Koinonia Aprile 2018


Dalla introduzione di Marta Margotti

al libro “La rivoluzione del Concilio”

(Studium edizioni, 2018, pp.197, € 18.00)

 

LA CONTESTAZIONE CATTOLICA

NEGLI ANNI SESSANTA E SETTANTA

 

Il rinnovamento seguito al Concilio vaticano II si accompagnò all’emersione di opposte e conflittuali forme di contestazione nella Chiesa cattolica, tanto da far apparire prossima una lacerazione insanabile dei due esiti estremi, scisma e abbandono. Pur estremamente variegate, queste esperienze si caratterizzarono per un marcato radicalismo che può essere considerato uno dei tratti distintivi di molte delle esperienze che tra gli anni Sessanta e Settanta videro protagonisti, spesso attraverso azioni clamorose, sia i gruppi impegnati per una soluzione progressista - e anche rivoluzionaria - della propria militanza cristiana, sia i circoli decisi a ristabilire la tradizione della “Chiesa di sempre”.

Proprio l’impetuosa dirompenza di queste manifestazioni, che rappresentò un elemento di discontinuità nelle vicende del cattolicesimo contemporaneo, induce a interrogarsi sulle complesse dinamiche all’origine di tali fenomeni e sulle loro conseguenze di lungo periodo. Si rischierebbe infatti di non comprendere l’originalità di questa ondata di proteste se la si considerasse unicamente la versione religiosa dei rivolgimenti politici del Sessantotto. Non si trattò soltanto di rivendicazioni teologiche generate da orientamenti politici antimoderati o, al contrario, l’esito della politicizzazione di posizioni teologiche dissidenti. Certamente la forte proiezione politica del cattolicesimo postconciliare, influenzata dalle analoghe correnti che stavano investendo le società occidentali, e la divulgazione dei dibattiti teologici pro o contro l’aggiornamento della Chiesa ebbero un influsso decisivo nell’alimentare gli “opposti dissensi”, ulteriormente accresciuti dal confronto con le insorgenti proteste studentesche e operaie. L’amalgama spesso scomposta di elementi culturali e politici, religiosi e sociali, generazionali e di genere, ma anche psicologici ed esistenziali, rinvenibili nelle origini e nelle scelte dei gruppi cattolici della contestazione postconciliare induce ad allargare lo sguardo e a considerare tali formazioni non come elementi eccezionali - devianti, in qualche misura - rispetto alla strada imboccata dalla “grande Chiesa”, ma come parte del più complessivo processo di assestamento e di cambiamento del cattolicesimo di fronte ai fenomeni di modernizzazione delle società contemporanee.

Per seguire i fili delle diverse forme della contestazione cattolica è necessario allora indagare come dalla metà degli anni Sessanta, in ampi settori del clero e del laicato, si sia rapidamente sviluppato un complicato intreccio tra percezione della crisi del cattolicesimo, giudizi negativi sull’applicazione del Concilio, scelte di delegittimazione delle gerarchie ecclesiastiche e progetti di ribaltamento degli equilibri di potere esistenti nella società e nella Chiesa. La simultanea presenza di “cattolicesimi dissidenti” di stampo sia rivoluzionario sia reazionario portò in superficie le tensioni che si erano accumulate sottotraccia nei decenni precedenti, nutrite dalla fissità in cui pareva essersi arroccata la Chiesa di fronte alla “grande trasformazione” del Novecento. Come energia immagazzinata nel corso degli anni, questi campi disomogenei di forze trovarono proprio intorno al Concilio indetto da Giovanni XXIII e portato a termine da Paolo VI il loro punto di condensazione e, insieme, di ulteriore propulsione. Questi movimenti, che nelle loro manifestazioni pubbliche furono inizialmente circoscritti a nuclei limitati di persone, subirono un’improvvisa accelerazione e dilatazione a contatto con il Sessantotto: la fase di contestazione sociale e politica fece così deflagrare e propagare le proteste tra quei cattolici che vedevano nel “Concilio tradito” o, all’opposto, nel “Concilio traditore” l’origine prossima del degrado in cui erano scivolate la Chiesa e l’intera società.

Per quanto le posizioni di contestazione più radicale siano state marginali se confrontate agli atteggiamenti della maggioranza dei fedeli, che accolse in maniera più o meno convinta le riforme del Concilio, le manifestazioni di dissenso (soprattutto quelle dell’area progressista) smossero in profondità tutto il cattolicesimo, anche per la sensazione dell’esistenza di reti di contatti internazionali capaci di coordinare l’azione locale dei singoli gruppi collocati nei circuiti della contestazione. La presenza sulle opposte barricate di preti e laici appartenenti ad ambienti sociali e generazionali differenti (anche se con una netta prevalenza di giovani nei gruppi progressisti), disposti a portare alle estreme conseguenze le ostilità contro la gerarchia, favorì l’impressione anche fuori della Chiesa che la battaglia sul Concilio potesse portare all’indebolimento della comunità cristiana, se non proprio alla sua disgregazione, con potenziali pesanti ricadute soprattutto nei paesi dove il cattolicesimo aveva una maggiore rilevanza sociale.

Ciò che accadde nel cattolicesimo italiano rappresenta un caso rivelatore dei contrasti che caratterizzarono il breve e intenso periodo della contestazione, sviluppatosi su scala globale tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Osservare i modi attraverso cui si manifestarono sul piano locale queste tendenze, che, se i termini non fossero ormai usurati dall’eccessivo impiego, potrebbero essere definite transnazionali e transculturali, permette di collocare i numerosi episodi del dissenso postconciliare avvenuti nella penisola in una prospettiva che comprende e supera le vicende della storia nazionale e, ancor più, la cronaca delle singole diocesi. La facilità dei contatti internazionali, la fitta circolazione di libri e riviste, lo scambio di opinioni e i viaggi da una nazione all’altra (e anche da un continente all’altro) di esponenti dei vari gruppi crearono, infatti, un sottofondo comune all’interno di ognuna delle contrastanti ali del cattolicesimo dissidente, riuscendo in ciascuna di esse, se non a giungere a strategie di lotta convergenti, almeno a individuare quali fossero i “nemici” da combattere.

Per quanto sia possibile rintracciare, dentro e fuori l’Italia, rilevanti analogie nelle dinamiche di radicalizzazione dei gruppi cattolici progressisti e in quelle dei tradizionalisti, è necessario evitare generalizzazioni che rischiano di sfocare i contorni di vicende che per essere inquadrate nella loro dimensione storica devono essere osservate all’interno di precise aree culturali e in altrettanto concrete realtà locali. Ridurre la lettura della stagione postconciliare della contestazione alla manifestazione di “opposti estremismi” impoverisce la comprensione di un quadro estremamente articolato, dove le diverse appartenenze ideali (quando non esplicitamente ideologiche) segnarono in modo determinante sia l’elaborazione delle riflessioni teologiche e politiche, sia le forme della militanza cristiana, sia i meccanismi di costruzione delle identità personali e di gruppo. In altri termini, coloro che intesero condurre una lotta rivoluzionaria nella società e nella Chiesa legittimata attraverso il richiamo all’essenzialità evangelica e alle prime comunità cristiane si collocarono in un’area culturale che aveva pochi tratti in comune rispetto a coloro che patrocinavano la realizzazione di progetti di restaurazione tradizionalista a sfondo ierocratico. Per quanto comuni fossero l’opposizione al governo di Paolo VI e le accuse a quelle che erano considerate le derive del cattolicesimo, in quegli anni i “rivoluzionari del post-Concilio” e i “restauratori del pre-Concilio” non si incontrarono mai. Allo stesso tempo, la nascita e lo sviluppo delle singole formazioni dissidenti furono condizionati dal loro radicamento in specifiche realtà locali, dove le condizioni sociali, il panorama politico, la presenza di organizzazioni religiose più o meno vivaci, i particolari connotati culturali del clero e le scelte compiute dal vescovo, come pure il ruolo sociale delle istituzioni ecclesiastiche e i loro legami con le amministrazioni civiche e le forze economiche, influirono sulla possibilità di diffusione delle diverse contestazioni cattoliche e sull’intensità delle loro proteste.

 

Gli studi raccolti nel presente volume intendono offrire uno spaccato della multiforme contestazione cattolica, collegando dimensione sovranazionale del fenomeno e analisi di singoli casi locali sviluppatisi in Italia negli anni del post-Concilio. Partendo dalle ricerche condotte per il convegno tenutosi a Torino il 17 e il 18 novembre 2016, organizzato in collaborazione con la Fondazione Michele Pellegrino, la Fondazione Vera Nocentini, il Dipartimento di studi storici, il Dottorato in Archeologia, Storia e Storia dell’Arte e il Centro di Scienze religiose-Biblioteca Erik Peterson dell’Università degli studi di Torino, i saggi documentano come la “rivoluzione del Concilio” abbia cambiato il profilo del cattolicesimo, anche se in maniera diversa rispetto a quanto immaginato dai protagonisti della contestazione.

 

Il Concilio vaticano II fu, in sé stesso, un cambiamento epocale. Per quanto la riforma della Chiesa fosse stata auspicata almeno dalla fine dell’Ottocento da vari esponenti del rinnovamento cattolico, questi fermenti erano stati coltivati nel Novecento da gruppi periferici nella geografia del potere ecclesiastico, divenuti bersaglio dell’uniformante condanna antimodernista, i cui effetti andarono ben oltre il pontificato di Pio X. Il Concilio annunciato da Giovanni XXIII nel 1959, a pochi mesi dall’inizio del suo “regno di transizione”, trovò le “avanguardie cattoliche” pronte e, allo stesso tempo, sorprese dalle possibilità di trasformazione che si erano aperte nella Chiesa. Non fu un caso che tra coloro che impressero una decisa direzione riformatrice al Concilio vi fossero molti dei sospettati dell’età di Pio XII, i quali, come mostra Gerd-Rainer Horn nel suo saggio, furono in seguito tra i principali animatori del gauchisme cattolico anche se con alcuni ripensamenti: il prolungato impegno per il cambiamento condotto già prima del Concilio dal teologo José Bergamín e dai giovani della Hermandad obrera de accíon católica, contro cui si scagliarono uniti il governo franchista e i vescovi spagnoli, è un esempio della continuità delle spinte del progressismo cattolico prima e dopo il 1965 e il loro difficile diritto di cittadinanza nella Chiesa. Attraverso il Concilio, furono messe in circolazione nuove riflessioni teologiche, con un certo spostamento dell’asse del rinnovamento dall’area francofona all’area germanofona, elaborazioni che ebbero a volte una rapida ma contestata applicazione, come nel caso dell’Olanda, dove si registrò il sostegno indiretto di una parte degli episcopati locali. Il Concilio trasformò dunque la Chiesa e legittimò, in una certa misura, il dissenso dei cattolici progressisti che si appellarono alla rottura portata da quell’evento per avallare le richieste di nuovi cambiamenti.

Il ruolo trasformativo della contestazione risulta evidente soprattutto considerando la progressiva politicizzazione a sinistra avvenuta in molti ambienti del dissenso cattolico italiano dalla fine degli anni Sessanta. Nate sulla spinta di motivazioni spiccatamente religiose, le discussioni intorno alla ricezione del Vaticano II si tradussero spesso in iniziative di protesta contro le istituzioni considerate espressione del conservatorismo del potere ecclesiastico, a partire dall’emblematica occupazione dell’Università cattolica di Milano nel novembre 1967. Le forti aspettative createsi intorno all’applicazione del Concilio, come sottolinea Alessandro Santagata, impressero presto una curvatura politica alla militanza dei fedeli sostenitori di un deciso aggiornamento della Chiesa che, sempre più partecipi delle manifestazioni studentesche e operaie, caricarono di motivazioni politiche le richieste di riforma delle strutture ecclesiastiche. Nella lettura di molti cattolici del dissenso, lo spirito del Concilio e, ancor prima, il messaggio dei Vangeli obbligavano a condannare come anacronistico e incoerente il potere esercitato sulla comunità cristiana e nella società dalle gerarchie cattoliche, giudicate complici del dominio borghese e funzionali alla conservazione del sistema capitalistico mondiale con interpretazioni fortemente orientate al terzomondismo. La rivoluzione del Concilio diventava dunque la spinta che poteva contribuire in modo determinante a cambiare gli assetti politici dell’Italia democristiana, attraverso un’azione collettiva ed antagonistica in grado di ridisegnare i rapporti di potere nella nazione.

Seppur di colore diverso, i circoli che si opponevano all’aggiornamento conciliare, come documentato da Giovanni Tassani, proposero una lettura della crisi della nazione cattolica in cui si fondevano discorso religioso tradizionalista e progetti politici conservatori, con l’obiettivo di patrocinare il ristabilimento di un ordine civile basato sul principio di autorità e sulla difesa dell’ortodossia cattolica. Il “Concilio rivoluzionario”, dunque, doveva essere arginato per contrastare l’avanzata della “modernità” e restaurare così il primato sociale della Chiesa, anche appoggiandosi a formazioni della destra politica. Le fragorose contestazioni organizzate dai cattolici progressisti - che possono essere considerati utopisti risolutamente proiettati verso il futuro - contribuirono al delinearsi all’inizio degli anni Settanta di nuovi schieramenti nella Chiesa: il dissenso tradizionalista - coltivato da utopisti in fuga verso il passato - riuscì ad approfittare della crescente preoccupazione maturata tra i teologi, negli episcopati e dallo stesso Paolo VI, per mimetizzarsi e radicarsi nel cattolicesimo, rendendo molto difficile da quel momento distinguere le posizioni moderate da quelle anticonciliari. Le opinioni sostenute dall’”altro dissenso” permisero così di intercettare il malessere diffuso negli ambienti più moderati del cattolicesimo, preoccupati della deviazione di “sinistra” in cui ritenevano si fossero ormai pericolosamente incanalati, insieme alle nuove generazioni del laicato, anche settori rilevanti del clero.

 

<…> Per molti cattolici del dissenso la partecipazione alle proteste condotte nelle chiese e nelle piazze fu certamente l’occasione per manifestare le proprie opinioni politiche e religiose non convenzionali rispetto alla mentalità prevalente nella Chiesa, con gesti che erano allo stesso tempo provocatori e liberatori. Non si trattò soltanto però di un confronto tra teologie o tra opzioni politiche e sociali differenti, ma di un’esperienza complessa attraverso cui preti e laici costruirono la propria identità e acquisirono una più precisa consapevolezza del proprio ruolo. La continua e voluta intersezione tra dimensione privata e sfera pubblica creatasi negli anni della contestazione accentuò i rivolgimenti radicali avvenuti nelle traiettorie personali di molti credenti e lasciò un’eredità di lunga durata nelle esistenze anche di coloro che si allontanarono disillusi dalla Chiesa che avevano sperato di poter cambiare totalmente e subito. La rivoluzione del Concilio lasciò probabilmente i suoi segni più profondi (simili in alcuni casi a ferite mai del tutto rimarginate) nel vissuto di centinaia di uomini e donne che avevano investito in quelle esperienze antagonistiche energie giovanili, amicizie, fede ed emozioni, ma anche abbandono delle precedenti appartenenze religiose e creazione di nuove comunità cristiane, sforzi di mobilitazione collettiva e utopie di rigenerazione politica.

 

Nonostante gli esiti anche molto divergenti dei singoli percorsi individuali e di gruppo, i cattolici approdati tra gli anni Sessanta e Settanta nell’area del dissenso progressista contribuirono alla ricezione delle novità conciliari nelle Chiese locali, anche se non nella versione rivoluzionaria per cui avevano lottato. Negli anni del post-Concilio, e non soltanto in Italia, le reazioni più diffuse alla contestazione infatti non furono tanto le iniziative nostalgiche organizzate dai tradizionalisti - presenti ma comunque rimaste minoritarie nella Chiesa - quanto una più ondeggiante assunzione, in ampi settori del clero e del laicato, nelle parrocchie, nell’associazionismo e nelle congregazioni religiose, di una versione addomesticata di alcune rivendicazioni del dissenso cattolico, per esempio, in campo liturgico, ecumenico e missionario. Proprio perché alcune delle proteste degli ambienti progressisti rispondevano a esigenze di trasformazione della sfera religiosa emerse parallelamente ai cambiamenti sociali e culturali avvenuti nel secondo dopoguerra (a iniziare dalle richieste di autodeterminazione personale e di maggiore partecipazione), la presenza nella Chiesa di gruppi che iniziarono a “fare diversamente” rese più facile, anche ai fedeli che non avevano partecipato direttamente alle proteste, cambiare alcuni modi di vivere l’esperienza di fede o di interpretare la morale cattolica, di giudicare le strutture ecclesiastiche o di scegliere il partito da votare alle elezioni politiche. Smorzate nelle loro punte più acute, alcune rivendicazioni del progressismo cattolico furono assimilate nella Chiesa, ma si trattò di quegli aspetti che non mettevano direttamente in crisi la struttura gerarchica del cattolicesimo e il suo ruolo di potere nella società: le chitarre in chiesa, la scelta del prete di non indossare la talare o il clergyman, le iniziative di solidarietà con il Terzo mondo o le richieste dei laici di discutere le decisioni della parrocchia, per esempio, erano azioni che, isolate dal quadro di contestazione radicale in cui erano nate, perdevano molta parte della loro carica eversiva.

La lotta per la trasformazione religiosa e politica della realtà nel post-Concilio si nutrì di sfide urtanti e di rotture rumorose, creando un clima di instabilità e conflitto che divenne esso stesso parte essenziale dello scontro per rivoluzionare la Chiesa, e non soltanto questa. Attraverso la contestazione politica delle istituzioni religiose, il progressismo cattolico intendeva infatti creare nuovi modi di vivere la fede cristiana all’interno di una società che si stava secolarizzando. Trasformare la comunità cristiana cambiando la politica e, con la medesima intenzionalità sovvertitrice, modificare politicamente la società per rivoluzionare la Chiesa fu l’utopia del cattolicesimo del dissenso progressista. Allo stesso tempo, i cattolici del dissenso furono portatori nelle organizzazioni politiche di sinistra e dell’estrema sinistra di una contestazione della società dai marcati connotati utopici e di modi di intendere l’impegno sociale fortemente debitori dell’esperienza religiosa nella quale quei militanti si erano formati.

Per quanto eccentriche rispetto ai luoghi dove si governava il cattolicesimo e la politica, quelle esperienze di contestazione contribuirono a cambiare l’atmosfera culturale e gli assetti sociali delle nazioni ove si erano manifestate. Al termine della fase più acuta delle proteste, una parte delle autorità ecclesiastiche (che nel frattempo erano anch’esse parzialmente mutate e non soltanto per il ricambio generazionale) si mostrò più tollerante nel riconoscere il pluralismo dei modi di vivere la fede cristiana dei credenti, anche per non esasperare la conflittualità all’interno della Chiesa, in vista di una rapida normalizzazione delle comunità cristiane. La militanza politica di alcuni cattolici fuori dei partiti moderati o conservatori divenne un elemento non più percepito come destabilizzante gli equilibri sociali esistenti e, anche per la perdita di capacità di aggregazione dei gruppi che avevano animato il precedente ciclo di proteste, le avanguardie cattoliche di sinistra sembrarono sparire dalla scena pubblica, sostituiti - su un’altra sponda - dai più dinamici movimenti della Chiesa di Giovanni Paolo II.

La politicizzazione del cattolicesimo del dissenso durante il “lungo Sessantotto”, in modo all’apparenza contraddittorio, fu all’origine della sua rapida perdita di incidenza a livello sociale e rese quei credenti più fragili di fronte alla successiva caduta dei paradigmi totalizzanti della politica. Nonostante questa disillusione, rimase, per molti credenti che avevano vissuto quelle esperienze di “eversione religiosa”, l’adesione a una forma di ascesi che si esercitava nello sforzo di costruzione politica di un mondo più giusto e solidale. L’impegno sociale e culturale continuato negli anni seguenti da molti “rivoluzionari del Concilio” all’interno di gruppi di ispirazione religiosa oppure individualmente in organizzazioni senza alcun connotato confessionale resta forse una delle più durature eredità di quella stagione.

 

Marta Margotti

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