Koinonia Luglio 2017


IL GIORNO DI CHI GUIZZA “COME LA FOLGORE” (II)

 

Parte seconda: Il grande ritardo

 

Attraverso la parabola evangelica delle “dieci vergini” Gesù sembra dirci che il ritardo della redenzione potrebbe essere tale che, alla fine, persino gli eletti non riusciranno a farcela. La parabola infatti non distingue chi attende da chi non attende più, ma due modi differenti di porsi di fronte alla possibilità di un grande ritardo riguardo a colui che deve arrivare. A distinguere le sagge dalle stolte non è infatti che le une si mettono a dormire mentre le altre restano sveglie: tutte alla fine si addormentano. E non è nemmeno che le une davanti al grido si svegliano e le altre no: tutte infatti si svegliano e tutte desiderano vedere “lo sposo” ed entrare con lui. A distinguerle è piuttosto il fatto che cinque avevano saggiamente messo in conto che lo sposo avrebbe potuto tardare e la luce della lampada spegnersi per esaurimento dell’olio, così che pensarono di prendere anche “l’olio in piccoli vasi” in modo da poter riaccendere in un attimo quelle “lampade” che dopo un po’ avrebbero anche potuto spegnersi mentre dormivano, a differenza delle altre costrette invece ad andarne qua e là alla ricerca perdendo tempo prezioso. Se si deve vegliare è per un motivo soltanto, è perché non sappiamo “né il giorno né l’ora” (Mt 25,1-13).

Non solo ogni giorno ma anche ogni ora potrebbe infatti essere già quella e, insieme non ancora quella, perché non dipende da noi il quando ma solo l’attesa, la veglia, l’essere trovati pronti col desiderio che sia ogni volta quella l’ora, finalmente! Una situazione, dice ancora Agamben, di “un già che è anche un non ancora”, dunque “una sconnessione interna al presente”, una tensione da conservare anche mentre siamo occupati col mondo e nel mondo, in seno ai nostri luoghi di lavoro e in seno alle nostre famiglie, coi figli che ci crescono in casa, col pranzo da preparare, col grano da seminare e, perché no, con gli alberi da piantare: il Messia potrebbe infatti tardare ancora molto.

 

Ma per mettere a fuoco tale situazione, pochi sono andati a fondo quanto Walter Benjamin nelle sue XVIII tesi sul Concetto di storia. Prendiamo l’ultima, per esempio, nella quale dice così: “I miserabili cinquantamila anni dell’homo sapiens, rappresentano, in rapporto alla storia della vita organica sulla terra, qualcosa come due secondi al termine di una giornata di ventiquattro ore”. È non è ancora nulla, dice, perché usando le stesse proporzioni “la storia dell’umanità civilizzata” non occuperebbe che “un quinto dell’ultimo secondo dell’ultima ora”. Di qui la sua conclusione: “L’adesso che, come modello del tempo messianico, riassume in un’immane abbreviazione la storia dell’intera umanità, coincide rigorosamente con la figura che la storia dell’umanità fa nell’universo”. Tutto confluirebbe così su un “concetto di presente come quell’adesso, nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico”. Un tempo tuttavia che non semplicemente apre al futuro della redenzione, ma anche recupera, tramite la memoria, il “passato”, quel passato che (com’è detto nella II tesi) “reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione”. 

Ma famosa è infine la conclusione della XVIII tesi: pur trovandosi liberati, dall’incantesimo del futuro (quel futuro di cui ci si trova facilmente succubi “presso gli indovini”), non per questo “il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia”.

L’“angelo della storia” (raffigurato dal famosissimo acquerello di Paul Klee) della IX tesi e che indietreggia ad ali spiegate verso il futuro, ha occhi spalancati sul passato, su quegli avvenimenti che mentre indietreggia gli vengono incessantemente scaraventati ai suoi piedi, eventi che attendono di essere giudicati e redenti. Per questo l’angelo della storia “vorrebbe ben trattenersi, destare i morti”, ma non può. E perché non può? Perché una “bufera” sta soffiando fortissima, impigliandosi nelle sue ali e spingendolo “inarrestabilmente nel futuro”. Come si chiama quella irresistibile bufera? “Progresso”. E da dove soffia, da dove prende vita? “Dal paradiso”, dice Benjamin. 

E ancora prima, nella tesi II, aveva appena affermato come sia proprio “nell’idea di felicità” a risuonare, “ineliminabile, l’idea di redenzione”. Nel futuro è il passato che si salva, ciò che è stato nella storia a partire dalle cose più semplici e bisognose di redenzione. E questo significa una cosa soltanto – dice ancora Benjamin - che “esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra”. Al punto che “a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata assegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto”. Un diritto che solo la redenzione potrà un giorno soddisfare, quando i morti risorgeranno, quando le vittime saranno riscattate, quando i sofferenti saranno consolati. “Solo a una umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato”, conclude Benjamin (Tesi III).

E diventeremo a quel punto contemporanei di ogni generazione del passato, così come contemporaneo a ognuno di noi sarà il Risorto. Insomma, potremo conversare con Francesco e Chiara d’Assisi, avendo davanti i loro corpi segnati dall’altissima povertà e dalla gioia che li caratterizzò durante la loro breve vita. Potremo abbracciare gli apostoli Pietro e Andrea, che magari avranno ancora mani che odorano di pesce. E non sono che due poveri esempi. E non è illusione, è fede cristiana, è movimento di cuore e mente che si rivolgono con passione alla redenzione promessa, alle cose più concrete e materiali, carnali, rendendoci lucidi gli occhi anche qui e ora se non abbiamo dimenticato chi è morto soffrendo e non voleva lasciarci. E come non pensare qui anche a Sergio, Stefania e a tutti coloro che ci sono stati cari e che non sono più da tempo tra noi?

Questo significa, nella fede, sperare e attendere colui che “di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti”, questo significa: “aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, come dice ancora il Credo.

   

Da appunti presi - mentre una trentina d’anni fa ascoltavo Paolo De Benedetti, anch’egli un maestro che abbiamo amato e che ci ha lasciati da poco - ho trovato come nel cuore dell’ebraismo alberghi una domanda a cui sono date due risposte antitetiche. “A chi chiede: ‘Quando verrà il Messia?’. Si risponde: ‘Quando Israele sarà in grado di osservare come si deve anche soltanto due sabati di seguito’. Oppure: ‘Quando il mondo sarà così perverso da neppure più ricordarsi che deve venire il Messia’.

E tuttavia, per chi crede, il Messia verrà, anche se tarda verrà. O meglio: in ogni momento potrebbe venire e proprio quando più nessuno l’aspetta”.

E vi ho trovato infine riportata un’immagine potente: “mai si deve perdere la speranza nella venuta del Messia, nemmeno quando qualcuno sta per sferrarti un colpo di spada affilata sul collo”.

E la sua venuta corrisponderebbe all’incontro tra due bisogni di salvezza, quello di Dio e quello dell’uomo. Da quando infatti Dio ha creato l’uomo, dicono gli ebrei, Dio da solo è in grado di salvare soltanto l’uomo e l’uomo da solo è in grado di salvare soltanto Dio. Perciò alla fine la redenzione così come è stata promessa fin dal principio, non può che avvenire dall’incontro tra il desiderio che di essa hanno l’uomo e Dio insieme, un Dio sofferente e bisognoso di salvezza quanto e forse più dell’uomo. E questo perché Dio indicibilmente soffre per il dolore che c’è nel mondo, in ogni affamato e assetato, in ogni bimbo che soffre e muore, e in tale dolore, soltanto l’uomo lo può consolare, iniziando ad amare e consolare i fratelli che soffrono accanto a lui.

E questo è vero soprattutto nel cristianesimo che ha radici ebraiche e che mette al centro il farsi uomo di Dio, uomo crocifisso che muore gridando: “Perché?” senza ottenere risposta. Una risposta che solo la redenzione può dare, a Dio ancor prima e ancor più che a noi sue creature.

La fede che Gesù ha temuto e teme di non trovare più sulla terra al suo ritorno non è tanto quella di chi non ode più la sua voce, il suo bussare alla nostra “porta” con gran desiderio di entrare da noi a cena, come è detto nel Libro dell’Apocalisse (3,20). È piuttosto quella di una “vedova” che instancabilmente tempesta la porta del Signore giusto giudice affinché faccia “giustizia” finalmente (Lc 18,1-8)! Il problema infatti non è tanto quello di avere a che fare con un Signore che ritarda perché è iniquo o perché è duro d’orecchi, quanto piuttosto con un Signore che vorrebbe salvarci subito, fare a noi “giustizia prontamente” e con tutte le forze, e ancora non può, non è cioè ancora nella condizione di farlo. Ed è proprio per questo che ha tanto bisogno della nostra comprensione e della nostra fiducia in lui.  E non è un caso che tale parabola sia raccontata da Gesù subito dopo averci parlato del suo piombare tra noi “come la folgore” che “guizzando brilla da un capo all’altro del cielo” o come “gli avvoltoi” che inesorabilmente piombano sul “cadavere” (Lc 17,24.37).

 

Ma c’è un passaggio, in quel libriccino di Agamben, con il quale vorrei giungere a conclusione, ed è questo: “L’esigenza escatologica, abbandonata dalla Chiesa, ritorna in forma secolarizzata e parodica nei saperi profani che, riscoprendo il gesto obsoleto del profeta, annunciano in ogni ambito catastrofi irreversibili. Lo stato di crisi e di eccezione permanente che i governi del mondo proclamano in ogni luogo non è che la parodia secolarizzata dell’aggiornamento incessante del Giudizio Universale nella storia della Chiesa”. Chi potrà infatti a questo punto dire al Signore che verrà a giudicare ognuno di noi nell’ultimo giorno: ‘Non lo sapevo?’. Il finale del suo intervento è schiacciante: o la Chiesa ritrova “la sua vocazione messianica” o sarà “trascinata nella rovina che minaccia” tutto il resto.

Io aggiungerei: è ingenuo aspettarsi ciò dalla Chiesa, meno lo è aspettarselo da piccoli resti sparsi qua e là che il Signore potrà strappare come brandelli di pecora dalla gola del leone, come dicevano Amos nei tempi antichi e Quinzio durante questi nostri giorni, sempre più difficili per la fede e per il Vangelo. E difficili proprio perché in diecimila che ascoltano la stessa cosa - e magari tenendo in una mano la stessa Bibbia e nell’altra lo stesso giornale, come diceva ancora Barth – in due soltanto, se va bene, se ne afferra il senso e tuttavia rischiando di dimenticarlo subito dopo travolti come siamo dalle vane chiacchiere e dalle seduzioni del mondo, del “principe di questo mondo” (Gv 16,11).

Noi, grazie alla fede soprattutto, sentiamo inesorabilmente avanzare il “potere delle tenebre” (Lc 22,53; Col 1,13), lo stesso che percepì Gesù nell’orto quando giunsero a prenderlo “con spade e bastoni” (Lc 22,52). Un potere che Sergio Quinzio percepì fin da giovanissimo grazie alla sua fede messianica. Così scriveva nel suo Diario profetico: “Noi siamo nelle tenebre: non ci si può fermare per chiedere che ci portino della luce, o aspettare che sia accesa la pubblica illuminazione. Si striscia per terra: il tipo di luce che dà Dio è il lampo, che è fuoco, e non la ‘luce diffusa’ dei salotti del mondo”.

E questo perché la conquista del regno da parte del Signore Dio, non potrà avvenire a seguito di uno sviluppo storico tutto interno al trascorrere dei secoli e dei millenni di questo mondo, ma soltanto tramite un’irruzione improvvisa e potente, un ribaltamento radicale che abbatte “i potenti dai troni” e innalza “gli umili”, che colma “di beni gli affamati” e rimanda “i ricchi a mani vuote” (Lc 1,52-53), come disse nel Magnificat la bocca della giovanissima Madre di Dio.

Quando? Quando di nuovo il Messia verrà, nella gloria, “nell’ultimo giorno” (Gv 6, 39-40).

 

Daniele Garota

(2.fine)

.