Koinonia Gennaio 2018


Editoriale di “Esodo” dedicato a

 

 Parola di Dio, parola umana”

 

La crisi che attraversa le chiese è un dato evidente, e ha cause complesse e fattori molteplici. La questione che intendiamo porre qui è il rapporto tra prete e comunità. Considerando in particolare la chiesa cattolica, la crisi del prete e dell’intero ordine dei ministeri ordinati, per la centralità che si sono autoconferita, contagia infatti l’intero universo cristiano. L’ “ordine” ecclesiale instauratosi, esclusivamente maschile e sorretto da logiche patriarcali, espropria l’autorevolezza e le soggettività delle comunità. Tale realtà va però assunta come un’opportunità favorevole da comprendere profeticamente in funzione della chiesa del futuro.

Finché funzionavano le strutture ecclesiastiche tridentine, fondate sull’ordine sacerdotale gerarchico, rimaneva nascosta l’irrilevanza delle comunità, in quanto tali strutture erano governate da un’economia sacramentale comprendente i soli ministeri ordinati, in ossequio a una separazione gerarchica tra essi e i/le fedeli. La questione dell’esclusione di questi ultimi ha un’antica origine, che non ha nulla di evangelico.

Nelle prime comunità cristiane una guida esisteva, ma aveva il ruolo di tenere unita la comunità nella fede, nella koinonia e sinodalità e non nell’obbedienza a dottrine e istituzioni. Non si può però pensare di affrontare la questione con stampelle o rattoppi disciplinari, con escamotage tecnici, con formule organizzative, e nemmeno solo aprendo al matrimonio dei preti, al sacerdozio delle donne, alla partecipazione dei laici. Queste ultime sono certo questioni rilevanti, ma il nodo centrale sta nell’affrontare il tema del “potere” , che nelle comunità religiose è il non detto, tema scabroso ma assai reale. Ed è bene allora capovolgere lo schema, ponendo al centro non più i ministri ordinati ma la comunità sacerdotale dei battezzati. È lei che è stata chiamata a essere testimone di Cristo per l’umanità, è lei protagonista dell’annuncio, lei che - nella forma di piccola comunità - incarna e chiama al Regno, soprattutto con la sua testimonianza, per mostrare al mondo come Dio ama l’umanità.

La chiesa di Antiochia nasce dalla dispersione, da gente che non vive la sindrome da assedio, ma pensa all’offerta di una nuova opportunità: nasce da donne e uomini senza ruoli di autorità, semplicemente cittadini di Cipro  e di Cirene, che raccontano di Gesù e della buona notizia. Fuori dalle recinzioni istituzionali. Una missione avvenuta senza investiture e protocolli. Si tratta, quindi, di trarre tutte le conseguenze, teologiche e pastorali, che il ritorno al Vangelo invoca, rompendo il ruolo sacrale dei ministri ordinati, spogliandoli dal ruolo ministeriale gerarchico sacramentale.

Se è vero che, nel mondo attuale, complesso e disarticolato, è complicato dialogare e operare in sinergia senza ricorrere a figure organizzative specifiche, d’altra parte è vero pure che il giudizio e il controllo su tali figure è più svincolato di una volta da inibizioni, remore, soggezioni nei confronti dell’autorità.

Così è nel campo delle religioni e per quella figura di “guida” incarnata dal prete. Oggi molto più di ieri rifiutiamo quell’abitudine propria a molti pastori a «dire e non fare» (Mt 23,1-12). Nel passato anche recente la riverenza verso chiunque avesse autorità nella chiesa e nella società impediva questo sguardo realistico e si subiva la soggezione al potere. Tutto ciò ha portato a sussulti dentro le chiese, e ha indotto qualcuno a interrogarsi; ma si ha l’impressione che gli orientamenti magisteriali continuino a non recepire la differenza abissale che esiste tra parlare delle donne e parlare con le donne, e in generale parlare alla o con la gente, stare nella gente.

Nella vita del Maestro, vediamo, invece, quanto egli fosse mite con i poveri e diseredati, e severo e implacabile nei confronti della classe sacerdotale del tempo: persone che si ergevano unici ed inflessibili garanti della volontà di Dio, e che per questo passavano la vita a spiare il peccato degli altri, senza mai vedere la sofferenza del loro prossimo; persone certe della legge, con i suoi obblighi e i suoi pesi.

Constatiamo che anche per i preti più attenti al Vangelo e più disponibili a stare tra la gente sia difficile capire e ripensare il proprio ruolo oggi, inseriti come sono in un sistema incline a difendersi, e preservare i propri talenti, piuttosto che a investirli (Mt 25,14-30); solo rischiando di perderli si moltiplicano.

È la logica del discepolato di uguali quella che deve guidarci, dove il pastore/pastora - benedetto da quell’ “odore di pecore” dei racconti originari - si posiziona a pari merito per il servizio verso gli altri. Tutte e tutti consapevoli dell’essere sul bordo, piuttosto che al centro. Pensiamo che, per superare quell’irrilevanza dello stesso cristianesimo che abbiamo posto come problema, le comunità cristiane debbano, tornando alle origini, darsi forme plurali di organizzazione, di carismi, di ruoli in funzione non della sopravvivenza o di una redistribuzione dei poteri nell’istituzione, ma, secondo le parole e i gesti del Vescovo di Roma papa Francesco, dell’annuncio della “buona novella” di liberazione “ai poveri, ai profughi, ai sofferenti, agli sfollati e agli esclusi”, senza distinzione di nazione, sesso, razza, religione o cultura, e rigettare i conflitti armati.

 

Carlo Bolpin-Paola Cavallari

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