Koinonia Giugno 2017


IL GIORNO DI CHI GUIZZA

“COME LA FOLGORE” (I)

 

Parte prima: l’attesa messianica

 

Essendo la mia una lettura messianica, non potrò che parlarvi avendo a cuore l’urgenza dei tempi della fede, una fede rivolta in primo luogo al Dio che ha promesso di salvarci e che in particolar modo ci si è rivelato nel volto e nelle parole di Gesù “‘il Messia’ – che si traduce Cristo” (Gv 1,41).

Non solo, ma la Chiesa ci insegna a credere che il Cristo, quel semplice uomo la cui storia nessuno può negare, sia niente di meno che Dio stesso, il creatore di cielo e terra il quale, ad un certo punto, “per noi uomini e per la nostra salvezza, discese dal cielo” fino a incarnarsi, fino a farsi uguale a noi in tutto, fino a nascere dal grembo di una donna, fino a imparare un mestiere vivendo del lavoro delle proprie mani. E infine morendo, giovanissimo, abbandonato da tutti, anche dai suoi discepoli che fuggirono impauriti nel vederlo ammazzato in un patibolo infamante su decisione unanime del potere politico e religioso del tempo: “Patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto”. Questo fu l’esito del percorso esistenziale di un uomo che ha profondamente segnato la vita e il pensiero delle nostre società occidentali, fino a spaccare, con quel suo brevissimo e povero passaggio, la storia a metà, prima e dopo Cristo.

Ed è forse soprattutto oggi, nelle nostre società secolarizzate, che il cristianesimo influisce, più di quanto potremmo immaginare, all’interno del pungolo di fretta e progresso che ci caratterizza. Cos’è del resto questo nostro lottare contro la malattia, l’ingiustizia e la morte, questa nostra smania di spingerci sfrenatamente in avanti nel futuro in cerca di una qualche salvezza, se non la versione secolarizzata e stravolta dell’anelito di redenzione che ci hanno ficcato nel cuore e nella mente le parole e la vita di quel falegname di Nazaret? Un anelito che san Paolo intuiva esserci non soltanto nei cuori umani ma persino nell’intera “creazione”, da lui percepita esattamente come noi nel dolore e nel gemito, in “ardente aspettativa” (Rm 8,19-22). 

Ma perché si è in ardente aspettativa in base a quello che ha detto e vissuto Gesù se gli toccò alla fine morire miseramente sconfitto duemila anni fa? Perché – nella fede – “il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre e di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e il suo Regno non avrà fine”. Questo dice il Credo cristiano volgendo il proprio cuore al futuro della storia e del mondo. Da allora fede altro non è che attesa ardente di lui che deve tornare per portarci “la vita del mondo che verrà”, per risuscitare anche noi, “nell’ultimo giorno” (Gv 6, 39-40.44.55). 

Dunque nella fede tutto dipende da quanto accadrà nel futuro, al regno di Dio che deve venire, alla salvezza che deve ancora compiersi. Dovrebbe starci molto a cuore l’intuizione di Karl Barth: “Un cristianesimo che non è in tutto e per tutto e senza residui escatologia, non ha niente da fare con Cristo” (Epistola ai Romani).

 

Ma quando accadrà tutto ciò? C’è un passaggio del Vangelo di Luca, che ci apre a due interpretazioni per molti versi opposte.

Ad un certo punto ecco presentarsi a Gesù alcuni farisei per chiedergli: “‘Quando verrà il regno di Dio?’. Egli rispose loro: ‘Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: ‘Eccolo qui’, oppure: ‘Eccolo là’. Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!’” (Lc 17,20-21). Altri addirittura traducono: “È dentro di voi!”. E tutto potrebbe finire qui: basta credere, come ha fatto il buon ladrone, e già “oggi” si è con Gesù “nel paradiso” (Lc 23,43).

Ma sarebbe troppo semplice, l’evangelista infatti continua con Gesù che subito dopo si rivolge non ai farisei ma ai discepoli questa volta, dicendo loro: “Verranno giorni in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete”. Gesù sembra entrare in contraddizione, ma non è così se teniamo conto che è lui e non altri a portare il regno di Dio. Il regno è già lì essendoci lui lì presente, ma non ci sarà più già poco dopo, perché anziché essere accolto verrà ripudiato, ucciso, sepolto e nessuno lo vedrà più.

Quando l’evangelista scrive quel brano, Gesù non è già più nel mondo e c’era tra i credenti chi desiderava vedere anche uno solo dei suoi giorni ma non lo vedeva. E tra essi ci siamo in qualche modo anche noi oggi, dopo duemila anni, se abbiamo il coraggio di credere e attendere ancora. E per poterci riuscire, siamo stati messi in guardia, non solo da coloro che non attendono più nulla, ma persino dai fanatici tutti presi da facili entusiasmi, “quasi che il giorno del Signore sia imminente”, come diceva Paolo (1Ts 2,2). Il regno di Dio potrebbe venire prestissimo, anche mentre siamo ancora in vita, e questo Paolo lo sperava con tutte le forze lo sappiamo, ma potrebbe anche tardare molto, moltissimo. 

Gesù ci ha avvertiti: “Vi diranno: ‘Eccolo là’, oppure: ‘Eccolo qui’, non andateci, non seguiteli” (Lc 17,22-23). Ed è chiaro perché: mentre prima non c’era da attendere nulla essendoci lì tra loro il Messia, ad un certo punto tutto cambia perché egli, dopo essere morto, risorto e asceso al cielo non è più da tanto tempo tra noi, e deve venire di nuovo, nella gloria, a giudicare i vivi e i morti. Quando? E torniamo così alla domanda iniziale dei farisei.

E non è irrilevante il quando, come se fosse cosa trascurabile per chi attende, anzi. Gesù disse che sarà così duro mantenerci in attesa, che persino “gli eletti” potrebbero non farcela se ad un certo punto il Signore non abbreviasse “quei giorni” (Mc 13,19-20). E potrebbe anche essere una situazione che ci riguarda molto da vicino. Per ogni generazione vi sono infatti da affrontare due pericoli opposti per la fede: quello di illudersi che il regno sia imminente e quello di non attenderlo più. E se non si deve ascoltare e seguire chi ci sta dicendo che colui che deve venire è qui oppure là, non è perché il regno di Dio è già presente, ma “perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno” (Lc 17,24), nel giorno in cui porterà a noi il regno di Dio. 

  

Circa sette anni fa mi arrivò per posta un libriccino di pochissime pagine con copertina azzurra, di un singolare filosofo italiano, Giorgio Agamben, che s’intitolava: La Chiesa e il Regno. Lo lessi tutto d’un fiato e mi colpì molto. Vi era riportato il testo intero letto dall’autore presso la Cattedrale di Notre-Dame, a Parigi, l’8 marzo 2009 in occasione di un ciclo di conferenze durante la Quaresima. E mi colpì soprattutto il fatto che a dire certe cose alla Chiesa, dal pulpito di una prestigiosa chiesa europea, sia stato uno schivo filosofo laico, e non so nemmeno se credente, mentre preti, vescovi, cardinali e papa erano tutti presi dai soliti sermoncini moralistici della Quaresima. Ad un certo punto tira pure in ballo il significato della parola “parrocchia”. Ma lo sa la gente che “parrocchia”, deriva da paroikein che in greco significa “soggiornare come uno straniero”, dunque “luogo d’esilio”, luogo in cui si attende da un momento all’altro il Messia che viene, luogo dove tutto ciò che si fa lo si deve fare come se non lo si facesse perché in ogni istante potrebbe sopraggiungere “il momento da cogliere”, il “giorno della salvezza” come diceva Paolo (2Cor 6,2)?

Ad un certo punto Agamben mette in evidenza come il tempo che interessa davvero i credenti non sia l’ultimo, ma il penultimo, il tempo che rimane tra la fine del tempo storico che ci sta ogni volta alle spalle e quello presente da vivere in ogni momento come se fosse l’ultimo pur non essendolo ancora. È il tempo di cui parla Paolo: “Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi” si viva usando il mondo con tutti i suoi beni, attività, organizzazioni eccetera, “come se non” si “usassero pienamente: passa infatti (in greco paragei, è cioè sempre sul punto di passare) la figura di questo mondo!” (1Cor 7,29-31). Quel farsi breve del tempo Paolo non lo avrebbe infatti inteso come un semplice accorciarsi, abbreviarsi, piuttosto come un contrarsi a mo’ di una molla. Agamben per chiarire il verbo greco usato da Paolo, systellein, indica “il raccogliersi di un animale su se stesso prima di saltare”. Il credente è colui che è sempre sul punto di aprire la porta al Signore che bussa: questa è la condizione di veglia. In ogni istante il Messia può finalmente arrivare e tutto dunque potrebbe in un attimo, nel mondo intero, trasformarsi radicalmente: le tombe aprirsi, i morti risorgere, i viventi andare incontro al Signore nell’aria per poi ridiscendere di nuovo con lui nel mondo futuro, che sarà qui, su questa nostra povera terra rifatta nuova: “Nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia”. Una “venuta” poi - quella “del giorno di Dio” - che non solo dobbiamo aspettare “secondo” la “promessa” che ci è stata fatta, ma che possiamo persino affrettare “nella santità della condotta e nelle preghiere” (2Pt 3, 11-14). 

Questo essere pronti riguarda dunque il nostro presente qui e ora, da vivere però come frattempo, mentre si attende il totalmente altro che ci sta a cuore. Scholem diceva che l’attesa messianica toglie il “peso specifico” alle nostre vite, perché a quel punto ciò che ci sta davvero a cuore è radicalmente altro rispetto a quello che sta a cuore a chi ci sta intorno, e che proprio per questo a noi non resta che vivere in “parrocchia”, per così dire, da “esiliati”, un po’ come Israele in Egitto. 

Vivere dunque le cose presenti come penultime, viverle cioè sempre e in ogni momento in funzione delle ultime, pronti a balzare anche noi nel regno di Dio insieme al Messia che in ogni istante può arrivare, ma che potrebbe anche tardare e tardare molto, anni, secoli, millenni e noi addormentarci. L’attesa messianica, esattamente come la fede, ha a che fare con generazioni e generazioni di credenti che l’hanno vissuta e trasmessa nell’arco della loro breve vita, e senza avere ancora mai visto, né da vivi né da morti, il compiersi di ciò che attendevano. E sarà proprio un segno da “ultimi giorni” quello in cui “si farà avanti gente che si inganna e inganna gli altri” dicendo: “Dov’è la sua venuta, che egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione” (2Pt 3,3-4).

 

Daniele Garota

(1.continua)

 

Relazione tenuta presso il Monastero di Montebello di Isola del Piano (PU), durante la giornata in ricordo di Sergio Quinzio, sabato 25 marzo 2017

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