Koinonia Luglio 2017


“SINODALI” NOSTRO MALGRADO

 

Con l’intervista a don Pino Ruggieri sulla “Chiesa sinodale”, apparsa contemporaneamente su diverse riviste (vedi Koinonia 6), la Rete dei Viandanti ha voluto dare visibilità ad un progetto comunicativo unitario, ma soprattutto ha inteso promuovere una riflessione sui temi che papa Francesco indica per la riforma della Chiesa, a partire proprio dalla questione- sinodalità. Sembrerebbe quindi che “la riforma della Chiesa” dovesse essere la prospettiva e lo sfondo in cui inquadrare anche questa iniziativa ed in cui magari rileggerla per sviluppi ulteriori: per non rimanere confinati in soluzioni nominali che lasciano il tempo che trovano, e per maturare presenze ed esistenze cristiane al di là  di appartenenze e schieramenti vari.

 

Sinodalità in altre parole, prima che sia prassi istituzionale e modalità organizzativa, è un modo di essere nella chiesa ed essere chiesa allo stato nascente ed in fieri in una sorta di ecclesiogenesi. Da questo punto di vista, quanto di più significativo ho raccolto dalla intervista è il fatto che la riflessione nascesse dalla esperienza pastorale e non fosse calata dall’alto, così come il fatto che tendesse a riportare tutto al centro e alla base, quasi una risoluzione agli elementi primi della vita del credente e quindi di una comunità di credenti.

 

Ed ecco allora – vi si legge - che “nella chiesa non si dovrebbe parlare d’altro, se non delle modalità in cui rendere presente oggi il vangelo del Messia. Ma questo implica una compagnia effettiva con gli ultimi”. E ancora: “Il consenso è quindi un evento che lo Spirito stesso crea quando esistono le condizioni, che non sono in primo luogo quelle giuridiche, ma quelle del comune ascolto sia dei presenti che della tradizione del Vangelo di Gesù”. E così si può dire che “un sinodo è ‘perfetto’, quando esso dà luogo a tre ‘accordi’: quello con la tradizione viva del vangelo di tutti i tempi, quello tra i presenti, quello con la base ecclesiale che lo riceve e lo mette in pratica”. E quando ci ricorda che “ciò non avviene senza conflitti, a volte aspri, come la convivenza ecclesiale e la storia dei concili dimostrano a sufficienza. Questa convinzione è stata progressivamente dimenticata dopo il concilio di Trento”.

 

Tanto basta per innestare in questo discorso qualche nostra considerazione, e per dire che senza saperlo e forse nostro malgrado siamo nati e restiamo sinodali a tutti gli effetti, sia pure con tutti i difetti del caso, riuscendo a vivere senza supporti o qualifiche istituzionali, quasi in immersione o in apnea, e nonostante che spesso vengano a mancare quei riferimenti e strumenti minimi di visibilità necessari per una comunicazione aperta. Sappiamo del resto che se il sistema costituito è l’unico metro di misura, il confronto è sempre perdente, e solo  la possibilità di vivere di fede ci assicura la necessaria libertà.

 

E qui siamo al capitolo “conflitti”, spesso sordi e subdoli: ma questa è ormai una costante. Da difendere comunque non c’è qualche dottrina o qualche posizione acquisita di potere: da far valere e da far rispettare c’è la dignità e la libertà dei credenti o aspiranti tali, quale base primaria del soggetto ecclesiale da servire, da promuovere e da portare ad una responsabilità e creatività di fede. Dice un vecchio adagio che l’agire è dei soggetti  e delle persone, non dei mezzi e delle strutture.

 

Spesso il conflitto in ambito ecclesiale verte proprio su questo punto: se privilegiare l’azione attraverso organizzazioni, opere e strutture e simili o affidarsi al rapporto interpersonale e interattivo. Quando ci viene detto di non portare “né borsa, né sacca, né calzari”, e di non salutare nessuno per via (cfr Luca 10,4), la raccomandazione è a non puntare su mezzi materiali o appoggi umani, per affidarsi unicamente all’incontro con l’altro. Ad una sinodalità di tipo giuridico ed esercizio istituzionale deve subentrare una sinodalità di comunicazione diretta,  costruttiva e finalizzata al consentire, secondo il principio che quanto riguarda tutti da tutti deve essere trattato.

 

Se questo è il cammino solidale della chiesa in tutte le sue componenti, il pensiero va alla nota intervista rilasciata dal card. Martini qualche giorno prima della sua morte, della quale non basta registrare il ritardo di 200 anni della chiesa, ma ricordare anche che “la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio”, per sentirsi porre personalmente la domanda cruciale: “Che cosa puoi fare tu per la Chiesa?”.

 

Ed allora forse è il caso di farsi orientare da queste parole, per sapere come colmare il ritardo storico della chiesa, per dare significato reale all’“aggiornamento”, che è poi scuotersi e avere coraggio per una effettiva riforma. Tutto questo possiamo aspettarcelo con le grandi opere e la grandi realizzazioni o siamo chiamati in causa direttamente? Questo motivo non è assente nella intervista, in cui si dice chiaramente che la Chiesa è stanca per i pesi della storia e la nostra cultura è invecchiata: “le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi… Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell’istituzione”. Chi ha il coraggio di dire cosa avviene in proposito?

 

Il dramma è che il consenso entusiasta dato unanimemente a queste e simili parole continua ad andare di pari passo con prassi e comportamenti istituzionali ispirati a criteri di pura amministrazione gestionale e di successo, nella convinzione e illusione che si possa uscire dalla crisi con dei placebo, facendo passare tutto come rinnovamento progressista, nonostante ripetute dimostrazioni in contrario. In questo senso mi ha impressionato l’osservazione di una persona vicina ad ambienti di chiesa, quando ha affermato che tutti i cambiamenti di cui era stato osservatore avevano portato a peggioramenti!

 

Forse va trovato il modo di cambiare, per uscire da un riformismo di facciata che peggiora senz’altro le cose e favorisce il ritardo sulla storia piuttosto che colmarlo; e per entrare in un ascolto reale delle diverse voci che salgono dal basso prima di far sentire la propria dall’alto, forti solo della legge! Ecco dove una sinodalità formale è un pericolo e si trasforma in rete per imbrigliare e buttare via i pesci cattivi: quando viene intesa come correttezza funzionale di una chiesa costituita ad intra e non come partecipazione catalizzatrice ad extra. Tutto torna, ma niente più vive!

 

Attenti quindi alla sinodalità,  perché non diventi il nuovo slogan del progressismo di maniera: quello di una ufficialità che riconosce solo la pura legittimità e disconosce ogni via diversa dalla propria, magari delegittimandola! È anche questo un modo di risolvere i conflitti e andare avanti per la strada larga e sicura, ma ciò non toglie che sia necessario il passaggio per la strada stretta. In questo senso siamo sinodali nostro malgrado: perché lo vogliamo essere senza investiture e senza etichette, ma anche perché questo ci espone ad ogni forma di eliminazione o cancellazione da parte di ciò e di chi conta!

In ogni caso non ci rimane che rinnovare le nostre scelte e andare avanti per la nostra strada!

 

Alberto Bruno Simoni op

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