Koinonia Aprile 2018


Da Che cosa resta del ’68, di Paolo Pombeni (il Mulino, 2018)

 

’68 PROSSIMO VENTURO

 

C’è da chiedersi se davvero ci sia stato un qualche cosa che possa meritare l’epiteto di «rivoluzione». Il Sessantotto fu molte cose, ma fu senz’altro in gran parte un’operazione intellettuale. Furono i giovani universitari che in tutta Europa, convinti di mettere in pratica ciò che percepivano come eredità della grande frattura degli anni Quaranta, diedero il via a una ribellione contro la stabilizzazione che si era realizzata nel ventennio precedente. La tensione fra una presunta riforma radicale, forse addirittura una rivoluzione, che per molti era inevitabile dopo i sussulti del periodo resistenziale, e il ritorno a un regime autoritario, secondo i critici più severi para-fascista, si era stemperata nella routine di un paese dove, per fortuna, nessuna delle due opzioni era mai stata seriamente in campo. Quel che c’era non era forse proprio l’Italia di Peppone e don Camillo, così argutamente stilizzata da Giovanni Guareschi, ma era un paese che aveva trovato un suo equilibrio, certo non perfetto né privo di tensioni, eppure capace di accettare la modernizzazione imperante e di procedere senza cedere alle sirene dell’autoritarismo (vedi la crisi Tambroni del 1960), e tuttavia senza riuscire ad accogliere il colpo d’ala di un riformismo incisivo come si era visto nel precoce fallimento dell’esperimento politico di centrosinistra. C’erano insomma i motivi perché ci si sentisse defraudati della speranza di entrare con coraggio in quella che appariva la modernità. (pp.10-11)

 

Da più di un punto di vista il Sessantotto fu forse l’ultima ribellione fondata sulla «scienza», o almeno su quello che i giovani di allora pensavano fosse tale. Non era affatto, come dissero molti avversari, una rivolta nichilista, perché davvero si credeva fosse possibile costruire una nuova civiltà sugli spazi conquistati. Che l’obiettivo fosse spropositato per le forze che erano in campo è un altro paio di maniche. Non a caso la gaia scienza che più o meno tutti seguirono fu una specie di marxismo immaginario. Marx era lo scienziato sociale che voleva raddrizzare un modo di pensare che camminava sulle mani, e a lui si ispiravano, o credevano di ispirarsi, quei movimenti che nel concreto sembravano in grado di creare i famosi cieli nuovi e terre nuove: la Cina e in genere quel Terzo Mondo che si riteneva potessero replicare la rivoluzione che il Nuovo Mondo aveva portato secoli prima e che adesso aveva abbandonato. Ci fu allora un impegno alla riflessione che, pur con tante ingenuità, non fu più rinnovato. La fuga nell’utopia sarà il cascame del fallimento dei sogni di allora, nell’illusione che ciò che non si era potuto costruire con la ragione alternativa si sarebbe potuto fare col miracolo del ritorno allo stato di natura.

Accanto a questa via di fuga si installò il più pericoloso di tutti i virus postrivoluzionari: quello che consente la mutazione genetica degli avversari che rubano i vestiti dei contestatori e li usano come maschere per finire indisturbati l’opera di smantellamento delle vecchie certezze ormai non più difendibili, ma che non lo fanno per costruirne di nuove, bensì per mantenere una sorta di «terra di nessuno» dove regni l’anarchia delle lotte fra le diverse tribù. E poiché si era stabilito che la società non dovesse avere gerarchie e che la conoscenza non aveva alcun carattere di obiettività, non ci sarà poi scontro reale tra  una verità, per quanto relativa, e un contesto di menzogne ingannatrici. Tutto dovrà essere sullo stesso piano, ciascuno potrà reclamare la libertà di non confrontarsi sulla base di percorsi di conoscenza controllabili, senza accorgersi che a determinare vittorie e sconfitte saranno allora i parametri della forza di cui sono dotati i vari attori in campo (magari anche solo la forza di suggestione).

Dunque quella che abbiamo chiamato la seconda rivoluzione degli intellettuali ha alla fine prodotto il tramonto della razionalità occidentale? La questione posta in questi termini è troppo pomposa e troppo ardua perché la si possa risolvere nelle pagine che seguono e richiederebbe una mente più dotata di quella del loro povero autore. Si può solo dire che cinquant’anni dopo è venuto il momento di provare a offrire un quadro di ciò che resta del Sessantotto. (pp.16-18)

 

Sarebbe così rinata, forse a partire proprio dal mitico Sessantotto, una fede ingenua nell’utopia, cioè nella possibilità di creare in qualche luogo un mondo alternativo, ma soprattutto svincolato da qualsiasi obbligo di sottoporre a verifica razionale le proprie conclusioni. Se posso alleggerire questa riflessione con un aneddoto significativo, ricordo un dibattito in sede di tesi di laurea in cui uno studente continuava ossessivamente a ripetere «Io porto avanti l’ipotesi», al che un commissario gli fece sommessamente osservare: «Guardi, le ipotesi non si portano avanti, si dimostrano». Lo ricordo perché in fondo una delle conseguenze della pars destruens sessantottina è stata proprio la convinzione che fosse più che legittimo portare avanti ipotesi senza sentirsi in obbligo di verificarle e dimostrarle.

Il fatto è che le questioni poste dall’inquietudine che prese corpo nei movimenti del Sessantotto sono ancora sul tappeto, anzi si sono ampliate e hanno acquistato maggior spessore. L’eredità di quanto si manifestò in quell’anno non è nelle risposte e nelle proposte che allora furono elaborate. Non è neppure nel movimentismo come risposta alle ansie sociali, che allora si seppero in qualche modo anticipare, mentre oggi quasi sempre ci si limita a rincorrerle. È davvero nella ripresa di quel grido, profetico al di là di ciò che allora si percepiva: «Non è che l’inizio».

C’è dunque una lotta da continuare, ed è quella per dominare razionalmente una transizione storica riuscendo ad approdare a nuove forme di equilibrio per la vita degli individui e delle molteplici comunità in cui vivono. È un lavoro lungo che la generazione del Sessantotto - se è consentito che lo affermi uno che partecipò, sia pure in quinta fila, alla temperie di quegli anni - non è riuscita ad avviare che in minima parte. (pp.126-128)

 

Paolo Pombeni

 

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