Koinonia Febbraio 2018


Confronto sul problema dei problemi

 

Mors, finis an transitus (Morte, fine o passaggio?) è il titolo di un libricino prezioso (BUR, Milano, 2007, € 8,60), ricco di contributi di diverso genere (filosofico, teologico, letterario, psicanalitico) sul problema dei problemi che da sempre ha dominato il pensiero umano: la morte. Non ha la pretesa di affrontare il tema in modo esaustivo e neppure sistematico, né apre un dialogo tra i vari autori. Il libro si limita ad offrire contributi di riflessione, talvolta molto profondi e suggestivi. Presenta anche un’antologia di autori classici molto ricca e accurata (dalla Bibbia ad Omero, dai filosofi greci ai lirici, dai Vangeli a sant’Agostino). Il lettore può leggerlo anche a ritroso o in modo sporadico: troverà sicuramente un pensiero che lo colpisce nel profondo e che lo aiuta ad evadere dalla cappa di rimozione che oggi avvolge il tema della morte.

Scegliendo tra  i contributi più significativi comincerei dall’ultimo, quello di Gianfranco Ravasi: La morte della morte. Il grande teologo distingue la  presentazione della morte “in retrospettiva, che getta una luce sull’esistenza che l’ha preceduta svelandone un senso” da quella vista come “l’aprirsi di una prospettiva che si allarga oltre la frontiera della linea terrena”. Questa seconda ottica può, a sua volta, presentare “l’oltre” come baratro oscuro (l’oltre-vita ebraico) oppure come “trasferimento dalla stanza del mondo corrotto, limitato e caduco, verso l’aula del regno di dio, nella gloria, nella luce e nella pace divina”.

La visione della morte, spiega Ravasi, non può non essere connessa con la concezione antropologica: chi guarda la morte “in retrospettiva” vede l’uomo nel suo autonomo farsi, nelle sue capacità, nella sua produzione: egli conterà, per i posteri, in proporzione di quanto avrà dato.  Chi dà risalto  all’oltre, invece, vede la vita sulla terra come un dono, come grazia. Chi, come Platone, concepisce l’essere umano dualisticamente, diviso in corpo e anima, non può che attribuire soltanto a quest’ultima l’immortalità, chi invece concepisce l’essere umano come unità di spirito e carne, crede nell’immortalità dell’uomo intero.

La discriminante decisiva consiste, però, nel modo di concepire il rapporto tra uomo e Dio. Come spiega S. Paolo, incarnazione, morte e resurrezione di Cristo offrono un’interpretazione assolutamente nuova del fine vita: la resurrezione di Cristo (anche se vista simbolicamente come trasformazione), ha decretato “la morte della morte” nel senso che “la nostra persona sarà aperta all’irruzione dello Spirito divino del Risorto così da essere introdotti nell’orizzonte stesso della gloria e della vita di dio”.

 

Il percorso di Massimo Cacciari (Vivere per la morte) parte da premesse diverse ma arriva molto vicino alla conclusione di monsignor Ravasi. Il filosofo veneziano giudica la visione che della morte hanno dato i classici soltanto una téchne alìpias, cioè un metodo per allontanare la sofferenza che provoca il solo pensarla. Sia che la si descriva come “transito”, “passaggio a miglior vita” (tradizione spiritualista), sia che si neghi perfino la possibilità di “pensare” la morte (epicurei e stoici) lo scopo di queste spiegazioni è sempre quello di cancellarne l’aspetto temibile, di rimuoverla dalla coscienza. Tale atteggiamento, osserva Cacciari, è diffuso ancora oggi: “per noi la morte è diventata un innominabile”.

A sostegno di questo giudizio vorrei citare anche atteggiamenti moderni di tipo “anestetico” o consolatorio. Per esempio coloro che accomunano il decesso di un uomo alla morte di qualunque  altro essere vivente (animali,  piante) e anche non viventi (acqua, vento, stelle) e che presentano la morte come  un fenomeno naturale necessario alla sopravvivenza del tutto e come tale da accettare. A questa visione delle cose fanno riferimento le sempre più frequenti cremazioni dei cadaveri e la conseguente dispersione delle ceneri: “restituite” alla natura esse ricondurrebbero l’individuo alla sua origine naturale.

 

Potrebbe essere classificata come  una téchne alìpias anche l’interpretazione storicista secondo la quale, dell’individuo che muore, sopravvivrebbe quello che egli ha “dato” (figli, opere, idee, esempi ecc.), concezione espressa da Alberto Malliani nel saggio qui contenuto intitolato appunto: “Sopravviviamo per le tracce che lasciamo”. Ogni esistenza umana è qui  vista come contributo alla creazione di un capitale di memorie. Sono posizioni, per dirla con Ravasi, che vedono la morte “in retrospettiva” e che vogliono eliminare il pathos che avvolge la morte, ma che, in verità, si limitano a rimuoverlo.

Sempre secondo Cacciari, la riflessione contemporanea affronta il problema della  morte non collocandola temporalmente al termine dell’esistenza, ma nell’esistenza stessa: “esserci e morte -egli scrive- sono un insieme indissolubile” . Per chiarire questo concetto il filosofo fa riferimento ad “Essere e tempo” di Heidegger, secondo il quale “nel nostro esserci, che è il tempo, noi ci apriamo, nell’angoscia, alla possibilità estrema che è la morte” . La novità della posizione di Heidegger sta proprio nella visione di tempo come “essere nella possibilità”, cioè perenne apertura all’ignoto, che nella morte vede la possibilità estrema. Questa tensione è espressa nel termine angoscia. Non che il pensiero della morte debba necessariamente indurre un senso di angoscia, ma che vedere il tempo come essere per la morte è di per sé angoscia. Proprio quello che tutte le soluzioni “anestetizzanti” appartenenti all’età classica, vorrebbero cancellare.

Anziché costituire una chiusura teoretica, la posizione heideggeriana apre, secondo Cacciari, prospettive positive, ancorché atee. È proprio l’angoscia, infatti, che “rende possibile il salto nella dimensione della speranza...”.  Non la speranza platonica nel “trasferimento” in un altrove ignoto e inconoscibile, ma speranza “di poter accogliere in sé la morte del Figlio, morendo col Cristo in ogni istante”.  La speranza, dunque, si fonda non nella fede in un Padre che ci accoglie, ma in una visione del tempo come “esserci”, un tempo che non si evolve in successione, che non contempla l’oltre, un tempo nel quale l’uomo si trova istante per istante a tu per tu con la morte.

 

Viene qui a proposito il testo di Ivano Dionigi intitolato Cotidie morimur. Dopo aver citato la concezione “fisica” della morte (espressa dai presocratici), quella filosofica (Apologia di Socrate), e quella religiosa (Agostino), l’autore conclude cercando di rispondere alla domanda “perché si muore?”.  La risposta sta, anche in questo caso, nella concezione di tempo: l’uomo muore perché la sua vita non si chiude nella figura del cerchio (dove inizio e fine si identificano) ma si dipana nell’immagine dell’arco che non può non finire. Il Cotidie morimur, qui, non è visto come tensione puntuale tra vita e morte, ma come consumazione, deperimento, assottigliamento (mors carpit nos).

 

Un’ultima, originale, visione della morte è quella offerta da Silvia Vegetti Finzi, studiosa di psicanalisi. Qui la morte non è vista come oggetto astratto di riflessione, ma come esperienza. Visto che nessuno può riferire l’esperienza della propria morte, si tratta dell’esperienza di un lutto che ci colpisce da vicino, della morte di una persona cara. “Perdere chi è caro, scrive l’autrice, significa smarrire, non solo una fondamentale presenza esterna, ma sentirsi deprivati di una parte di sé, sperimentare il vuoto e l’assenza nel cuore stesso della nostra identità”. È una parte del sopravvissuto che viene a mancare, non un soggetto altro da lui. È questo sgomento che ha provocato le innumerevoli versioni consolatorie offerte dalle religioni (anima, vita ultraterrena, resurrezione ecc.). Queste però continuano a vedere la morte come altro da sé, non la cocente percezione della morte avvenuta dentro di sé.

Quando chi sopravvive alla morte di una  persona cara afferma ‘d’ora in poi è tutto finito,  per me non c’è più niente’  sembra cedere alla disperazione, ma al tempo stesso sta inconsapevolmente approntando lo spazio virtuale della ri-creazione, lo schermo bianco su cui proiettare le figure della sostituzione e le narrazioni della consolazione”.  Si tratta di partorire un soggetto nuovo, proprio come fa la donna con il bambino. La morte al femminile (tutte le immagini mitiche della morte sono femminili) non è quella che divide, trasferisce, transita, è quella che produce il nuovo, crea il diverso, con anima e corpo, mente e gesto.

                                 

Anna Marina Storoni Piazza

 

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