Koinonia Marzo 2018


IL PARADOSSO DELLA FEDE (II)

 

Parte seconda: Ammazzare la morte

 

Gesù per dire il rifugio dei poveri quando muoiono in attesa del giudizio ultimo dirà “seno di Abramo” (Lc 16,22). Nella figura di Abramo è dato a noi dunque di intravvedere oltre la sua vicenda umana. Attraverso la sua fede noi possiamo affacciarci sulle cose ultime, quelle che più di ogni altra cosa il credente dovrebbe attendere. Ma soprattutto ci è dato di capire il prezzo di tali cose. Infatti due tra i più grandi misteri della salvezza cristiana appaiono già sullo sfondo della vita di Abramo: la crocifissione di Dio e la crocifissione del mondo, cioè la “tribolazione grande” degli ultimi giorni (Mt 24,21-22). Il primo lo sentiamo vibrare nella vicenda del sacrificio di Isacco (Gen 22), il secondo nell’episodio della distruzione di Sodoma (Gen 18).

Dunque alla fine Isacco nacque davvero. E risero entrambi di gusto in cuor loro i suoi genitori, come davanti a chi la spara grossa, quando Dio gli preannunciò quell’impossibile nascita di un bambino che, davvero, potevano stringere tra le braccia al di là di ogni ragionevole immaginazione. Gli sarà sembrato di sognare. “‘Motivo di lieto riso mi ha dato Dio – disse Sara, - chiunque lo saprà sorriderà di me!’. Poi disse: ‘Chi avrebbe mai detto ad Abramo: Sara deve allattare figli! Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia!’” (Gen 21,6-7).

Era ancora forestiero Abramo in quella terra promessa, è vero, ma vi aveva già acquistato un pozzo, offrendo sette agnelle di propria mano ad Abimèlech, possedendone così già una piccola porzione. Stavano tutto sommato bene dunque ora a Bersabea: Abramo vi piantò un tamerice “e lì invocò il nome del Signore, Dio dell’eternità” (Gen 21, 22-34). Come dire: questo mi basta, già mi va bene, i conti ormai sembrano tornare, Dio ha finalmente mantenuto in qualche modo la sua promessa, ora posso anche avviarmi verso la sazietà dei giorni e morire.

E invece eccolo di nuovo spiazzato di brutto da un improvviso: “Abramo, Abramo!”. È un’entrata brusca e concitata qui quella di Dio, come quando si deve dare una notizia urgente e sensazionale o come quando ti sta per crollare la casa addosso e devi dire a tutti di scappare. La voce è potente, è quella di Dio, e ad Abramo non resta che dire, con cuore pronto e fedele: “Eccomi!”. La sensazione che si ha in questo incipit è quella di un dramma che sta iniziando per davvero solo in quel momento. È come se Dio ad un certo punto cominci ad alzare la posta, a mettersi in un gioco molto pesante con Abramo. È come se Dio avesse detto: la prova non è solo per Abramo, è anche per me, da come risponderà quest’uomo dipenderanno molte cose, fino alla fine dei giorni e per tutta l’umanità. Per l’ebraismo ciò che è accaduto sul Moria è fonte di intercessione e di salvezza di generazione in generazione: Dio guarda Abramo avendo a cuore tutta l’umanità della terra e della storia, fino all’ultimo giorno.

Dire che il comando sia assurdo e orrendo è dire poco: a quell’uomo Dio ordina di prendere suo figlio Isacco e di offrirlo in olocausto su un monte che gli sarà indicato per via. La prima cosa che avremmo fatto sarebbe stata quella di verificare se fosse davvero di Dio quella voce, ci si poteva sbagliare, a parlare avrebbe potuto essere anche satana, la tradizione ebraica ha messo in conto anche questa possibilità. Ma Abramo non batte ciglio, egli è sicuro che sia il suo Dio. Leszek Kolakowski dice che quell’uomo “aveva dei mezzi di verifica assolutamente attendibili per accertare un ordine ricevuto dal suo Creatore”, mezzi che noi non abbiamo più da tempo (La chiave del cielo).

Dal momento che è Dio ad averlo ordinato Abramo si alza di buon mattino. Avrà dormito? Sara dormiva accanto a lui, non avrà pensato di svegliarla o di parlarle prima di coricarsi? Sara era la madre del ragazzo, come si fa a non dirle nulla di quell’ordine dall’alto? No, Abramo sembra avere dormito un sonno tranquillo e cominciato la sua giornata con idee molto chiare: sella l’asino, prende con sé due servi e il figlio Isacco, spacca la legna per bruciare la vittima e si mette in viaggio alla testa del gruppetto. Per tre giorni camminano. Avranno parlato? E di cosa? Il testo non ci dice nulla. Dice soltanto che il terzo giorno Abramo improvvisamente si ferma, alza gli occhi e da lontano vede “quel luogo”. Non c’è voce dall’alto a dirlo, ma Abramo deve avere capito al volo, deve avere annusato nell’aria che era quello il monte che Dio intendeva. Per i servi e l’asino il cammino finisce, che aspettino lì, lui e suo figlio torneranno presto, sarà questione di poco. Mentiva Abramo dicendo: “io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi”? Forse Abramo sapeva di fingere obbedienza per ritirarsi all’ultimo momento? Oppure perché - come sembra alludere la Lettera agli Ebrei - egli pensava “che Dio è capace di far risorgere anche dai morti” (11,19)? Molto si è discusso su questo.

Durante la salita chi porta il carico della legna non è Abramo ma Isacco, è sulle sue spalle che va il peso portato fin lì dall’asino, le mani di Abramo sono già sufficientemente cariche di fuoco e coltello. In salita col peso sulle spalle si va piano e questa volta è Isacco che vuol dire la sua: “Padre mio!”. Rispose Abramo: “Eccomi, figlio mio”. La stessa prontezza del primo “Eccomi!”, anche se questa volta è il figlio non Dio a chiamarlo. “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”. La domanda va al nocciolo della questione, gli occhi del ragazzo vanno sul coltello che il padre impugna. Avrà avuto un qualche sospetto Isacco? E non avrà tremato suo padre nel rispondere? Pare di no, si respira serenità e fiducia in quel: “Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!”. Si potrebbe quasi dire che qui Isacco si fida di suo padre come suo padre si fida di Dio.

Il discorso si ferma lì, ora sembrano entrambi convinti, entrambi decisi ad aspettarsi tutto da Dio, ma attraverso la disponibilità a rinunciare a tutto ciò che hanno di più caro: l’uno la vita, e l’altro il proprio amato figlio, il figlio della promessa. Qui padre e figlio diventano uno, il dolore dell’uno è il dolore dell’altro. Se è doloroso essere uccisi, molto di più lo è quando a farlo è la mano del proprio padre. Ma anche il dolore di un padre non è da meno quando un figlio che ama più di se stesso muore, quando, soprattutto, è lui che deve ucciderlo. Lo dice bene Kierkegaard: “Abramo ama Isacco con tutta l’anima, e quando Dio glielo domanda egli lo ama, se fosse possibile, ancora di più e solo così egli può farne il sacrificio” (Timore e tremore).

Certo non possiamo leggere quell’episodio con occhi soltanto moderni, il sacrificio del primogenito era frequente nel mondo intorno a Israele fino all’epoca dei profeti. Ciò che è singolare in questa vicenda è semmai il contenuto: qui non c’è una semplice “usanza” - dice Mircea Eliade - ma “un atto di fede. Abramo non capisce perché gli è richiesto questo sacrificio e tuttavia lo compie poiché glielo chiede il Signore. Con questo atto, in apparenza assurdo, Abramo fonda una nuova esperienza religiosa, la fede… Dio si rivela come personale, come un’esistenza ‘totalmente distinta’ che ordina, gratifica, domanda senza nessuna giustificazione razionale (cioè generale e prevedibile), e per il quale tutto è possibile. Questa nuova dimensione religiosa rende possibile la ‘fede’ nel senso giudeo-cristiano”. (Il mito dell’eterno ritorno).

Raggiunta la cima Abramo costruisce l’altare, colloca la legna, lega il figlio Isacco e lo depone sull’altare, sopra la legna. Ma non era forse Isacco un giovanotto robusto per portare su tutto quel carico? E perché adesso si fa legare e sbattere lì sopra come un muto agnellino? Anche lui è d’accordo forse? Ha capito tutto Isacco, ha già ingoiato il fondo dell’amaro calice, anch’egli si sente nelle mani di Dio oltre che nelle mani di suo padre? Certamente Isacco sapeva di poter morire sotto la lama del coltello, ma sperava con tutte le forze che ciò non avvenisse, che all’ultimo istante intervenisse qualcuno a fermare la mano di quell’uomo fedele fino all’assurdo.

Abramo non scherza, e la stende quella mano verso il coltello, è pronto a tutto, può andare decisamente fino in fondo, Dio lo sa, è chiaro ormai. Ed è perciò sufficiente. Il contrordine dunque, subito: “Abramo, Abramo!”, stessa voce dei tre giorni precedenti e stessa risposta: “Eccomi!”. Il cerchio si chiude. Isacco è salvo. Il secondo comando divino annullava così il primo; come dire: mai più nessuno pensi a un Dio che vuole la morte dei primogeniti. Come entrambi speravano, Dio stesso provvederà l’agnello. Ma non sarà quell’ariete che era là, sul Moria, con le corna impigliate al cespuglio. Dio sa che d’ora innanzi egli stesso dovrà provvedere a ben due cose, all’agnello e alla risurrezione dei morti: troppi figli infatti, e figli innocenti, sono costretti a morire nella storia, sotto troppe lame di coltello, tra le grinfie di un male che sembra non avere limiti, occorre rimediare. Ed è stata la fede di Abramo, il sommovimento dei cuori che in quegli attimi ha unito padre e figlio, Abramo e Isacco (sommovimenti in cui amore, morte e vita s’intrecciavano con la carne e il sangue umano che pur muti gridavano, invocavano) ad avere messo, per così dire, Dio alle corde.

Ora quella carne e quel sangue chiamavano direttamente in causa Dio, le promesse di Dio: di fronte a quei due, così giusti, così fedeli, non avrebbe più potuto tirarsi indietro. D’ora innanzi non sarebbe più stato Dio, Dio soltanto, ma “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6; Mt 22,32), sì anche del figlio di Isacco, colui che si chiamerà Israele, oltre che Giacobbe, perché lotterà come una furia per una notte intera con Dio fino a spuntarla (Gen 32,23-33). Il patto va rispettato, le promesse vanno mantenute, fino a versare il proprio sangue se è necessario: che in Isacco avrebbe avuto una discendenza numerosa come le stelle in cielo non era promessa che si era inventata da sé. È come se Abramo avesse detto in cuor suo: io ora scanno mio figlio, come mi dici, perché tutto viene da te, ma in forza della tua promessa io credo che tu allora lo farai risorgere. Abramo pronto a immolare Isacco, deciso al gesto estremo, ha fatto in modo che a Dio venisse in mente nulla di meno che di ammazzare la morte. Abramo non fugge, ma avanza, in silenzio davanti al suo Dio, Dio dovrà seguire ora quell’uomo di granitica fede. Quell’uomo crede le cose impossibili, le spera con tutte le sue forze e Dio non può che ascoltarne i fremiti cercando di corrispondervi. Abramo e Isacco hanno saputo guardare in faccia la morte senza soccombere, a sostenerli era la fede e la disponibilità a compiere soltanto la volontà di Dio. “Sia fatta la tua volontà” a Dio padre quei due glielo dicevano anche soltanto col respiro mentre camminavano per giorni verso la montagna: essi erano pronti a morire, a rinunciare a tutto, continuando tuttavia a essere fiduciosi di colui che dona tutto.

Il Talmud legge nel cuore di Abramo l’affetto per tutta la sua discendenza. Nel momento in cui giunse a fermargli la mano col coltello Abramo avrebbe detto a Dio: “Adesso vuoi che mi fermi. Non lo farò. Continuerò. Mi desti un ordine, ora lo compierò, a meno che…”. Ora è Abramo che tiene in pugno Dio. “Ascolta, se vuoi che mi fermi e salvi mio figlio, promettimi che ogni qual volta i miei figli avranno bisogno di te e ti invocheranno, risponderai”.

Kazoh Kitamori ha parlato di Abramo come “modello per il servizio al dolore di Dio”, non soltanto dunque padre della fede ma anche colui che serve, soprattutto durante il sacrificio di Isacco, il dolore di Dio. Dolore chiamava dolore: è un Dio in pena colui che chiama Abramo a offrire Isacco. Servire il dolore di Dio mediante il dolore è “seguire il Signore della croce prendendo su di sé la croce… Servire al dolore di Dio mediante il proprio dolore: questa è la vera natura del gesto di Abramo” (Teologia del dolore di Dio).

Nel cuore di Abramo e di Isacco forse vibravano le stesse parole che quasi duemila anni dopo scriveva Paolo alla comunità cristiana di Roma: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?”. Simili parole dirà Giobbe: tutto viene da Dio, Dio ha dato e Dio toglie, nudi uscimmo e nudi torneremo, tutto è nelle mani di Dio. Ma se alle mani di Dio le cose sfuggono e a pagare sono le sue creature che succede? Se Giobbe soffre ingiustamente e oltre misura, fino a gridare verso il cielo la sua protesta, come si comporterà Dio? Insomma, se c’è da pagare chi paga? La posta in gioco è alta, fin dall’inizio, è questione di vita e di morte.

I cristiani sanno che il Dio di Abramo un giorno ha mandato il proprio Figlio nel mondo per salvare il mondo. E che il Padre e il Figlio erano una cosa sola, nella carne e nel dolore. E che ad un certo punto quel Figlio muore, e che in quella morte si sono potuti aprire nuovi sentieri di speranza. Come dice Paolo, continuando a scrivere la sua lettera, “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rm 8,31-32).

Ma la domanda che ci sorge spontanea è questa. Perché mentre sul Moria qualcuno ha fermato la mano del Padre, sul Golgota non ci fu anima viva a farlo? Ma chi avrebbe potuto fermare la mano del Padre di fronte a Gesù che gridava come un agnello: “Non voglio morire!”, chi? Noi, tutti noi figli di Abramo, ognuno di noi. E non lo abbiamo fatto. Abbiamo preferito, come Caifa, che fosse lui a morire al nostro posto per salvarci (cfr. Gv 11,49-50). Dio ha mantenuto la sua promessa: ha provveduto a trovare l’agnello e non abbiamo a nostra volta impedito che lo sacrificasse. Di questo almeno dovremmo affliggerci ogni volta che pensiamo alle due storie, quella sul Moria e quella sul Golgota, e ogni volta che ci accostiamo all’altare della nostra Eucaristia.

È vero, l’ultima parola non l’ha avuta la morte, Gesù è risorto, proprio come sperava Abramo, pronto a uccidere Isacco. Ma la risurrezione di Gesù non avrebbe senso senza la risurrezione di tutti i morti, e dunque anche quella di Abramo e Isacco, che comunque sono morti e ancora attendono. Dobbiamo dunque attendere, anche noi oggi, soprattutto oggi, e con tutte le forze, di vedere “Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio”, di stare seduti a tavola con loro e con Dio (Lc 13,28): questa, non altra è la fede che viene da Abramo, il quale ancora aspetta di ricevere in proprietà la terra che Dio gli aveva promesso, e che avrà – come ci ricorda Ireneo di Lione – “insieme con la sua discendenza, cioè con quelli che temono Dio e credono in Lui, nella risurrezione dei giusti” (Contro le eresie V, 32,2).

 

Daniele Garota

(2. fine)

 

 

(

 

.