Koinonia Settembre 2017


“IL PRIMO PRETE OPERAIO ITALIANO”: BRUNO BORGHI*

 

Se non è mai semplice scrivere la vita di un uomo o di una donna, ancora più complicato è tracciare la biografia di una persona come Bruno Borghi, che ha attraversato nell’arco della sua esistenza più “vite”, così distanti e contrastanti tra loro da sembrare incoerenti: orfano di padre, apprendista falegname all’Impruneta, seminarista a Firenze e poi prete, operaio alla Fonderia del Pignone e alla Gover, parroco, sindacalista della Cgil, licenziato e nuovamente assunto, pacifista, più volte processato, sospeso a divinis, volontario tra i carcerati, marito, militante per i diritti degli “spastici”, contadino, padre, cooperante in Nicaragua...

La biografia che Antonio Schina ora ha scritto, sulla base di un’accurata e appassionata ricerca, permette di ritrovare i fili tenaci che hanno attraversato l’intera vita di Borghi dalla sua nascita, nel 1921, alla sua morte, avvenuta nel 2006.

Cresciuto a Firenze in anni caratterizzati da forti conflitti sociali e da originali sperimentazioni per il rinnovamento cattolico, Bruno Borghi emerge come uno dei protagonisti delle più intense lotte cittadine: sostenne le proteste operaie e le occupazioni del Pignone e della Galileo, come pure fu presente nelle contrastate esperienze della comunità dell’Isolotto e dalla parrocchia della Resurrezione. Appartiene a quella galassia di cattolici fiorentini che hanno segnato in profondità la vicenda religiosa e sociale della città e del suo circondario, come il sindaco Giorgio La Pira, l’arcivescovo Elia Dalla Costa, don Lorenzo Milani e padre Ernesto Balducci. Come loro, Borghi ha unito strettamente partecipazione alla causa per l’emancipazione dei poveri e ancoraggio alla fede cristiana. Diversamente da loro, però, ha lasciato poche tracce scritte del suo itinerario di maturazione civile e spirituale. Per ripercorrere i passi che lo hanno portato a essere “il primo prete operaio italiano” bisogna dunque ricorrere, più che ai suoi rari documenti scritti, alle lettere dei suoi conoscenti e soprattutto alle molte testimonianze degli amici.

Attraverso la vita di questo sacerdote “eccentrico” - nel senso letterale, “fuori del centro” - è possibile ricostruire una parte significativa della storia di Firenze nel dopoguerra, come pure dei cambiamenti del cattolicesimo italiano, e osservare quasi in presa diretta le rapide trasformazioni provocate dal “miracolo” economico, l’emigrazione dalle campagne alle città, il lavoro industriale, la povertà delle periferie e la volontà di partecipazione popolare. Di fronte alle contraddizioni di un’economia che licenzia gli operai e mantiene alti i profitti del capitale, don Bruno opponeva un ragionamento lineare, fondato sul Vangelo e fermo nel rivendicare i diritti dei lavoratori: «la vita di un’azienda si fonda sui valori spirituali e su una concezione cristiana dell’uomo», scriveva nel novembre 1958 nella lettera alla commissione interna della Galileo per sostenere le ragioni dello sciopero che stava squassando la città. «È il momento della scelta: o servire il proletariato e condannare alla radice una società in cui il denaro è arbitro o approvare un sistema che è contro l’uomo. La Chiesa ha già scelto quando ha dichiarato che l’uomo è cosa sacra».

La volontà di Borghi di essere dalla parte dei poveri era certamente il riflesso delle ristrettezze vissute nell’infanzia e nell’adolescenza, ma aveva poi gettato profonde radici durante il periodo della formazione in seminario. Insieme ad altri seminaristi (tra cui Lorenzo Milani), aveva infatti attinto alle nuove riflessioni teologiche provenienti soprattutto dalla Francia che cercavano di rompere con il tradizionalismo religioso e il conservatorismo politico della Chiesa. La sua “scelta di campo” si era rafforzata dopo il 1946, con le sue prime esperienze di prete nei quartieri popolari. Aveva incontrato molti giovani, operai e contadini, e attraverso i loro racconti aveva conosciuto le prevaricazioni e gli abusi che continuavano a subire, trovandosi a condividere la loro volontà di riscatto. Dopo molte insistenze e una prima esperienza di lavoro tra il 1948 e il 1949, l’anno successivo Borghi ricevette dall’arcivescovo l’autorizzazione a entrare come operaio nella fonderia del Pignone, nel quartiere di Rifredi. Per don Bruno, entrare in fabbrica non fu uno stratagemma per contrastare l’ateismo diffuso tra i lavoratori o per convertire gli operai. Fu innanzi tutto una scelta di povertà, per diventare simile alla gente che viveva del proprio lavoro e lottava per un avvenire migliore.

Ciò che più muoveva don Bruno ad agire era il rifiuto delle logiche del potere economico che non consideravano «il prezzo dell’uomo, il valore dell’uomo». La lotta per la dignità dei lavoratori e i loro diritti era una priorità perché permetteva di contrastare la realtà disumana che metteva le “cose” sopra le persone e di difendersi dalle vessazioni, in nome della concezione cristiana dell’uomo e dei «poveri del Vangelo». L’adesione alla lotta di classe, per Borghi, aveva quindi una forte ispirazione religiosa, più che ideologica, e lo portava a considerare la fabbrica come il luogo dove «era possibile tutto», la trasformazione delle persone e il cambiamento della società. L’utopia di un mondo nuovo, che tra gli anni Cinquanta e Settanta accompagnò moltissimi militanti delle organizzazioni sindacali e politiche di sinistra, si univa in Borghi al realismo delle iniziative per ottenere subito condizioni di vita migliori e, ancor più, per veder riconosciuta la propria dignità: «Non elemosinate niente, non cercate protettori e padroni», scriveva agli operai in sciopero. Gli anni tra il 1951 (quando Dalla Costa, per obbedire alle direttive del Vaticano, ordinò a Borghi di smettere di lavorare) e il 1968 (anno in cui fu assunto alla Gover, una fabbrica di prodotti in gomma) furono per Borghi un periodo di ricerca continua e contrastata della personale coerenza di vita. Non fu soltanto questo, però. Per l’operaio-prete (come preferiva definirsi), era inutile predicare il Vangelo e lottare a fianco dei lavoratori se la Chiesa non si liberava da ogni forma di potere. I legami coltivati dalle istituzioni ecclesiastiche con i detentori delle leve della politica e dell’economia, secondo il sacerdote fiorentino, contraddicevano il dovere dei cristiani «di non scandalizzare i poveri e il Vangelo». Le scelte successive di Borghi, come richiama giustamente Antonio Schina, possono essere lette come un percorso all’apparenza contradditorio, sempre al limite della rottura definitiva con la Chiesa di cui si sentiva comunque parte. Per rimanere fedeli a sé stessi e a Dio bisognava essere disposti ad allontanarsi dal centro, rompere gli ormeggi, andare oltre le frontiere dell’opportuno e del consentito, anche a costo di vedersi tagliato fuori della Chiesa, per poter trovare Cristo nel «tormento di tanti poveri». Per Borghi, si poteva «trovare, questo Cristo, anche al di là di una comunità che è sorda e chiusa a questa realtà vivente del Vangelo». Le reazioni contrastanti che accompagnarono le prese di posizione e le iniziative di Bruno Borghi furono il segnale delle tensioni innescate da scelte che, come le sue, si ispiravano più al radicalismo evangelico che al realismo ecclesiastico. Nella Chiesa italiana del Novecento, gli itinerari dei preti operai, come quelli dei cattolici del “dissenso”, furono marginali rispetto ai luoghi dove in prevalenza si condensò la tradizionale attività dei fedeli, nelle parrocchie dedite alla cura della pratica sacramentale o nell’associazionismo di massa. Si trattò, d’altra parte, di percorsi quasi sempre marginalizzati dall’istituzione ecclesiastica, sia per le loro posizioni politiche progressiste, quando non apertamente prossime al comunismo, sia per le decise richieste di riforma della Chiesa che provenivano da tali gruppi. Proprio il loro radicamento popolare ha però permesso a questi credenti di trasmettere in ambienti spesso estranei alla Chiesa l’utopia di una fede che per testimoniare la liberazione annunciata dal Gesù dei Vangeli doveva essere vissuta, nonostante tutti i rischi, “fuori del tempio”.

 

Marta Margotti - 28 maggio 2017

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* È la prefazione al libro di Antonio Schina  “Bruno Borghi. Il prete operaio”,  Centro di Documentazione Pistoia Editrice , giugno 2017, pp. 126, € 10,00.

L’autore ci ha inviato prima un comunicato di annuncio e poi il libro in dono. Ringraziandolo, dobbiamo dire che di Bruno Borghi ci siamo interessati in un incontro di Koinonia e venne a parlarcene l’indimenticabile don Renzo Rossi. Ricordarlo ora attraverso la parola di Marta Margotti è occasione per ritrovare  tanti amici e per rivivere una stagione della chiesa fiorentina che abbiamo attraversato e di cui portiamo l’eredità. La Lettera che riportiamo ci ripropone  un problema di sempre!

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