Koinonia Giugno 2017


La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai!” (Mt 9,36-38)

 

LA MESSE E GLI OPERAI

 

Il detto evangelico della messe e degli operai è proverbiale, ma ha subito una involuzione  distorsiva, tanto da essere riferito quasi esclusivamente al problema vocazionale in senso clericale. Se però lo ricollochiamo nel suo contesto, ci fa percepire il sentimento profondo di Gesù davanti alle folle, e ci fa toccare con mano il dramma della sproporzione tra le pecore stanche e sfinite e la mancanza di pastori: tra la vastità del campo che è il mondo e i pochi seminatori della Parola che annuncino il vangelo del Regno.

È questa l’immagine che mi si è presentata leggendo la prima parte dell’intervista a don Pino Ruggieri in tema di sinodalità come istanza di partecipazione effettiva  di tutti all’annuncio del Regno, ragion d’essere della chiesa e di ogni comunità cristiana. Dalla visione del campo e della vigna l’attenzione si sposta agli operai:  dal piano delle situazioni e dei problemi alla carenza di operatori e cooperatori. In effetti, a tanta accurata ingegneria e progettazione ecclesiale non ha corrisposto l’opera di quanti sono chiamati a giornata, magari anche all’ultima ora. E la costruzione della torre è rimasta a mezzo! (cfr Luca 14,28)

Forse  è arrivato il momento in cui parlare di sinodalità non è più soltanto un discorso di dirigenza e di quadri, ma chiama in causa  la responsabilità della base. Nel senso che sinodalità è sì gestione, intervento decisionale e pratica  istituzionale, ma solo in seconda istanza: in prima istanza è la coscienza viva ed attiva dei credenti (la fides qua), che deve tornare ad avere voce in capitolo ed uscire dallo stato di passività esecutiva. Non è qui il vero nodo da sciogliere? O si pensa di ovviare al primato dei vertici creando altre élites parallele?

Si potrebbe anche dire che è necessario un passaggio dai significati alla realtà,  due sfere che devono corrispondersi ed integrarsi, ma che spesso procedono in modo parallelo, quando non si eliminano a vicenda.  Si capisce subito che per venire a capo di questa impasse non basta neanche una inversione di tendenza a parole,  ma si richiede un vero e proprio capovolgimento mentale, purtroppo lontano da venire perché si ripete volentieri che “quello vecchio è migliore” (Lc 5.39), ed ogni istituzione tende a salvaguardare se stessa in modo autoreferenziale.

Per la verità, nella intervista si avverte questa tendenza verso il basso, a cui si vorrebbe riportare l’ordinamento canonico, il pensiero teologico e la prassi pastorale:  ma c’è sempre un calarsi dall’alto,  e in tal caso risucchiamenti nell’orbita del sistema sono sempre in agguato. Lo si intuisce quando Pino Ruggieri ci dice della “convinzione riassuntiva” della sua esperienza di prete, ma subito aggiunge che “nella chiesa non si dovrebbe parlare d’altro, se non delle modalità in cui rendere presente oggi il vangelo del Messia. Ma questo implica una compagnia effettiva con gli ultimi”.

In sostanza sembra di capire che la sinodalità è il motivo ispiratore e la risultante della esperienza pastorale di don Pino Ruggieri, tanto da proporla ora come chiave ermeneutica del modo di essere della chiesa. Ma tutto questo rimane un auspicio, perché siamo sempre a dipingere l’immagine ideale di chiesa senza guardare  il suo volto reale e lo stato delle cose sul piano pastorale.

Prendendo le mosse di qui - ed anche il coraggio a due mani - ci permettiamo di dire che questo capovolgimento l’abbiamo voluto e tentato attraverso tutto l’arco della nostra esperienza come filo conduttore della condivisione di vita  e di riflessione che si sono intrecciate: niente di ufficiale e di professionale dal punto di vista pastorale e teologico, senza investiture e senza ruoli istituzionali, come è nella logica di un servizio al vangelo senza mediazioni previe e senza glosse. Non sarebbe stata una contraddizione palese proporre una vita secondo il vangelo facendosi forti di un’autorità riconosciuta o di formule di aggregazione di altra natura?

È stata semplicemente e sempre una con-vocazione: una vocazione evangelica condivisa e sofferta più che una chiamata di qualcuno a qualcosa. In tal senso, qualche considerazione la si può trovare in Koinonia-forum 521, dove appunto si guarda alla diaspora e alle periferie come al luogo teologico primario e non accessorio. E forse ora siamo in grado di dire di aver maturato in tanti anni la libertà ed il diritto di essere marginali rispetto al sistema, di essere nel sistema senza essere del sistema, certamente non come realtà costituita e alternativa, ma possibilmente come fermento che faccia lievitare la coscienza di ciascuno in ordine alla sostanza della fede  da condividere.

Per quanto riguarda il “sistema”, non c’è da illudersi di poterne cambiare o sostituire la logica intrinseca di conservazione; c’è solo da evitare di essere riassorbiti dalla sua forza centripeta quando si proponesse come misura unica totalizzante (mensura mensurans), mentre a sua volta è soggetta alla misura di riferimento, che è la sua originaria ragion d’essere (mensura mensurata). Se l’istituzione rappresenta in qualche modo il tutto, non lo è però totalmente, per cui non sarà mai controparte ma solo portatrice di quella forma che prevede anche l’altro da sé. In ogni caso non avrebbe senso creare sotto-sistemi, che si convalidassero solo per contrapposizione.

A parte la sfera istituzionale, per quanto riguarda invece il coinvolgimento nelle realtà di base del dopo-Concilio che si sono succedute con diverse sigle (contestazione, dissenso, comunità di base, cristiani per il socialismo, riforma ecc…), c’è da dire che tutte si sono ritrovate nella comune volontà di cambiamento conducendo battaglie su fronti diversi e magari con successo, ma purtroppo senza una strategia unitaria ed efficace che non fosse il solo richiamo all’“aggiornamento”; spesso anzi, le soluzioni particolari offerte si sono rivelate funzionali allo status quo generale, tanto è vero che noi ci ritroviamo ancora davanti alla necessità di ripartire con iniziative e proposte sempre nuove.

Forse è il momento di riconoscere che fanno problema anche le innumerevoli soluzioni avanzate e che c’è una “questione di metodo” da tenere presente,  perché le esperienze particolari si facciano carico del cambiamento globale e non siano solo applicazioni di a-priori generali. E se le stesse istituzioni devono riconoscere di essere parte di un tutto, i soggetti che ne fanno parte devono a loro volta cercare di far emergere questa totalità inclusiva.

Detto questo, viene da chiedersi se il ricorso alla sinodalità valga solo in senso verticale in termini formali e decisionali o se, in senso orizzontale, essa abbia la capacità di assumere ed amalgamare quanto si muove nella base e possa offrire i nuovi parametri per coordinare la dimensione istituzionale della chiesa ad intra con la sua dimensione di testimonianza della fede ad extra. A  questo scopo non basta evocare la sinodalità come nuova parola d’ordine o applicarla come nuova etichetta del riformismo. È un processo da innescare nel corpo vivo della chiesa, non tanto per assicurare un suo ordinamento e funzionamento interno, ma in ordine alla sua stessa ragion d’essere al mondo: il servizio del vangelo.

Il passo decisivo in tal senso è sbloccare la situazione di stallo fatta di unanimismo identitario, integrismo, conformismo, e riportarci alla dialettica di una chiesa duale, a due velocità, così come è stato fin dalle origini: chiesa dei giudei e chiesa dei gentili! Una sinodalità a circuito chiuso forse ci potrebbe regalare una nuova stagione, ma non ci porterebbe verso l’auspicato cambiamento d’epoca! D’altra parte non credo troppo che si possa venirne a capo  attraverso canali  speciali e per addetti, se non si riesce ad innestare un processo di cambiamento dentro le residue riserve dei praticanti e più che altro tra le pecore perdute della casa di Israele che non sono  nell’ovile.

È un po’ questa la riserva che scatta a proposito della proposta di un incontro ad Assisi lanciata da Tonio Dell’Olio - “Una convocazione per la svolta” - appunto per tradurre la svolta  di papa Francesco in prassi per tutta la Chiesa: dove appunto si guarda a tutta la Chiesa ma poi si fa appello ai movimenti di base italiani. E questo ora vale anche per la convocazione di “Chiesa dei poveri chiesa di tutti” di una assemblea per il 2 di dicembre: questi appuntamenti non possono farci dimenticare che si tratta di un processo in atto da  assecondare. Si tratta cioè di una pratica di sinodalità che possa servire da iniezione nell’intero organismo ecclesiale. nella convinzione che non avremo mai un cambiamento d’epoca, se una modificazione genetica non avviene dentro la fede e nel seme che la genera, la Parola di Dio.

Ci sarà modo e motivo di riprendere un discorso mai compiuto, frutto di un processo vitale più che di argomentazioni, e forse bisogna accettare di non sapere come il seme germoglia e cresce, perché “la terra da se stessa porta frutto: prima l’erba, poi la spiga, poi nella spiga il grano ben formato” (Mc 4,28). E questo che si dorma o che si vegli!

 

Alberto B.Simoni

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