Koinonia Settembre 2017


A margine della prevista chiusura

del Convento S.Domenico di Pistoia

“I frati edifichino prima nel proprio convento la Chiesa di Dio,

che poi con la loro opera devono diffondere in tutto il mondo”

(Libro delle Costituzioni dei frati dell’Ordine dei Predicatori, n.3)

 

ALLA RICERCA DEL “CONVENTO INTERIORE”

 

Cari amici,

“mi rallegro perché io posso contare su di voi in ogni occasione” (2Cor 7,16). Faccio mie queste parole di Paolo, perché dicono il sentimento più vivo di gratitudine che provo per voi. La “colletta” che abbiamo promossa per le note ragioni è andata oltre ogni previsione di tempi e di contributi, offrendo a sua volta sorprese e motivi di solidarietà e di rendimento di grazie al “Padre creatore della luce” da cui discende ogni dono perfetto (cfr Gc 1,17). Di questa prova non possiamo che rallegrarci tutti, perché ha rivelato la comune passione e missione per il vangelo. E allora è come se, ancora con Paolo, potessi ora ripetere a ciascuno di voi:  “Piuttosto anche tu, aiutato dalla forza di Dio, soffri insieme con me per il Vangelo” (2Tim 1,8). È qui la vera posta in gioco e il banco di prova per le nostre migliori intenzioni!

Ad un certo momento è sembrato, però, che si andasse incontro ad una battuta di arresto: inaspettatamente  siamo stati raggiunti dalla notizia della chiusura del Convento di Pistoia, senza poter prevedere cosa ne sarebbe stato di noi. Sapete infatti che il Convento di Pistoia è attualmente il luogo in cui ha sede il “Centro Koinonia P.Paolo Andreotti”, così come abbiamo voluto si configurasse la nostra esperienza dopo le precedenti trasmigrazioni, in riconoscenza verso colui che ne è stato l’ispiratore e il sostenitore, come Provinciale prima e come Vescovo poi, ma in sostanza come Padre e confratello: verso chi ci ha lasciato in eredità il coraggio di osare “extra claustrum” - o fuori le mura - una esperienza e un  impegno di evangelizzazione che continuano. 

Ma altrettanto inaspettatamente, ci viene detto che nonostante chiusura e trasferimento altrove, Koinonia può continuare a risiedere e operare in questo luogo. Ciò che comporta qualche adattamento logistico, ma soprattutto una modificazione mentale, per dare continuità al nostro servizio in questo trapasso. Esso sembra configurarsi come passaggio da un “convento reale” al “convento interiore”. Cosa vuol dire? A tale proposito è nota e perfino abusata la formula di S.Caterina da Siena “cella interiore”, lei che è maestra di contemplazione  mistica e di movimento attivo senza uguali: la cella monastica o conventuale in cui avrebbe dovuto dimorare come religiosa l’ha interiorizzata e l’ha fatta abitare dentro di sé. È qualcosa che è avvenuto nei nostri tempi anche per quanto riguarda l’”essere chiesa”, tant’è che è diventato slogan dire “chiesa siamo noi” perché la chiesa è prima di tutto dentro di noi. Si passa cioè da una appartenenza istituzionale alla personalizzazione di una missione!

Questa premessa per dire che forse questo processo di interiorizzazione vale anche per quanto riguarda il convento, tanto da poter parlare appunto  di “convento interiore”: se infatti parlare di chiusura è in qualche modo sintomo di morte di una struttura convenzionale, al tempo stesso offre l’opportunità di ripensare e reimpostare il modo di “essere convento”, in fedeltà alle sue origini ma soprattutto in risposta alle istanze presenti della evangelizzazione. E questa non è una questione domestica interna ad organismi  religiosi tradizionali, ma è autentica questione ecclesiale. L’invito a  ripensare il convento come questione ecclesiale – alla pari di altre, quali ministeri, laici, donna, movimenti, creato,  ecc.. – ci viene dal Libro delle Costituzioni dei frati dell’Ordine dei Predicatori, dove al n.3 si legge: “I frati edifichino prima nel proprio convento la Chiesa di Dio, che poi con la loro opera devono diffondere in tutto il mondo”.  Quindi un convento come embrione evangelico di chiesa – lievito o seme che sia – e non più zona franca per spiritualismi museali o cattedrali nel deserto della indifferenza religiosa. E questo può rimanere vero - quando non sia possibile realizzarlo in luoghi deputati -  in un contesto di relazioni interpersonali, e quindi come “convento interiore”, che dovrebbe essere il sostrato anche di ogni “convento reale”.

Ecco perché la vicenda del convento S.Domenico di Pistoia non è che una occasione di ripensamento globale e può essere anche un test per capire come una mancata dialettica convento-chiesa abbia portato ad un ristagno interno e ad una  omologazione della vita religiosa funzionale  più al sistema che al vangelo. Stando così le cose, il confronto è tra sistema costituito e libero processo costitutivo, tra l’esistente e realtà in fieri, tra il già fatto e il non ancora compiuto, tra legittimità e creatività, tra ciò che è definito e ciò che è in via di definizione, tra ciò che è e ciò che non è, tra lettera e spirito, tra legge e carisma, tra otri e vino, tra sabato e uomo: al posto di calchi di aggregazione applicati c’è la libera relazione tra persone.

Devo dire che un rapporto dialettico convento-chiesa era già presente nel DNA che ha prodotto anche Koinonia, e forse è naturale che in un passaggio così impegnativo  riemerga la questione di fondo che è stata l’asse portante della esperienza e delle vicende di questi anni.  Essendo ancora in cammino e dovendo forse ripartire  da nuove situazioni, eccoci allora a parlare di “convento interiore” come luogo  e modalità di vita e missione evangelica, non più prerogativa di corpi specializzati,  ma compito di tutto il Popolo di Dio. Se un nucleo propulsore è necessario e momenti di raccolta  ci vogliono, è solo per avere la spinta giusta ad agire di conserva e con un minimo di visibilità.

Ridotto al minimo, il principio originario e permanente che ci ha guidato altro non è che l’incontro umano ad ispirazione evangelica e il vangelo come spazio di comunione e di “predicazione”. In questo senso parliamo anche di convento come “casa di predicazione”, appunto come centro propulsivo di irradiazione evangelica: un compito che  ci fa ritrovare intenti e assidui nell’ascolto della Parola e degli insegnamenti degli Apostoli, nella orazione costante gli uni per gli altri, nello spezzare il pane nelle case di ciascuno, come ospitalità, come condivisione e aiuto reciproco. Se questo è un compito primario che ci qualifica, deve avere un suo rilievo specifico di predicazione informale e permanente e non rimanere ai margini di una azione programmata . Ed è qui che si innesta tutto un lavoro di ricerca, di riflessione e di evangelizzazione propriamente detta.

Non possiamo dimenticare che in gioco c’è la salvezza, e che la chiesa altro non è che sacramento di salvezza:  qualcosa che attiene alle persone mediante la fede e che non è affatto delle strutture, così come la comunicazione della grazia è sempre attraverso una mediazione personale, e non applicazione esteriore: tant’è che del Corpo di Cristo si dice che sia “instrumentum coniunctum”, un contatto vivo e interattivo. Se volessimo parlare di un “corpo di predicazione”, non potremmo non pensare che ad una chiesa in stato di evangelizzazione e “casa di predicazione”. Dall’immagine del  “convento  reale” si passa dunque alla interiorizzazione del convento come centro e rete di irradiazione evangelica. E se non c’è un convento che diventi laboratorio di chiesa, là dove c’è la  ricerca di una chiesa in embrione lì c’è convento.

Questo va detto nella consapevolezza che non si tratta di un obiettivo da mirare, quanto  piuttosto della costatazione di fatto: sia pure informalmente e potenzialmente le cose stanno così. La situazione in cui veniamo a trovarci può essere occasione e motivo per interrogarci su questa nostra militanza di servizio aperto al vangelo, per renderla più condivisa e più libera. Quando perciò si parla di “convento interiore”, vuol dire che convento è prima di tutto questo ritrovarsi tra persone che per una missione comune si danno una mano nel compierla.

Per tutto questo non può mancare certamente una base materiale, ma non è detto che ad offrirla debba essere necessariamente un “convento reale” precostituito, se prima non c’è una interazione di rapporti che va creata nella vita quotidiana. Capita di leggere proprio oggi, 14 settembre, l’articolo di M.Cacciari riportato di seguito, davvero illuminante per riscoprire il senso della mendicità e della itineranza: verrebbe da dire che i conventi sono nati per recuperare  il senso originario della parrocchia, salvo poi diventare fotocopia o brutta copia della stessa parrocchia intesa come principio di stabilità e di insediamento della chiesa. Ecco, da parte nostra forse potremmo rappresentare un principio mobile e trasversale di coscienza e presenza evangelica, almeno come passione e  tentativo. Sognare è ancora lecito!

E così è detto anche quale possa essere il nostro servizio e la nostra libera collocazione nella chiesa locale di Pistoia. In questa linea vogliamo muoverci anche negli incontri del prossimo anno, riprendendo come tema generale la formula già usata “Il vangelo evangelicamente”: e se “vangelo” di sempre e di tutti è quanto di sostanza è da condividere, “evangelicamente” è quanto di partecipazione è da offrire da parte dei vari soggetti coinvolti.  Ricordando che a cambiare non è il vangelo,  ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio, sulla base comune per tutti i credenti  c’è ampio spazio di iniziativa e di sviluppo nei confronti di quanti vengono alla fede.

Siamo così di nuovo  alla evangelizzazione, intesa però come modo e ragion d’essere della stessa chiesa e non come pratica pastorale aggiuntiva: il Verbo si fa carne per abitare tra noi, pieno di grazia e di verità! Non è questa la “conversione pastorale promossa con tenacia da papa Francesco a partire dalla Evangelii gaudium?  Se poi vogliamo stare alla lettera, prendiamo pure i nn. 119-121 di questa Esortazione apostolica, che aspettano solo interpreti capaci di mettere in scena il copione e non solo commentatori di circostanza. È la sfida a diventare discepoli-missionari, che papa Francesco ha rilanciato nella omelia del 6 settembre a Medellin, riportata di seguito.

Cari amici, se tutto questo può sembrare ripetitivo vogliate scusarmi. Infatti, se  è acquisito mentalmente e come linguaggio, non possiamo nasconderci che  va metabolizzato e tradotto in stile e prassi ecclesiale. Con mons. Loris F.Capovilla potremmo ripetere “tantum aurora est”!

Vi saluto di cuore dicendovi che questa mia comunicazione potete tranquillamente concluderla voi, condividendo o correggendo la prospettiva in cui muoversi, ma soprattutto nel coinvolgimento solidale nella rinnovata avventura di servizio al vangelo. Fraternamente e con speranza!

 

Alberto Simoni op

.