”.

 

“Mentre da una parte ci si presenta l’immagine di una Chiesa tutta assorta nel suo reale valore di salvezza, fino a dimenticare di esserne anche o solo il segno, dall’altra ci si presenta una Chiesa tesa nello sforzo di rivendicare o riconquistare la propria concretezza di segno effettivo di salvezza per gli uomini fino ad intenderla come l’unica propria realtà. In ogni caso è si richiede una fede, che non solo non integri in sé il mondo (è il caso secolare della “Cristianità” e di tutto ciò che diventa cattolico per etichetta), ma che neanche si lasci integrare dal mondo. Ma il discorso, su questa linea, andrebbe troppo e prematuramente oltre!”.

 

“Di fronte a questo compito che ci attende tutti: di riportare la fede, o di farci riportare da essa, ad un grado di spoliazione e di efficacia tale, che sappia poi ricrearsi le proprie forme e che sappia riesprimersi per gli uomini come opera di Dio e potenza dello Spirito... Tenendo soprattutto conto di un fatto: che questa spoliazione deve interessare fin nel più intimo, proprio per esigenza della fede, la nostra mente, deve liberarla da tutto un corredo di enunciazioni di verità, che pur riguardano Dio, ma che non ce lo fanno vedere”.  Ripensiamo alla distinzione di Gesù tra Parola di Dio e tradizioni umane!”.

 

“E questo per una profonda fede nella verità, che sola può restituirci l’autentica libertà dello spirito, che sa e può farsi valere da sola, senza troppi nostri appoggi e senza artificiose e macchinose difese, se non quella di sapersi sacrificare per essa così come il Cristo ha fatto. Ma anche perché, se fino ad oggi i problemi si son dovuti sospettare ed intravedere sotto l’autoritaria decisione ed affermazione della verità, ora può darsi che la verità sia invece, come è più giusto, il vero problema, vale a dire conquista e punto di arrivo per tutti, anche per chi è autorizzato, come il magistero, ad indicarne con certezza la via. Poiché la verità da raggiungere e da esprimere non è che il Cristo”.

 

“Siamo in tempi, infatti, in cui i problemi non sono più il pretesto o l’occasione per avanzare soluzioni già scontate, ma le soluzioni stesse sono messe in questione. Si tratta di un compito e di una responsabilità che ricadono indistintamente su tutti, ad ogni livello, e richiedono il coraggio di mettere in questione se stessi in quanto Chiesa, di verificare la propria fedeltà non più soltanto come pratica religiosa o come legame ed appartenenza ad un organismo ecclesiastico, ma prima di tutto in quanto fede, vale a dire in quanto coscienza nuova e da rinnovare continuamente di fronte all’appello di Dio-Padre alla fraternità degli uomini nel Cristo”.

 

3 – Nodi da sciogliere

Volendo capire quali erano e quali  sono i nodi da sciogliere, in continuità con quelle situazioni, si potrebbe ripetere quanto scrivevo: “Si gradirebbe sapere esplicitamente quale sia l’ecclesiologia (sottostante alle diverse posizioni), data troppo per scontata, e se questa sia ancora sostenibile in forza delle indicazioni di un Concilio e sotto la spinta di esperienze nuove di Chiesa; se sia in grado di comprendere e recepire, eventualmente per emendarle, tutte le varie forme ed esperienze del vivere ecclesiale. Non si capisce bene, insomma, se ci si batta per difendere delle dottrine o l’autentica verità della fede, che è, a quanto pare, cosa ben diversa;… anche per sapere, una volta per sempre, se ci sia una Chiesa perché sussiste un legame giuridico ed una autorità o se ci debbano essere autorità e legami giuridici solo in forza di una effettiva comunione di carità vissuta nel Cristo come comunità di credenti”.

 

“Interrogativi  non  meno  pressanti,  per la verità, vengono proposti dall’esistenza di una comunità cristiana e di una esperienza pastorale sconfessate e rifiutate dal proprio Vescovo. Ci si domanda, ad esempio, fino a qual punto sia una più autentica e profonda fedeltà al Vangelo a dispensare dal pieno rispetto di un ordinamento, che, per quanto insufficiente è sempre un dato di fatto, così come la Legge, con tutte le sue degenerazioni, era un dato di fatto per Gesù, che la seppe rispettare e riscattare. Ci si domanda ancora se le “convinzioni di fede”, che si dice stiano all’origine di tutta questa esperienza e a fondamento della Comunità, rispettino e rispecchino poi in pieno le esigenze complesse e più profonde di una fede dalle dimensioni veramente ecclesiali o se invece (potrebbe essere semplicemente una ipotesi da verificare, salve sempre le coscienze dei singoli) in luogo di affermazioni dottrinali non si trasformino in ideologia religiosa”.

 

“Si potrebbe facilmente continuare l’elenco, sia per un verso che per l’altro. Ma questo basti a rendere evidente una necessità: quella di un esame più attento e più spassionato, al di fuori di ogni clima polemico, di tutta la vicenda nelle sue componenti ed implicazioni; quella di individuare un punto comune di incontro e di verifica, che consenta di uscire fuori dall’equivoco, convinti che la ricomposizione delle parti non deve significare il cedimento dell’uno all’altro, ma la ricerca comune di una più radicale obbedienza della fede. Poiché nessuno può pretendere ormai di misurare l’altro con un metro a proprio uso e consumo”.

Ma ora come allora, è possibile recuperare uno spazio e terreno comune di confronto  e ricreare le condizioni di dialogo tra istanze diverse e contrapposte? Come riaprire un canale di comunicazione tra chi pensa che tutto sia fatto e chi ritiene che tutto è sempre da farsi (semper reformanda)? Come ristabilire criteri comuni di fede per una verifica di modelli ecclesiali, di metodi pastorali e di comportamenti religiosi, in quanto cioè realizzazione ed espressione tra gli uomini della presenza viva di Dio mediante il Cristo?

 

Se riapriamo il problema di un cambiamento – come siamo invitati a fare dal vertice – questo non va inteso  solo in chiave personale e spirituale, ma in maniera globale  come vita e stile di chiesa:  forse ci rendiamo conto che in questione  c’è la realtà profonda e complessiva delle fede, il mondo della fede come universo, e cioè come “mistero nascosto da secoli in Dio, creatore dell’universo” (Ef 3,9), “il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi” (Col 1,26).

 

Le considerazioni fatte  a suo tempo riguardo al caso Isolotto sono  in qualche modo la matrice di una esperienza condotta e maturata in tutti questi anni come dialettica tra l’esistente e la chiesa in fieri: tra la chiesa costituita e la chiesa allo stato nascente! Riprendendo in mano dopo 50 anni simili annotazioni, sono costretto a dire che la questione si ripresenta oggi negli stessi termini di sempre, con questa differenza: il problema sussiste, ma il rapporto dialettico è come anestetizzato; e se allora c’era da raccogliere semi per dare vita ad un processo storico, ora è subentrata l’illusione che i giochi siano fatti; se allora si usava ogni mezzo per arginare le correnti ora nessuno si preoccupa di uscire dal ristagno!

Non si tratta più infatti di un movimento di riappropriazione del deposito della fede, da vivere come credenti adulti, ma siamo tornati ad essere esecutori passivi di nuove ritualità. In effetti, la grande riforma conciliare  si è risolta prevalentemente in chiave liturgica, E le belle celebrazioni comunitari non fanno che dare sbocco individualistico alla privatizzazione del credere, così come in campo sociale siamo  ormai al primato della libertà senza responsabilità, alla rivendicazione di diritti senza più doveri.

 

Ma neanche questa deriva ha compromesso  l’istanza che qualcuno si faccia carico della speranza  di tutti, per mettersi in scia di un’epoca nuova e di un mondo altro: il mondo e l’universo della fede prima ancora che di una nuova cristianità compiuta! È illusorio perciò partire da un progetto storico di chiesa definito, quando invece ogni esperienza di fede deve essere messa alla prova come l’oro nel crogiuolo. È la fede reale di credenti in ogni sua espressione a fare da asse portante per ogni rinascita di chiesa: “Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare?” (Rm 9,21).

 

Il popolo di Dio avanza per profezia e non per conquista: si muove nel tempo più che nello spazio, come si esprime Papa Francesco. In questo senso si chiarisce e si capisce che un vero passo avanti  di riforma permanente non è tanto sul piano orizzontale - nella molteplicità di modelli di chiesa da aggiornare - quanto piuttosto in chiave verticale di realtà vissuta o di  res del sacramento che è questa: la “nostra comunione è col Padre e  col Figlio suo Gesù Cristo” (1Gv 1,3): “Così la Chiesa universale si presenta come un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (LG n.4).  Non possiamo prescindere da questo fatto!

  

È qui la pietra filosofale per consentire il rilevamento e la purificazione della fede  in ogni sua materializzazione storica o personale. Ecco perché è sterile il confronto e la contrapposizione tra formule e modi diversi di vivere la fede, che di suo rimane intima unione con Dio del tutto irriducibile. Per questo mentre è necessaria per tutti una capacità critica di risoluzione  della fede al suo DNA, è necessaria da parte di ciascuno la semplicità del cuore e diventare “come bambini appena nati”.

 

Quando Papa Giovanni ha distino la sostanza della fede dai suoi rivestimenti, non credo che intendesse proporre un’operazione dottrinale ma valorizzare la fede vissuta (fides qua) di ciascuno e della chiesa intera nel suo valore universale e salvifico: un richiamo a distinguere il tesoro dai vasi di creta che lo contengono.  E se vogliamo dire quali sono i punti in cui tutto deve risolversi, sono semplicemente questi: la predicazione, l’eucarestia e la pietà nella loro sostanza viva e non solo in qualche loro forma, magari aggiornata: è il soggetto credente nella sua origine, nella sua crescita, nella sua esistenza. È il Popolo di Dio nella sua esistenza storica.

 

Se questo è il discrimine, il discorso si sposta necessariamente su chi è chiamato a compiere questa operazione in prima persona sulla propria pelle, prima che come  elaborazione mentale: si tratta in fondo di riattivare personalmente l’originaria vocazione evangelica  qui ed ora, in modo da ritrovarsi uniti a Cristo e una cosa sola in lui. La vera questione dunque è quella del soggetto chiamato a prestarsi a questa conversione o come singolo o come “piccolo resto”, comunque sempre dentro un sistema costituito con cui misurarsi. Ad evitare fughe per la tangente. Sarebbe come dire che la nostra conversione al vangelo avviene al di fuori della umanità!

 

Si ripropone inevitabilmente il conflitto tra lettera e spirito, tra potere e carisma, tra legge e libertà, tra istituzione e persona: qualcosa che è nelle cose e che va fatto emergere perché non degeneri o in repressione o in ribellione. Come quando, ad esempio, forze progressiste lo danno per risolto secondo una loro formula di comodo.  Quando in sostanza è sempre e solo  il potere a contare, l’ufficialità e la pura legittimità formale a decidere di ogni andamento delle cose, fosse pure in senso innovativo e progressista. Quando è il sabato a valere più dell’uomo e a riprodurre il sistema come misura  unica e strumentale per formule di sicuro successo.

 

Questo può sembrare un discorso teorico esagerato, in realtà non è altro che il negativo  della situazione in cui veniamo a ritrovarci, quasi una proiezione di quanto ha avuto origine 50 anni fa. È un momento in cui acquiescenza, compromessi a senso unico, fiducia in possibili convergenze hanno fatto il loro tempo e non sono più praticabili, pena sottoscrivere la propria definitiva condanna in nome di una pace fittizia. Potrei aggiungere che la tolleranza non è più una virtù, e astenersi da un pronunciamento chiaro sarebbe alla fine inammissibile.

 

Non si  tratta per la verità di prendere posizione e contestare chi ha fatto orecchi da mercante in tutti questi anni, ascrivendo a capriccio, originalità, estremismo fastidioso quanto ho cercato di chiarire e comunicare apertamente, allo scopo di arrivare ad un confronto o ad eventuali correzioni. No, non è presa di posizione la mia, ma solo dire la posizione in cui ci ritroviamo, per domandarci se sia giusto subirla senza colpo ferire: perché, per quanto sbagliata possa essere, è bene sapere almeno quale essa è e magari rettificarla: non basta ignorarla e continuare a far finta di nulla.

 

Un pronunciamento ad alta voce lo ritengo necessario per uscire dalla ambiguità e dal disagio di un rapporto asimmetrico in cui puoi esistere solo se non vivi, in cui ti è precluso essere te stesso, pena  sottostare ad una condanna tacita a cui è difficile sottrarsi. Con questo non mi riprometto nulla e non mi illudo di  arrivare a qualche confronto aperto. Ma è solo per dire a se stessi che il sistema non è poi così totalizzante come vorrebbe far credere e che una propria responsabilità e libertà la possiamo esercitare anche in stato di diaspora.

 

Anche se ci siamo mossi sempre alla luce del sole, questo uscire allo scoperto non è per difendere se stessi, ma è per salvaguardare quella chiamata  che ha suggerito determinate scelte  e che ha guidato tutta una vita di servizio:  non per  avanzare un proprio progetto di chiesa già definito  e avere successo, ma per un’opera di discernimento evangelico strada facendo… perché camminando s’apre il cammino. Uno slogan tipico del’68 invitava a far “esplodere le contraddizioni”: oggi siamo davanti alla necessità di far emergere i conflitti latenti o rimossi per riportarli ad una sana salutare dialettica.

 

Alberto Bruno Simoni op

 

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