Koinonia Settembre 2017


LE DONNE, LA BIBBIA E IL CONTESTO DI GENERE

 

“Leggere” è operazione complessa anche quando sfugge alla percezione. Naturalmente non resta estranea alle considerazioni del “genere”: la lettrice ha antenne che, a prescindere dalla diversa personalità e cultura ambientale, colgono elementi  estranei ai contesti tradizionali. La casistica del mito classico fornisce esempi immediati: ci volevano infatti interpretazioni femministe per dare valore scientifico al consolidamento del principio patriarcale nella cultura occidentale. Infatti l’Olimpo, fondato sulla rappresentanza originaria delle dodici divinità canoniche, equamente divise tra maschi e femmine, è soggetto al dominio di Zeus, “padre e re degli uomini e degli dei”. Tutte le storie sacre del mondo comportano narrazioni diversamente simboliche, ma tutte definiscono il divino a partire da un concetto di potenza che vede l’uomo fondamento di valori, gerarchie e appartenenze. Tutte giustificano la “naturale” subalternità del femminile e nemmeno il potere riproduttivo dà autorità alle madri: il sangue mestruale è tabù, il corpo della donna può contaminare il sacro e, per sanzione divina, è proprietà dell’uomo che le è padre, fratello, marito. Nel contesto ebraico-cristiano le connotazioni simboliche che dall’antichità classica attraverso il mondo ellenistico e la latinità non potevano non contaminare la novità cristiana, andrebbero oggi liberate in primo luogo dalla polemica antipagana dei primi secoli; ma anche dal pregiudizio secolare sessista e interpretate alla luce della categoria gender. Apparirebbe così che le scandalose relazioni delle divinità greche con donne umane (ma anche di dee con uomini) non rappresentano la contraddizione di un divino peccatore secondo l’ideologia degli dei falsi e bugiardi, bensì l’equivalente simbolico di una benedizione che consacrava valori umani: i figli nati da quei connubi fondano etnie, clan, città e autenticano la nobiltà di famiglie e istituzioni.

L’antropomorfismo nell’ambito religioso connota i generi, che nell’immaginario fondativo  sono – a prescindere da  naturali disposizioni e comportamenti sessuali secondari – due, femminile e maschile: Afrodite è divinità della vita creativa e della pace, mentre Marte è il dio della violenza e la relazione tra i due comporta anche la sottomissione pacifica della forza alla natura (e non viceversa); e così Metis, divinità primordiale potente e inafferrabile, chiamata ad essere “intelligenza”, sposa Zeus, ma dal marito viene catturata e incorporata mentre è incinta di Atena, la divinità femminile che uscirà già armata da un parto paterno e, senza conoscere la madre, rappresenta il nume tutelare e la difesa più sacra della grande città che da lei ha ricevuto il nome. I Greci sapevano che, se il divino resta inconoscibile, le forme che lo rappresentano, umane e plurali, costituiscono lezioni simboliche di una religione senza dogmi.

Nel contesto ebraico, invece, la divinità è una sola, dominante ed esigente, creatrice e giudicante, simbolo assoluto che si traduce nella legge consacrata e nelle profezie. Ma conferma che anche il monoteismo di Israele è maschile, singolare e patriarcale. Anche se.

Anche se il racconto della creazione non dice, come ha sempre recitato la traduzione interpretativa trasmessa, che “Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza”. Dice “Dio creò l’essere umano, maschio e femmina, a sua immagine”. Anche per la Bibbia, dunque, si impara che Dio, nonostante dica in chiare parole di non voler essere identificato, è un maschio, un padre, un giudice, un re. Una definizione che rivela l’arbitrio di Adamo, che, per immaginarlo, lo ha identificato in se stesso e nei propri figli, escludendo le figlie di Eva anche dall’immaginario gerarchico. Il genere escluso ha sempre opposto una resistenza risultata passiva; tuttavia i comportamenti delle protagoniste della Bibbia testimoniano che il dualismo creaturale non è “complementare”, ma fa parte della struttura e conferma che  l’ipotesi della parità non riconduce alla biologia e che l’asimmetria confligge con la dignità oggettivamente propria di entrambi i generi. Arrivate al terzo millennio le donne osano dire con Elizabeth A. Johnson di “essere in grado di rappresentare in pienezza il mistero di Dio allo stesso modo, adeguato e inadeguato, in cui lo hanno fatto per secoli le immagini maschili”.

E’ un’affermazione che viene dalla crescita delle competenze di cui si sono venute via via impadronendo le donne, almeno a partire dalla The Women’s Bible pubblicata a fine Ottocento negli Stati Uniti da un gruppo di suffragiste protestanti che iniziò il recupero di quel deficit culturale che ha danneggiato la Chiesa fin dai primi secoli per aver cancellato ill pensiero e la voce femminili in campo teologico, scritturale, esegetico, ermeneutico, giuridico. Abbiamo perduto le parole delle Madri della Chiesa, mentre i Padri hanno fornito all’abate Migne materiale per compilare quasi quattrocento volumi (per l’esattezza rispettivamente 221 e 161) di patrologia latina e greca. Eppure, anche se nei secoli successivi sono esistite le molte donne che hanno avuto autorità nella Chiesa e le poche che hanno ottenuto il riconoscimento dottorale nella santità, non sono recuperabili i valori autonomi, costruiti dai loro pensieri e dalle loro vite, sepolti nel disvalore e nel silenzio, oppure raccontate secondo il pregiudizio. E’ questo lo spreco – per la verità non solo delle chiese - di quello che Giovanni Paolo II ha chiamato  il “genio femminile”, da lui stesso – nonostante il precedente “segno dei tempi” con cui Giovanni XXIII aveva indicato il diritto femminile alla dignità e al ruolo pubblico - nel ruolo domestico costruito attorno al corpo delle donne perché non abbiano libertà.

Anche la testimonianza delle donne della Bibbia è stata letta in gran parte dentro questo stereotipo: la lontananza dei tempi non giustifica assolutamente come esemplare il comportamento di Abramo che, bisognoso di protezione, dichiara agli egiziani che Sara gli è “sorella” e non sposa, per lasciarla alla disponibilità del faraone; nello stesso schema pregiudiziale sembra indolore che Sara presti Agar ad Abramo per interessi riproduttivi convenzionali e che comprensibilmente manchi poi di misericordia nei confronti di colei che ha dato un figlio al suo uomo. Se nella nostra società suscitano angoscia le denunce dei tanti maltrattamenti in famiglia e dei troppi femminicidi, la Bibbia ci presenta il grande Davide, re e Santo (i cattolici lo hanno calendarizzato il 29 dicembre), un guerriero e sovrano crudele, spregiudicato e sleale, che  delle mogli e delle donne in genere si servì come di oggetti da usare a fini riproduttivi e di piacere e finì abbandonando il suo harem allo stupro del figlio ribelle. La Bibbia, d’altra parte, registra e, anche se deplora, accetta le peggiori violenze sulle donne: resta esecrabile nel libro dei Giudici il levita di Efraim che abbandona alla violenza degli stupri e della ferocia di alcuni briganti la sua donna e poi la squarta in dodici pezzi. Le donne infatti non ricevono onore e rispetto in quanto donne né possono avere volontà propria, a meno che non si omologhino al genere maschile e diventino eroine: saranno stimate come un uomo (gli  apologisti latini definiranno la donna valente un mas dimidiatus), anche se si avvalgono della seduzione, arma ambigua di cui è dotato il loro genere, solitamente per rovina dell’uomo. Giuditta e Giaele che uccidono Oloferne o Sisara. vengono pertanto esaltate per l’ardire e la forza con cui perseguono la vittoria di Israele; a conferma che le escluse, se vogliono fare storia, debbono entrare nei canoni violenti  della logica amico/nemico, senza possedere autonomia di genere. Emergono, giustamente, le grandi protagoniste, da Miriam sorella di Mosè, Ester la regina sapiente, da Rebecca, madre non imparziale di Esaù e Giacobbe, a Lia e Rachele assurdamente rivali, e a Noemi e Ruth, suocera e nuora esemplari: personaggi universalmente conosciuti per la loro grandezza, anche se l’ammirazione degli esegeti ha reso più difficile sottrarre l’eccezionalità delle loro vite alla ripetitività retorica delle narrazioni ed evidenziare la specificità di donne non tanto e non sempre buone e generose, ma sempre, almeno potenzialmente, capaci e geniali. Tutte condizionate non solo dalla comune sorte mortale, ma di un destino unicamente di genere, già attraversato dal pregiudizio, dal dolore non necessario, dall’assenza di libertà. In compenso la letteratura le immagine belle; ma Adriana Valerio non dimentica quanto la bellezza sia stata funesta per per le figlie di Lot, per Dina, per Tamar.

Il Nuovo Testamento è stato redatto da quattro uomini ebrei che hanno raccontato la storia del Messia, atteso come il liberatore di Israele dal dominio romano e fondatore di un “regno”, forse non materiale se collocato nei cieli, ma non così alternativo se “la madre dei figli di Zebedeo” chiede un ministero per i figli (si spendeva forse meno inchiostro se Matteo la chiamava per nome, ma per lui le donne “non contano”).

Ma Gesù era alternativo davvero e sperava che i suoi avrebbero dato effettività al  messaggio. Speranza delusa, se chiamiamo cristiana una società che sembra non aver compreso che il mondo davvero, se seguisse un maestro buono, può diventare migliore, rinunciare alla violenza e salvarsi. Bisognava anche capire che la sequela e l’obbedienza non le costruiva solo l’uomo per se stesso, ma le donne e gli uomini, che non sono solo uguali in dignità e rispetto, ma anche contemporaneamente diversi. La disubbidienza fu dunque dei chierici, partecipi del genere autoreferenziale, che nel tempo si sono venuti organizzando in gerarchia di potere, hanno inventato la propria identificazione con il Cristo e il celibato, hanno confermato l’impurità della donna che non ha più potuto accedere all’altare ed è stata esclusa dal tempio – anche Maria – dopo il parto. Eppure Gesù fu scosso dal tocco di una mano assolutamente impura per appartenere a una donna che soffriva di perdite e contaminava l’ambiente con la sua stessa presenza; eppure Gesù si arrestò per risanarla, rifiutando il pregiudizio.

Le donne furono discepole e furono accolte senza sottomissione patriarcale. Se Gesù ha corretto Marta che rimproverava la sorella di non collaborare all’accoglienza dell’ospite, è perché anche le donne hanno diritto alla “parte migliore” e Maria non perdeva tempo se ragionava con lui: non “ascoltava” devotamente passiva, come dicono i preti, a meno che non sia plausibile che Gesù parlasse da solo. D’altra parte al pozzo di Sichem è con una donna, samaritana e di non specchiata virtù ma attenta a capire, che intavola un discorso teologico del più alto livello.

Sono molti gli episodi evangelici che dimostrano non solo l’assoluta mancanza di discriminazione delle donne nell’ambito delle virtù teologali, ma anche l’accettazione della specificità del genere nel contesto sociale. Sotto la croce c’erano soltanto donne perché per gli uomini c’era il pericolo delle retate; il Risorto si rivela a Maria di Magdala perché vuole che sia lei a portare l’annuncio agli altri. Tommaso d’Aquino ebbe il coraggio di definirla apostola e solo Papa Francesco ha convalidato la qualifica nella liturgia; ma la Chiesa non ha mai immaginato di poter ragionare sull’autoreferenzialità della successione apostolica: il ministero petrino davvero esclude un ministero mariano? Un interrogativo non sempre richiede la risposta o, tantomeno in questo caso, una mediazione di autorità e potere. Le donne che leggono e interpretano Bibbia e Vangeli non chiedono il sacerdozio per partecipare in “questo” clero e restano perplesse davanti aL rifiuto protestante di preti che, per non essere guidati da una vescova, si fanno cattolici (e vengono accolti anche se ammogliati). Vorrebbero solo che le chiese tenessero nel debito conto il loro farne parte in quanto corpi non impuri e teste di un genere diversamente pensante. Sanno che c’è un desiderio, una cultura, una potenzialità costruttiva conservati nei secoli dalle loro antenate che resta intatto: forse è davvero peccato farne spreco.

 

Giancarla Codrignani

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