Koinonia Marzo 2018


LA VITA OLTRE LA MORTE:

QUALE FUTURO PER I COMPLESSI CONVENTUALI DISMESSI O IN CRISI?

 

All’inizio di dicembre del 2017 le ultime suore domenicane hanno lasciato il conservatorio di San Niccolò a Prato. Erano tutte ottuagenarie, ora si ritirano in una casa di riposo, dove possono stare più comode ed essere meglio assistite. Un futuro incerto attende questo complesso straordinario e poco noto, fondato dal cardinale Niccolò Albertini all’inizio del Trecento, dove il tempo pareva essersi fermato. Forse non custodisce capolavori assoluti, ma  affascinante vi è la sedimentazione di opere di tutte le epoche, da una forte Croce lignea trecentesca agli affreschi quattrocenteschi dei due refettori, del Bocchi e del Trombetta, a quelli della sala capitolare, alle decorazioni sopra ogni cella del dormitorio, ai marmi e agli affreschi barocchi della chiesa interna che ancora conserva la grata monalium sotto ad una pala di Luigi Crespi e l’antico comunichino, e via dicendo. Notizie di questo genere sono sempre più frequenti. Due anni fa i domenicani hanno abbandonato il convento di Santa Maria di Castello a Genova, ogni tanto minacciano di lasciare la stessa San Marco a  Firenze. Gli ordini regolari hanno creato e vissuto questi luoghi, ormai faticano a gestirli sempre più. Erano custodi e garanti della memoria storica, per la continuità di un uso che viene improvvisamente meno. Non sembra esserci adeguata consapevolezza di quanto traumatico e delicato sia questo passaggio, che con la crisi delle vocazioni probabilmente colpirà sempre più monumenti, piccoli e grandi, minacciando un tessuto imponente che è una delle peculiarità non secondarie del patrimonio artistico, specie in Italia. L’auspicio è naturalmente che queste comunità riescano a resistere e ad affrontare i costi di manutenzione di così tanti conventi. Ma dove vengono meno lo stato italiano dovrebbe attrezzarsi per attivare percorsi di riqualificazione che non tradiscano la storia e la peculiarità artistica e culturale di questi luoghi. Non lasciare insomma alla gestione locale e sporadica il loro destino, col rischio anche che divengano preda di appetiti disordinati. Sia chiaro, ci sono conventi che sono stati trasformati in resort di lusso o location per matrimoni (come San Francesco a Piancastagnaio, sul Monte Amiata, o il convento osservante del Giaccherino a Pistoia, ad esempio) e in questo modo sono stati salvati dal degrado, se non dalla rovina. Si sarebbe potuto auspicare una fine diversa, ma è un fenomeno che obiettivamente non può essere demonizzato. Vasti dormitori costruiti per ospitare decine se non centinaia di religiosi, ora popolati da nuclei sparuti, potranno continuare a svolgere la loro funzione ricettiva, come civili ed ospitali ostelli della gioventù. Però ci deve essere una funzione pubblica che vigili e indirizzi, incoraggi gli usi più appropriati, tali da contemperare il rinnovamento con la custodia della memoria storica, con la conservazione delle opere d’arte, con la loro fruibilità, non violentando l’esprit des lieux. Questa funzione, che storicamente era incarnata dalle Soprintendenze, sta venendo meno. La riforma Franceschini ha concentrato le risorse sui soli musei, ed anzi solo sui grandi musei. Nonostante che ogni tanto si parli ancora di tutela e di museo diffuso, alle parole non corrispondono concrete attenzioni, direttive chiare, stanziamenti e impieghi di personale qualificato. Soprattutto manca una progettualità condivisa, alla luce del sole. Le vicende degli immobili degli ordini regolari non sono mai dibattute, nessun giornalista se ne occupa. Evidentemente c’è chi ha interesse che se ne parli il meno possibile. Questi complessi possono rappresentare grandi potenzialità. Da un anno la Scuola dei brigadieri e dei marescialli dei carabinieri ha lasciato la porzione più vasta del convento di Santa Maria Novella, attorno al Chiostro grande, forse il chiostro più bello di tutta Firenze. Una sfida straordinaria attende il Comune, che possiede il complesso e che ha l’opportunità di articolarvi un museo importantissimo, accessibile direttamente dalla piazza della Stazione, collegato con la basilica: il monumento è già di per sé un museo, includendo i colonnati a perdita d’occhio dei dormitori trecenteschi, gli affreschi tardo-cinquecenteschi del Chiostro grande e la cappella di Leone X affrescata da Pontormo. Ma quando si dice museo c’è sempre chi urla alla mummificazione, come se un museo oggi non potesse essere un luogo aperto e ospitale, sede di attività culturali e spettacolari, dove formazione e ricreazione si coniughino. Quanti conventi, diventati poi caserme, sono stati dismessi o stanno per essere dismessi nei centri storici delle grandi città italiane! Quante potenzialità, ma anche quanti rischi! Primo fra tutti il degrado che colpisce gli edifici non più abitati, in brevissimo tempo. Non è poi noto a tutti che diversi complessi chiesastici di primaria importanza sono di proprietà del Ministero dell’interno, attraverso la figura giuridica del FEC, Fondo edifici di culto, creato nel 1985. Non è chiaro perché quando venne istituito il Ministero dei beni culturali nel 1975 non gli vennero attribuite queste competenze, impropriamente affidate ad un ministero che si occupa dell’ordine pubblico e dei corpi di polizia e che gestisce in maniera centralistica e burocratica questo patrimonio importantissimo, oltre 820 chiese, senza adeguate competenze storico-artistiche. A Firenze ad esempio sono del FEC le basiliche di Santa Maria Novella e di Santa Croce. In uno scenario così problematico è quanto mai opportuno che la comunità internazionale degli storici dell’arte vigili ed intervenga, faccia sentire la sua voce, perché la gestione, la riqualificazione e le destinazioni d’uso di questi complessi siano discussi pubblicamente, siano oggetto di progettualità a lungo termine, coinvolgendo almeno a livello consultivo le migliori competenze, i detentori di saperi storici. In questo modo forse si attirerebbero anche risorse sane, sponsorizzazioni internazionali pronte ad investire nel rispetto del flavour storico di quei luoghi. I restauri puntuali di singole opere bisognose, su cui si prodigano da anni meritoriamente organizzazioni come Save Venice o i Friends of Florence, rischiano di essere un piccolo granello se non c’è una comunità più vasta che abbia a cuore il futuro di un patrimonio sterminato e capillare e sappia far valere politicamente la sua voce di fronte ai rischi di degrado o di uso improprio degli edifici religiosi e conventuali dismessi. In molti casi sarebbe possibile riqualificarli, riportare nei luoghi di origine opere d’arte che sono relegate in uffici e depositi di musei, snaturate per vicende spesso accidentali nei posti più diversi. Si potrebbe cercare insomma di risarcire i contesti e al contempo di fare sì che monumenti simili continuino a vivere in forme diverse, a raccontare la loro storia, in maniera se possibile più intensa e coinvolgente, anche nell’inevitabile innesto di nuove funzioni. La musealizzazione non dovrebbe essere di principio incompatibile con ruoli ricettivi. Si potrebbero anzi sperimentare formulazioni miste innovative, magari incoraggiando in questo modo la persistenza delle comunità monastiche. E pensare a “musei conventuali” che divengano motori vivi di una riappropriazione culturale delle città storiche, che aiutino sia i turisti sia i cittadini a rileggere la ricchezza di quella storia e di quel tessuto urbano di cui specialmente le chiese degli ordini mendicanti sono state protagoniste d’eccellenza. Potrebbero diventare occasioni per mettere in atto una spettacolare stratigrafia, al contempo ludica ed istruttiva, che aiuti a ricucire i fili di centri storici sempre più snaturati e brutalizzati da un turismo di massa non qualificato. Anche da questa sfida, di cui non si parla abbastanza, dipende il futuro del patrimonio artistico diffuso.

 

Andrea De Marchi

 

.