Koinonia Settembre 2017


QUALCHE CONSIDERAZIONE IN MARGINE A

 

F.Pajer, Dio in programma. Scuola e religioni nell’Europa unita (1957-2017), La Scuola 2017, pp. 235, 18,50

 

Insegno religione - con passione e piacere, aggiungo - dal 1988 e ho quindi avuto largamente modo di interrogarmi su questo insegnamento così peculiare, oltre ad aver conosciuto diverse stagioni che il medesimo ha attraversato.

Il libro di Pajer, che tali stagioni ricostruisce dando conto non solo del panorama italiano ma della situazione nei vari paesi europei, è stata dunque l’occasione per ripercorrere in modo sistematico anche la mia personale storia lavorativa, con le battaglie, i dibattiti, le prese di posizione che essa ha comportato. Il quadro di Pajer, autorità indiscussa in materia, nonché autore di importanti testi scolastici, è assai interessante e completo, utilissimo per gli IRC (in gergo, Insegnanti di Religione Cattolica) ma anche per chi nutra curiosità nei confronti del mondo scolastico o per chi sia semplicemente interessato alle problematiche educative e pastorali.

Ho aggiunto anche ‘pastorali’ perché in Italia l’IRC (stavolta, in gergo, Insegnamento di Religione Cattolica) è frutto  – come spesso nel nostro paese – di un compromesso, la logica concordataria, a parere di molti poco fruttuoso, se non addirittura nefasto.

Si tratta di un insegnamento confessionale (la C della sigla IRC) di due ore settimanali alle elementari e di un’ora settimanale negli altri gradi, impartito dalla Chiesa Cattolica tramite personale formato e dichiarato idoneo da lei, ma garantito - ovvero pagato - dallo Stato.

Con i mutamenti sociologici grandiosi avvenuti dal 1929, data del Concordato, ad oggi, sono stati necessari alcuni ritocchi: inizialmente obbligatorio, l’insegnamento è divenuto sostanzialmente facoltativo dal 1985, generando una situazione che definirei ridicola.

Oggi, ogni alunno di qualsiasi ordine e grado di scuola può avvalersi o meno dell’IRC, con facoltà di mutare scelta ogni anno (!) e nel caso in cui decida di non avvalersi, ha di fronte altre quattro (!) possibilità: frequentare una materia alternativa, dedicare l’ora - con l’assistenza di un insegnante - allo studio, dedicare l’ora – senza l’assistenza di un insegnante – allo studio, uscire da scuola.

Tutta la situazione rasenta i limiti dell’assurdo e genera tra l’altro non pochi conflitti di giurisprudenza per i docenti: solo il fatto di essere dichiarati idonei dalla Chiesa e poi pagati dallo Stato, rende noi insegnanti di religione delle eccezioni uniche nel diritto del lavoro scolastico.

Ma l’aspetto educativo è quello che più interessa: la facoltà di cambiare scelta ogni anno vanifica ogni possibile continuità in un disciplina che ha a disposizione un monte orario già ridottissimo. Mentre in tutte le altre discipline si prevede la ripetenza in caso non si abbia una sufficiente conoscenza dei contenuti, nella nostra addirittura si può tranquillamente frequentare un anno sì e uno no senza alcuna conseguenza.

Se poi si decide che la religione non interessa, si può addirittura andare a spasso per la città, al bar o a fare shopping, magari su commissione di chi resta in classe, e questo nel bel mezzo di una normale mattinata scolastica, avvalendosi così dell’ ora del nulla. Aggiungiamo poi che la materia alternativa non viene quasi mai attivata dalle scuole per le complicate questioni organizzative ed economiche che comporta (è pochissimo richiesta, quindi occorrerebbe pagare un insegnante talvolta anche per un solo ragazzo) e più al fondo perché non si sa quale insegnamento impartire e chi possa svolgerlo: insegniamo etica? O storia delle religioni? E quali docenti avrebbero titolo per farlo?

I ragazzi poi che scelgono lo studio individuale sono di fatto costretti a rimanere da soli, per il solito problema economico: paghiamo un insegnante perché assista nello studio uno o due alunni? Non solo, sono spesso costretti a stare nei corridoi per mancanza di locali debitamente sorvegliati da adulti – si tratta per lo più di studenti minorenni.

Insomma, una situazione senza capo né coda, nata per soddisfare esigenze ideologiche  e dare ragione un po’ a tutti: in primis alla Chiesa che, senza ascoltare il parere dei tecnici della materia – noi insegnanti – ha sempre insistito per mantenere la confessionalità della disciplina e poter così controllare il personale docente; dall’altra parte alle correnti laiciste che hanno insistentemente, e credo giustamente, rivendicato il principio della laicità dello stato e della libertà di coscienza, per cui hanno voluto mantenere un’assoluta libertà di scelta.

Il compromesso, come dicevo, non soddisfa nessuno che abbia seriamente a cuore la scuola e l’educazione delle nuove generazioni, men che meno oggi, in un panorama che – rispetto agli anni ottanta/novanta del secolo scorso, in cui si è formata la legislazione in merito – è velocemente divenuto multietnico e multireligioso e in cui soprattutto abbiamo assistito ad un altrettanto repentino intensificarsi della secolarizzazione, per cui alla gran parte dei nostri ragazzi di origine italiana manca completamente ormai un qualsivoglia retroterra religioso e soprattutto mancano perfino le nozioni più scontate di cultura religiosa.

La Chiesa sembra reagire, come purtroppo fa spesso, arroccandosi sulla proprie posizioni e si illude di difendere l’educazione di stampo cattolico mantenendo la confessionalità della religione a scuola, che vorrebbe fosse una sorta di catechesi laicizzata.

Niente di più sciocco e lontano dalla realtà. Docenti di una materia di fatto facoltativa, con una sola ora settimanale, senza voto, noi insegnanti di religione, di nuovo unici nella scuola, ci troviamo nell’assoluta necessità di preoccuparci continuamente di non perdere alunni e di riuscire a coinvolgerli e a farli rimanere in classe senza nessuna delle armi tipiche della scuola (voti, bocciature, ecc).

Così ogni giorno ci troviamo ad inventare strategie nuove per riuscirci, e direi che ce la facciamo alla grande visti i numeri dei ragazzi che continuano a frequentare (incredibile, visto che potrebbero andarsene fuori!), ma certo non possiamo nemmeno immaginare di tenere corsi di teologia o affrontare gli argomenti con la dovuta profondità.

Per me è una grande sfida e mi arricchisce affrontarla ogni giorno; ma a volte provo ad immaginare come sarebbe se l’IRC perdesse quella C che è frutto di ogni problema: tutti gli alunni sarebbero in classe, la disciplina guadagnerebbe in autorevolezza (non più facoltativa e senza voto), si potrebbe studiare sul serio finalmente la cultura religiosa, che acquisterebbe un ruolo e una visibilità in mezzo – e non ai margini – di tutte le altre culture insegnate a scuola.

Mi domando, chi ci rimetterebbe? In un mondo in cui la religiosità, nella mentalità comune, è spesso relegata a sinonimo di superstizione antiscientifica, faccenda da persone incolte e sempliciotte, chi potrebbe scapitarci se ci fosse un insegnamento obbligatorio di cultura religiosa?

Se tutti gli alunni del regno studiassero a scuola i grandi santi, i filoni delle tante spiritualità fiorite nell’alveo cristiano e, perché no, nelle altre grandi religioni, chi potrebbe perdere qualcosa? Forse gli atei, o meglio gli ateisti alla Odifreddi, ma non certo qualcuno che abbia veramente a cuore l’elemento spirituale e religioso dell’uomo.

È triste che sia proprio la nostra chiesa a impedire alle scienze religiose di affermarsi con tutta la loro dignità nella scuola e di conseguenza nella mentalità di un intero popolo.

Perfino l’Unione Europea è più saggia, dal momento che da tempo invita i governi a recepire nei loro sistemi scolastici la necessità di impartire un insegnamento non confessionale che informi le nuove generazioni a proposito delle religioni, dando per scontato che l’informazione corretta è sempre il primo passo per una convivenza pacifica.

 

Beatrice Iacopini

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