Koinonia Febbraio 2018


Dall’intervento di Cettina Militello su

Corresponsabilità di uomini e donne nella Chiesa

in “Adista” - Documenti – n. 42 del 9 dicembre 2017

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La Chiesa come evento koinonico

 

Per me Romani 16, che è stato a lungo studiato, sul quale le mie colleghe bibliste hanno offerto una puntuale lettura di tutte le sfumature, è veramente uno spartito di Chiesa (anzi di “Chiese”) in cui uomini e donne hanno le stesse responsabilità; hanno anche pure le loro “beghe”, intendiamoci, perché non è che sianp pacifiche alcune situazioni lì ricordate, ma quantomeno non ci sono né gerarchia né sacralità; non c’è niente di tutto quello che noi pian piano abbiamo aggiunto.

Quella, dunque, che oggi chiamiamo corresponsabilità di uomini e donne nella Chiesa, probabilmente era l’esperito, per quanto umanamente possibile, delle prime comunità cristiane (e anche lì non bisogna idealizzare e proiettare i nostri desiderata e le nostre acquisizioni). C’è stato in partenza un modello egalitario, assai evidente soprattutto nel contesto martiriale. Sappiamo bene come di fronte al martirio non c’è stata differenza tra uomini e donne. Ci insegna la storia che la differenza subentra non appena un gruppo acquisisce il potere. Fino a quando bisogna lottare, testimoniare e morire non c’è differenza tra uomini e donne. Anzi non ci sono discriminazioni né sociali né culturali, come mostra il caso di Blandina, una giovanissima schiava. Appena si stabilizza la situazione, la prima cosa che viene fatta fuori sono le donne.

Al modello martiriale, egalitario, anzi l’unico profondamente e autenticamente egalitario, è subentrato nella vicenda cristiana il modello imperiale, un modello gerarchico, un modello fondato sulla mistica dell’uno. L’uno per definizione non ammette la pluralità; anzi, ogni pluralità è offesa, è scissione, è decadimento. E badate bene, la fede cristiana è stata veramente geniale nel declinare insieme unicità e trinità di Dio. Il nostro Dio unitrino scioglie una delle aporie più tragiche: la contrapposizione uno-molti comprendendo Dio nel segno appunto dell’unità e della pluralità, di più  della differenza che non ne annulla l’unicità ma la declina come ineffabile alterità. Come è stato ricordato stamattina, abbiamo un Dio plurale, un Dio differente, un Dio in reciprocità, nel vis-à-vis permanente e straordinario delle divine Persone.

Il modello imperiale, la mistica e la gerarchia dell’uno che lo caratterizza, conosce figure diverse nella storia, ma in esso non cambia il rapporto uomini/donne. In partenza, voglio dire nell’età dei padri – e lo ha messo in risalto Kari Børresen – emerge il binomio “subordinazione/equivalenza”. Il cristianesimo, cioè, afferma l’equivalenza uomo- donna nell’ordine nella grazia - brave donne, fatevi sante, più sante degli uomini; ma lasciate perdere la storia, lasciate perdere la Chiesa perché non sono cose vostre. Questo modello le donne provano a metterlo in questione e spesso e volentieri ci riescono, ma non creano tradizione duratura. La cosiddetta tradizione alternativa, che pure c’è ed è significativa, è minoritaria; succede sempre qualcosa che riporta le donne nella condizione di subordinazione considerata loro propria. Il che mi induce ad allertare chi mi ascolta perché non è detto che la tendenza del presente sia risolutiva. Occorre proprio vigilare perché a ritornare indietro si fa presto (sempre che abbiamo del tutto raggiunto ciò per cui abbiamo lottato).

Il modello imperiale, ripeto, è incrinato dalle donne: lo incrinano le sante donne, le monache; lo incrina il diritto che il monachesimo dà alle donne di accedere alla cultura (cioè a pregare con la Bibbia e quindi a saperla leggere e commentare); lo incrina la teologia medievale delle grandi mistiche, delle grandi profetesse; lo incrina la loro nominazione al femminile di Dio, ecc. Ma permane sempre l’ipoteca gerarchica, che ripropone nell’umano il modello presunto di un divino onnipotente, eterno, immutabile, impassibile e di fronte al quale, visto che è il maschio a riproporlo nella sua interezza, la donna è seconda e dunque ontologicamente diversa: al punto tale che malgrado l’affermazione biblica della imago Dei ci si porrà il problema se le donne abbiano un’anima o meno. E nello stesso leggere l’imago Dei si dirà che la donna è immagine in quanto  homo, non in quanto mulier, perché come femmina non può assolutamente essere ad immagine di Dio. Lo è (grazie per la gentilezza) in quanto fa parte dell’umanità. Però poi, nella vita concreta di ogni giorno, questo discorso giunge fino alle proposte ecclesiologiche recenti che continuano a ontologizzare la subordinazione della donna che è e resta seconda nell’ordine del “principio”. Inutile dire che non mi conforta che di questa secondarietà si faccia una nuvola melensa dove le donne e innanzitutto Maria brillino nel primato della grazia e della santità. Di fatto le donne non contano nella loro concretezza e restano subordinate.

Il modello societario comporta novità nella strutturazione della Chiesa. E, al riguardo, va rilevato come ci sia stato sempre detto che nulla muta, che noi crediamo sempre e soltanto le stesse cose. Il che è falso perché abbiamo costruito modelli di Chiesa assolutamente conformi ai modelli sociali e culturali che man mano sono elaborati. Oggi seguitiamo difenderli come se fossero modelli rivelati, come se la Chiesa dovesse essere monarchica per divina istituzione. La monarchia è una nostra invenzione: siamo diventati monarchici quando c’erano le monarchie; siamo diventati imperiali  quando c’era l’impero; ci siamo definiti societas quando è prevalso il concetto di società e di patto sociale, e poi collezionando tutte queste cose siamo al punto in cui siamo…

Per me il momento di svolta è il Vaticano II, che non spunta come un fungo ma è preceduto da una grandissima fatica, spesso repressa, condannata, ridicolizzata. Diciamo che dalla fine dell’800 sino agli anni ’50 è stata ingaggiata una lotta per provare a ridire la fede in termini che stabilissero un dialogo col mondo moderno. Poi è arrivato quel grandissimo profeta che è stato papa Giovanni, che non era né scemo, né devoto nel senso infantile del termine, ma era una persona colta, che aveva vissuto sulla sua pelle la temperie modernista e quindi sapeva cos’era successo. Da papa Giovanni si mette in moto la novità del Vaticano II e della sua svolta. Il mutamento, lo sapete, è nel pensare la Chiesa come evento koinonico e sinodale. Direi più in senso koinonico che sinodale perché la sinodalità è qualcosa che abbiamo acquisito dopo, per peso proprio del pensare la Chiesa come comunione. Se la Chiesa è popolo di Dio, se è comunione in quanto popolo di Dio, il popolo di Dio è un popolo pellegrinante e in cammino. La sinodalità, dunque, prima ancora di essere un esercizio di corresponsabilità, è un camminare insieme verso Cristo che torna. Ovviamente in questa riscoperta del modello koinonico e nelle sfaccettature del modello sinodale che cosa emerge?

Emerge l’utopia originaria della fraternità/sororità, emerge il disegno trinitario (se lo avessimo messo in pratica avremmo davvero cambiato la società senza dar luogo a tutti gli scempi e le scelleratezze che l’hanno caratterizzata e che la caratterizzano), ed emerge un modello inclusivo, che è nel segno della differenza, perché al cuore del mistero trinitario - lo abbiamo detto - c’è l’alterità.

 

Cettina Militello

 

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