Koinonia Marzo 2018


Dopo la Prolusione del Cardinale Presidente Gualtiero Bassetti

al  Consiglio della CEI (Roma, 22-24 gennaio 2018)

 

QUASI UN MANIFESTO PER KAIROS-ITALIA

 

A chiusura di questo numero di Koinonia riportiamo per intero la Prolusione al Consiglio permanente della CEI (Roma, 22 - 24 gennaio 2018) del Cardinale Presidente Gualtiero Bassetti. Se posso manifestare la mia prima impressione di lettura, devo dire che il suo discorso mi è sembrato un vero e proprio “manifesto” per una iniziativa di ricentramento della chiesa italiana nel Paese,  con una visione globale e non con interventi su punti particolari.

 

Ed è in questa ottica che vogliamo leggerla, in parallelo con i documenti Kairos Sudafrica e Kairos-Palestina: in vista appunto di una operazione analoga per l’Italia da parte di cristiani che si sentono chiamati. Per «chiedere a Dio che ci dia la lucidità di chiamare la realtà col suo nome, il coraggio di chiedere perdono e la capacità di imparare ad ascoltare quello che Lui ci sta dicendo». Potrebbe già essere questa una prima indicazione di marcia: chiamare la realtà con il suo nome, e cioè che alla realtà corrispondano i nomi giusti e che alle parole corrispondano le giuste realtà. Che vuol dire fare verità: non è questo il primo intento dei documenti citati?

 

A tale scopo si richiede una lettura dello stato delle cose che “non è, in alcun modo, quella dei politici, degli scienziati o degli intellettuali, ma è quella di pastori che si impegnano a discernere questo libro con la luce di Cristo. Del resto, sono proprio la nostra esperienza cristiana, la frequentazione del Vangelo e la celebrazione dei sacramenti a chiederci - vorrei dire: a imporci - di non restare ai margini di quanto vivono la nostra gente e il nostro Paese”. Questa operazione altro non è che quella “lettura teologica” di cui Kairòs Sudafrica e Kairòs-Palestina ci danno esempio.

 

Non a caso, nel discorso del Presidente della CEI si fa riferimento al testo del Qoèlet secondo cui c’è un tempo per ogni cosa: per dire che per la riflessione e l’azione pastorale ora è tempo di ricostruire, ricucire e pacificare: ricostruire la speranza per l’Italia intera; ricucire la comunità ecclesiale italiana, esortandola a interpretarsi nell’orizzonte della Chiesa universale. Ricucire la società italiana, aiutandola a vivere come corpo vivo che cammina assieme;  pacificare ciò che è nella discordia in un clima di «rancore sociale». “Ricostruire la speranza, ricucire il Paese, pacificare la società. Tre verbi, tre azioni pastorali, tre sfide concrete per il futuro”.

 

È da vedere se questa istanza trova una qualche risposta solo a livello programmatico e nominale o postula un ripensamento del soggetto chiesa in rapporto al problema-paese. C’è da chiedersi cioè se basti prevedere interventi di addetti da affiancare ad una chiesa eminentemente cultuale o se nel suo insieme questa chiesa debba essere significativa per il mondo in cui abita, città posta sul monte! Chi, in altre parole, deve e può  ricostruire, ricucire e pacificare il Paese, se non un popolo di Dio o popolo cristiano a vocazione evangelica e profetica?

 

Solo in forza di una ritrovata anima comune, infatti, è possibile misurarsi, ad esempio, col fenomeno globale delle migrazioni internazionali con uno spirito di totale obbedienza al Vangelo, magari tornando alla Populorum progressio di Paolo VI. In questo senso ci sono «priorità irrinunciabili», quali il lavoro, i giovani e la famiglia, vere emergenze sociali e umane che chiamano sì in causa la politica ma prima di tutto la responsabilità di ricostruire un tessuto morale nel popolo, per liberarlo da tutti gli alibi religiosi che lo mantengono schiavo e che fanno dire che la corruzione in Italia c’è perché è un Paese cattolico. Prima delle soluzioni tecniche e amministrative di questi problemi, e prima di intervenire dall’esterno con una “Dottrina sociale” c’è da ricreare una coscienza comune di popolo e di chiesa, in sostanza di Popolo di Dio nel mondo.

 

Questo porta ad una riflessione anche  in vista delle prossime elezioni politiche e sul fatto che - oltre il valore morale e democratico del voto - “la Chiesa non è un partito e non stringe accordi con alcun soggetto politico”, ma guarda al “bene comune per tutti: in questa prospettiva - la sola che ci sta a cuore - possiamo tracciare un orizzonte di idee e proposte che vogliono essere un contributo fattivo e concreto alla discussione pubblica”: prima di tutto come “invito a riflettere sulla natura della vocazione politica. Perché di questo si tratta: una vocazione, una missione e non un trampolino di lancio verso il potere”.  Poi come “invito alla sobrietà. Una sobrietà nelle parole e nei comportamenti”. E infine come “ricerca sincera del bene comune. Non a parole ma con i fatti”.

 

Se questo vale per tutti come effetto della presenza cristiana nel Paese, perché ciò avvenga ci sono “tre indicazioni ai cattolici in politica”: a vivere la politica con gratuità e spirito di servizio; a guardare al passato per costruire il futuro; ad aver cura senza intermittenza dei poveri e della difesa della vita. Ma  soprattutto è necessario che la chiesa intera si ripensi e si ristrutturi globalmente all’interno di un Paese ex-cattolico ed ex cristiano.

 

L’istanza di una collocazione diversa della chiesa nella società sembrerebbe quindi fuori discussione, non più però come arbitra o dea tutelare  in maniera compromissoria, ma in piena libertà e disponibilità al confronto e al servizio a 360° in piena fedeltà a se stessa. Non possiamo però  nasconderci che, se questa è la linea di tendenza espressa dal Card.Bassetti, si tratta pur sempre  di una dichiarazione di intenti al vertice, mentre il corpo ecclesiale si comporta nel suo insieme secondo riflessi condizionati di “cristianità”. 

 

E il problema reale rimane quello della traduzione e “conversione pastorale” dei nuovi orientamenti: quello di far nascere e crescere un nuovo soggetto storico di chiesa con i connotati del popolo da cui nasce, ma anche con la capacità di parlare al suo cuore. Quindi, non una chiesa separata ed autoreferenziale, sacrale e cultuale; ma neanche una chiesa integrata come stazione di servizio  nella società di appartenenza. Chiesa e società devono rimanere due realtà distinte, ma unitarie ed interattive:  non confuse, non trasformate, non divise, non separate”. Di fatto, al di là degli intenti, questo nuovo modo di posizionarsi della chiesa in Italia avviene in un contesto  ecclesiale già segnato da venature  di “potere” e di privilegi,  che lasciano in ombra quel messaggio evangelico che si penserebbe di avvalorare con forme surrettizie.

 

Alcune  parole del Card. Martini ci avvertono: “Il mistero cristiano rimane come sfondo generico dell’agire di coloro che credono, ma il prevalere della dimensione attivistica, la coincidenza tra efficacia e visibilità e la concentrazione sull’aspetto spaziale più che sulla dimensione temporale producono uno sfocamento nell’espressione del mistero cristiano. La sua estrema semplicità, la sua straordinaria incisività, la sua capacità rivoluzionaria, vengono pericolosamente ridotte. Interviene allora un mare di parole e di iniziative per cercare di ricuperare questa carica che invece è qualcosa di estremamente semplice. È la piccolezza e l’insignificanza di Gesù che, una volta accettata come manifestazione del Dio vivente, scuote e rinnova tutte le nostre categorie” ( in  L’Europa, la fede e la Parola, Ed. EDB 2012)

 

Il rapporto vangelo-umanità, chiesa-mondo, fede-storia  non può essere più regolato da fattori derivati (istituzionali, confessionali, teologici, culturali, politici, sociologici ecc…), ma deve tornare ad essere l’asse portante della presenza dei cristiani nel Paese. E se da una parte non basta  che il generico riferimento ad una fede produca comunità come monadi autoreferenziali, non è neanche giusto che la fede dei singoli o del cuore rimanga sommersa sotto il peso di forme, formule, strutture, prassi, tradizioni, convenzioni da cui invece affrancarci.

 

È vero che la fede nasce nella chiesa, ma è ancora più vero che la chiesa è fatta da chi crede: da un punto di vista pastorale, c’è perciò da decidere  se arrivare alla fede dei singoli sempre attraverso sistemi precostituiti o se ripartire dalla fede personale di ciascuno per far nascere comunità di  credenti: se privilegiare il sabato o riconoscere il primato all’uomo! Non è proprio la stessa cosa: e una presenza diversa  della chiesa in Italia sarà veramente tale quando questa tornerà ad essere “coscienza viva” e  avrà ritrovato “la sua capacità rivoluzionaria” senza sconti: qualcosa che risiede nella fede di ciascuno prima che negli apparati.

 

Ci viene ancora incontro il Card. Martini: “Le comunità infatti si troveranno di fronte alla necessità di vivere la fede non solo attraverso l’unanimità tradizionale, ma soprattutto attraverso scelte personali. Un atteggiamento positivo, quindi, e non di resa... Si tratta, cioè, di puntare sulla formazione di convinte coscienze cristiane e di mature comunità ecclesiali caratterizzate da una fede limpida e profonda, capace di esprimersi e di impegnarsi anche nelle più delicate frontiere e nei più intricati crocevia della storia.  Nell’ambito dell’unica e globale missione della Chiesa, ciascuno ha un compito particolare da svolgere ed è chiamato a vivere e a realizzare l’unica identica missione secondo caratteristiche proprie, connesse con i propri doni e i propri carismi” (op. cit.).

 

Viene da chiedersi se un simile andamento pastorale sia praticabile senza ufficialità: investiture, titoli, supporti, garanzie, avalli, sostegni di vario genere. Senza rifarci alla vocazione e all’azione apostolica di Paolo, decisiva per la chiesa intera, è la nostra povera esperienza a farci dire di sì. Per dire soprattutto che siamo coinvolti in prima persona in ciò che facciamo e pensiamo: non ci sono infatti né riferimenti aprioristici né obiettivi particolare da rispettare, ma tutto risponde ad istanze di comunicazione e di crescita d’insieme nella linea di una ricerca evangelica libera ed aperta. A volte verrebbe da dire che apparteniamo all’ordine di Melchisedek, egli che era “senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio” (Eb 7,3). 

 

Forse possiamo trovare  un’eco di questo modo di essere nelle parole di Gesù a Nicodemo, quando dice che lo Spirito è come il vento di cui non si sa né provenienza né destinazione. Per quanto ci riguarda, possiamo dire di essere senza arte né parte,  mentre l’unico punto  di forza è quello di affidarci liberamente gli uni agli altri per una edificazione vicendevole, sia pure andando incontro a sorprese e delusioni, ma senza demordere. In realtà si nasce e si vive in forza della risposta ad una vocazione sempre da contestualizzare e da condividere nel tempo, in ordine al servizio del Vangelo. Koinonia  ne  è  semplicemente il luogo -  il segno e lo strumento -  come risultante di contributi  i  più diversi,  animati però  dalla  stessa  passione di rispondere insieme al compito di cui farsi carico “opportune et importune”.

 

P.Alberto Bruno Simoni op

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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