Koinonia Maggio 2018


CHIESA E SOCIETÀ, RICOMINCIARE DAL’68

 

Non posso negare che, ripensando al 1968 e rivivendolo nella memoria, mi sembra proprio di aver attraversato un crocevia storico che conteneva domande ed esigeva scelte... e che esse non furono, in quel momento, tali quali avrebbero dovuto essere. Ma possiamo riparare oggi e domani... ed ecco perché è bene ripensare oggi al Sessantotto, riscoprirlo e valorizzarlo.

Intendiamoci, non parlo del 1968 composto esattamente da quei 12 mesi da gennaio a dicembre. Dico, nell’insieme, di quella vicenda storica tra la fine degli anni ‘60 e i primi ‘70, che Aldo Moro riassumeva dicendo: «C’è un mondo nuovo che nasce. E vincerà». Pochi anni prima il Concilio Vaticano II aveva preso atto, nella Gaudium et Spes, che il mondo stava vivendo una svolta epocale, del tutto straordinaria per profondità e rapidità.

Lo sviluppo delle scienze, la diffusione dell’informazione e della libertà, la disponibilità di risorse un tempo impensabili per una gran quantità di uomini, la fine del colonialismo e la planetarizzazione, una nuova autocoscienza e la possibilità di (auto)manipolazione della persona umana costituivano e costituiscono una complessa realtà... da cui può e deve nascere qualcosa di nuovo... in continuità e sviluppo, direi, con molte delle speranze e intuizioni che erano emerse nel Sessantotto.

Noi avevamo preso sul serio il Sessantotto perché avevamo maturato da tempo la convinzione che il mondo stesse cambiando profondamente e che l’antico sistema fosse entrato radicalmente in crisi... Si trattava di uno scenario del tutto nuovo per virtualità e sfide... Non era allora - come per molti non lo è neppure oggi - un fatto evidente a tutti, poiché la secolarizzazione non era esplosa, la scristianizzazione era latente, nascosta dalla temporanea permanenza di abitudini esteriori, il boom economico sovrastava la crisi dei valori, l’antico prestigio della cultura accademica faceva da baluardo e consentiva a molti di credere ancora che la cultura delle università fosse sempre viva e creativa, mentre lo era ormai in ben piccola misura. Il Sessantotto ci confermò in una intuizione che avevamo e ci permise di dire a voce alta che era spesso miserrima la qualità della cultura, della creatività, della giustizia, della progettualità predominante nella società. La quale assomigliava a quelli che corrono sempre di più, senza sapere dove vanno.

E dunque noi ritenevamo che ci fosse bisogno di un gran soprassalto critico, in tutte le direzioni: dagli atenei alle professioni, dalla politica alle scienze, dalla vita quotidiana alla filosofie, alle religioni. Una contestazione permanente di ciò che è per come è, per affermare che può, deve esser migliore.

Si andava sulla luna, in quegli anni; e a noi sembrò ragionevole chiedere (ma fummo quasi soli, e derisi) chi avesse scelto quella meta anziché altre per l’impiego delle risorse disponibili; e se in genere ciò non nascondesse un radicale problema di democrazia e di giustizia. E se non fosse più giusto, e integralmente umano (eravamo gli ultimi, ma non ripetitivi, discepoli dell’umanesimo integrale) pensare e progettare una società più integrata, razionale e fraterna (quello che Paolo VI intendeva con civiltà dell’amore) e sperare una Chiesa della koinonia, della diakonia e del dialogo, radicalmente protesa all’Evangelo.

A me sembra che oggi sarebbe ben difficile dire che avessimo torto; anche se certo abbiamo molto sbagliato fidando troppo nell’utopia e talora in qualche deriva irrazionalistica; forse credendo ingenuamente che le proposte lanciate con disinteresse potessero incontrare ascolto. intelligente e risposte efficaci. Ben altro realismo e disincanto ci voleva per leggere tutti i lati della realtà... ma non credo che avessimo torto. E sono ben convinto che se si vorrà ricominciare a costruire qualcosa, in questo scenario desolato che abbiamo dinanzi, in questo baccanale di esteriorità, ebbene bisognerà ricominciare dal Sessantotto. E domandarsi perché alle domande di quella stagione non furono date le risposte giuste; anzi furono date spesso quelle peggiori possibili: della sordità, della repressione e persino della provocazione sanguinosa. Soprattutto bisognerà ripartire da quelle pagine, idee e persone che non si lasciarono poi spingere dalla delusione verso le tentazioni della violenza né tantomeno si «pentirono» in vista di comode carriere, utili ai patrimoni personali e devastanti per la speranza comune.

 

Angelo Bertani

da un articolo apparso su “il tetto” di gennaio-aprile 2018

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