Koinonia Settembre 2017


“Già e non ancora” a cura di Daniele Garota

 

12. TIMORE E PAURA

 

Il timore può anche essere accostato alla paura, ma è ben altra cosa, soprattutto se si prova nei confronti di Dio. A temere Dio è infatti in particolar modo chi crede in lui e lo ama, percependosi costantemente sotto il suo sguardo, lo sguardo di chi è tanto più grande e potente di noi, lo sguardo di colui al quale un giorno dovremo rendere conto di tutto. Quando il timore è unito alla fede non ha più nulla a che fare con la paura.

Ed è all’interno del dramma della salvezza, un dramma nel quale la fede dovrebbe farci sentire il dramma e la sofferenza stessa di Dio, che possiamo cogliere il significato vero del “‘timore del Signore’ (jir’at JHWH), espressione che non denota paura - dice Alberto Mello -, ma la percezione di una relazione fondamentale per la nostra esistenza, quella con una ‘Persona’ che ci sovrasta, e che è infinitamente ‘santa’” (I Salmi: un libro per pregare). Non solo, aggiungeremmo noi, ma anche una ‘Persona’ che ha un infinito bisogno di noi e del nostro amore. Perché questo bisogno in lui? Perché “tutto è nelle mani di Dio, fuorché il timore di Dio” (Berakhot 33b).

È scritto che “per fede, Noè, avvertito di cose che ancora non si vedevano, preso da sacro timore, costruì un’arca per la salvezza della sua famiglia; e per questa fede condannò il mondo e ricevette in eredità la giustizia secondo la fede” (Eb 11,7). È versetto così ricco, questo, da donarci in un colpo solo la possibilità di comprendere la differenza abissale che passa tra il timore di Dio e la paura di lui grazie alla fede che sta a “fondamento” di tutto (Eb 11,1), rendendoci capaci di correre “con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,1-2).

Cerchiamo di capire. Qui si è di fronte al primo, vero grande dramma che coinvolge noi e Dio nella storia della salvezza subito dopo il momento della ‘caduta’: il dramma del “diluvio”. Distruzione e catastrofe lì nacquero dal dolore di Dio che, di fronte alla “malvagità degli uomini” che li portava a non avere “altro che male” negli intimi intenti “del loro cuore”, non solo “si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra” fino ad addolorarsene “in cuor suo”, ma arrivò addirittura alla terribile decisione di cancellare - eccetto “Noè” che “trovò grazia” ai suoi occhi - ogni vivente “dalla faccia della terra” (Gen 6,5-8).

Un dolore a cui seguì forse un dolore ancora più grande in Dio quando, assistendo alla distruzione delle sue creature, giunse al santissimo proposito di non maledire “più il suolo a causa dell’uomo” e a non colpire più “ogni essere vivente” come aveva appena fatto (Gen 8,21). Proposito che ben comprende ogni padre che vede soffrire il proprio figlio a causa di una punizione che gli ha da poco inflitto per quanto meritata. E proposito che ci dovrebbe venire in mente ogni volta che vediamo spuntare in cielo l’arcobaleno subito dopo la pioggia: “Quando (…) apparirà l’arco sulle nubi – disse infatti Dio tra sé -, ricorderò la mia alleanza (…) e non ci saranno più le acque del diluvio, per distruggere ogni carne” (Gen 9,14-15).

 

Attenzione però, tra quel santissimo proposito iniziale di Dio creatore e noi ci sta un dramma ancora più grande, quello di Dio redentore che, sceso fino a noi diventando uomo come noi in Cristo Gesù - in colui cioè che sta non solo al principio della creazione e della nostra fede, ma anche alla fine di tutto, là dove porterà a compimento tutto ciò che ancora osiamo sperare nell’attesa – viene terribilmente ucciso.

Un dramma enorme quello della crocifissione di Dio, pari a quello non solo della crocifissione del mondo in principio durante i giorni del diluvio, ma anche a quello che inesorabilmente incombe su di noi oggi e che direttamente rimanda alla terribile possibilità della crocifissione del mondo nell’ultimo giorno, quello del compimento ultimo a opera del Messia che di nuovo verrà nella gloria, a giudicare i vivi e i morti. Il drammatico “È compiuto” uscito dalle labbra santissime intrise d’aceto di Gesù morente (Gv 19,30), rimanda all’altrettanto terribile dramma del compimento ultimo alla “fine del mondo” (Mt 24,3; 28,20).

Un dramma presente nel cuore stesso di Cristo costretto a prospettarlo a tutti noi, duemila anni fa, poco prima della sua passione e morte, e proprio riferendosi all’ultimo giorno: “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre”. E poi ancora, come per metterci in guardia dal clima e dal carattere di quel giorno sconosciuto quanto inaspettato e improvviso: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 24,36-39).

Il fatto di non sapere il giorno e l’ora del ritorno di Cristo non ci esonera dall’attenderlo come se la tal cosa poco ci riguardasse, piuttosto c’induce a un’attenzione ancora maggiore.  L’imperativo di fede che Gesù stesso ci ha lasciato riguardo a quel momento decisivo è: “Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà” (Mt 24,42). Guai a essere trovati dormienti o, peggio ancora, indifferenti dal Signore che verrà d’improvviso, come un “ladro” nel silenzio della “notte”, quando nessuno se l’aspetta (Mt 24,43).

 

Il timore che si prova al cospetto di Dio è, come l’amore e la paura, qualcosa che ci coinvolge nell’intimo: Dio è tanto più grande di noi, soprattutto in virtù di quanto ci ha promesso, pagandolo fin da subito a “caro prezzo”, come ben sapeva Bonhoeffer: Dio non è un bonaccione qualsiasi e la vita richiede una certa responsabilità soprattutto davanti a chi ci ha dato tutto. L’amore di Dio è finalizzato alla nostra salvezza, Dio vuole salvarci, ma non è uno scherzo la salvezza, a dircelo è l’esperienza della croce, del dolore di Dio. Per questo l’amore con cui Dio infinitamente ci ama non può che essere ricambiato a partire dalla percezione di questo dolore.

Nella sua Teologia del dolore di Dio, il giapponese Kazoh Kitamori (a seguito in particolare degli orrori di Hiroshima e Nagasaki), ha sondato come pochi ciò che corre tra noi e Dio nel potente dinamismo in cui oscillano amore, dolore e paura. Dio in Cristo ha fatto come mai prima esperienza reale del dolore, di qui il significato ancora più profondo del timore di lui. Se siamo chiamati a temere Dio è in primo luogo perché persino Dio ha temuto e teme noi in ciò che facciamo e pensiamo di fare contro di lui, fino a crocifiggerlo, fino ad abbandonarlo come un ferro vecchio.

C’è un episodio narrato in maniera molto simile dagli evangelisti Matteo e Luca grazie al quale Kitamori sente esserci rivelato il mistero del timore e della paura sullo sfondo del dolore e dell’amore di Dio. È un momento in cui una folla di “migliaia di persone” si sta radunando, fino a calpestarsi “a vicenda”. Quando c’è troppa gente a cercarci la smania d’apparire è sempre in agguato e Gesù ne mette in guardia “anzitutto” i suoi discepoli indicando con forza l’“ipocrisia dei farisei” e un futuro nel quale tutto quanto verrà alla luce e ogni maschera gettata via.

E subito dopo eccolo tirare in ballo il pericolo di chi potrebbe ucciderli, e che fra non molto avrebbe ucciso anche lui, incoraggiandoli così: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo e dopo questo non possono fare più nulla. Vi mostrerò invece di chi dovete aver paura: temete colui che dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geènna. Sì, ve lo dico, temete costui”. Un Dio terribile dunque?

No, un Dio di fronte al quale Gesù mette in guardia per ciò che di terribile può suo malgrado accaderci senza più rimedio. E che non sia terribile Dio, ma tenerissimo Padre, lo dice lo stesso Gesù subito dopo: “Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio. Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate paura: valete più di molti passeri!” (Lc 12,1-7). Non si capirebbe nulla di ciò che Gesù dice se non ci mettessimo nei panni di Dio che vorrebbe salvare tutti e non può e in quelli di un Messia che teme di essere rinnegato anziché riconosciuto (Lc 12,8-9), se non ci si mette cioè nel cuore della sofferenza di Dio.

Per questo Dio, che è da amare con tutte le nostre forze, è anche un Dio da temere più della morte. È la posta in gioco, che con Dio si fa altissima, ad aprirci a una possibilità di dannazione eterna. Davanti a Dio non ci sono vie di mezzo: o ci si salva o ci si danna, ma se ci si danna a soffrirne più di tutti e indicibilmente è  Dio, perché egli ci ama come nessuno di noi è in grado di amare, fino a “dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13), fino ad avere a cuore ogni capello che portiamo in testa. Questo è il vero dramma: Dio vorrebbe salvarci, ha dato la vita per riuscirci e noi continuiamo imperterriti a dare a lui meno valore che ai passeri. Che muoia Dio o che ci cada un capello dalla testa è per noi diventata la stessa cosa. Ma non è così per Dio che continua, forse come mai prima, a mendicare il nostro amore.

Grande è il rischio di finire dannati. Chi finisce dannato è come il “ricco epulone” che s’accorge di tutto quand’è ormai troppo tardi, o come il “figliol prodigo” della parabola che, scappato dalla casa del padre, non trovasse più la forza di tornare indietro semplicemente perché, essendosi del tutto dimenticato della casa del padre, avesse finito per abituarsi a mangiar ghiande coi porci. Bloy diceva che si può morire di sete davanti a una fonte che zampilla se non ci si ricorda più che è l’acqua a dissetarci.

Ma a essere ancora più drammatica è la sofferenza di Dio che tutto ricorda e tutti ci ama senza poter fare nulla a fronte del nostro rifiuto o della nostra indifferenza. Non si sente davvero la vicinanza di Dio senza il timore di Dio, senza quel sentimento immediato che ci conduce ad affidarci totalmente a lui, un po’ come accadde a Mosè quando si tolse “i sandali dai piedi” e “si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio” Es 3,5-6).

Come diceva Rabbi Mendel di Koch, Dio ama particolarmente “il cuore umano, debole e vulnerabile, il cuore che soffre e geme, o tace, il cuore che ama, che è capace di gridare e al tempo stesso di tacere, perdere la speranza e sperare, ridere e piangere, temere la giustizia divina e invocarla, capace cioè di riconoscere che Dio è al tempo stesso, e per gli stessi motivi, rigore e compassione, vicino e lontano, padre e giudice. Temere Dio senza amarlo sarebbe come erigere uno schermo tra sé e lui, come scavare un abisso. Amarlo senza temerlo sarebbe ridurlo a qualcosa di quotidiano, troppo familiare. Occorre mirare a unire timore e amore, a congiungere la gioia con le lacrime, il grido con il silenzio. Non timore di Dio, ma timore in Dio. E per Dio. Timore di ferirlo, di rattristarlo” (Elie Wiesel, Contro la malinconia).

 

Daniele Garota

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