Koinonia Giugno 2017


BARBIANA E LA CULTURA

 

1. Rileggere Lettera a una professoressa e, contestualmente, ripensare la propria esperienza maturata in  anni di  insegnamento  nelle  scuole secondarie statali, è sicuramente operazione sensata  sul piano personale, quando l’età suggerisce o impone l’ora dei bilanci. Lo è forse meno se si adotta un punto di vista  oggettivo, pubblico, e  se ci si chiede, da un lato,  quanto (e quali tra) le salutari  provocazioni presenti nel pamphlet della scuola di Barbiana abbiano operato in questi cinquant’anni nel mondo della scuola e quali risultati vi abbiano prodotto, e, dall’altro,  se ancora oggi siano capaci di scuotere le nostre coscienze, di indicare prospettive e di incidere sulle scelte private e pubbliche che quotidianamente gli insegnanti  sono chiamati a fare. Sì, i singoli  insegnanti,  perché è a loro – prima e più ancora che ai responsabili politici e amministrativi della scuola – che cinquant’anni fa la Lettera  si rivolse intenzionalmente. E questo non perché erano ritenuti la controparte, come molti recensori del tempo lamentarono, quanto come coscienze da interpellare e provocare. Per promuovere, infatti,  e realizzare processi di trasformazione  del modello scolastico imperante non si può prescindere, secondo Milani,  dal ruolo fondamentale dei  docenti , convinti o meno  dei compiti connessi alla loro grande responsabilità di maestri. Il primato spetta alla coscienza, perchè, per dirla con E. Mounier, senza la rivoluzione dello spirito, «questo grande disarmato»,  non si dà neppure la rivoluzione economica, politica e sociale e questa, anche quando  si dà,  se «non  si accompagna ad una trasfigurazione,  morrà di morte propria». Il primato della coscienza che, secondo il modello socratico dell’Apologia, era stato  difeso con tanta passione ed efficacia in I care, ovvero L’obbedienza non è più una virtù,  e che nel cattolicesimo fiorentino aveva incontrato e incontrava altri significativi testimoni ed apologeti,  quali G. La Pira,  E. Balducci, N. Pistelli….

Mi rendo conto, caro Alberto, che una risposta seria e fondata alle domande sopra formulate  richiede analisi, ricerche e competenze che attualmente non sono in grado di esprimere. Mi limito pertanto  ad un piccolo contributo in questa direzione, proponendo ai lettori di Koinonìa alcune note sulla concezione della cultura proposta dal priore e dai  ragazzi di Barbiana.

 

2. La chiave di volta della Lettera, ma credo di tutta l’intensa vicenda di Lorenzo Milani,  è contenuta  in due incisi apparentemente marginali, ma strettamente connessi tra loro. Il primo è pronunciato quando, a proposito del mancato o deformato orientamento offerto dalla scuola selettiva, si denuncia che i ragazzi «perfino in seminario (…) si tormentano per trovare la loro vocazione»: 

 

Se gli aveste detto fin dalle elementari che la vocazione l’abbiamo tutti eguale: fare il bene là dove siamo, non sciuperebbero gli anni migliori della loro vita a pensare a se stessi (112)

 

Il secondo inciso rivelatore, si trova nel  paragrafo Chi farà la scuola  a tempo pieno? :

 

I preti forse potrebbero fare il doposcuola. Ma molti non sanno amare con la durezza del Signore. Credono che il sistema migliore per educare i ricchi sia di sopportarli (90)

 

«Fare il bene là dove siamo», «dedicarsi al prossimo», è un imperativo che va bene «per credenti e atei»:  presuppone infatti unicamente l’essere uomo (93) ed è finalizzato alla sua difesa e promozione. Se poi ci tocca di  «educare», l’imperativo si esplicita nel saper «amare con la durezza del Signore», che non è peculiarità esclusiva dei cristiani ma, declinato in  forma ‘laica’,  caratterizza ad esempio l’impostazione educativa proposta   per i suoi figli da Gramsci, che dal carcere rimprovera alla  moglie Giulia la falsa convinzione di non dover turbare, di  limitarsi ad osservare , nel bambino lo spontaneo sviluppo di qualità innate.

Da questo assioma fondamentale  conseguono  nette e inconciliabili prese di posizione.

Da una parte,  il rifiuto senza appello del modo di studiare a  scuola modellato su Pierino, il figlio del dottore,  che favorisce l’opportunismo degli arrivisti e che, come suo «frutto massimo», può aspirare al conseguimento ‘disinteressato’ della cultura da parte dei  pochi che studiano «per amore dello studio» e si chiudono in camera a «leggere dei bei libri (…)  e a ascoltare Bach». Concezione, questa, apparentemente elevata, di fatto da respingere come «la più brutta tentazione».

Dall’altra parte, la lezione di Barbiana: «Il sapere serve solo per darlo. “Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo”. (…) Il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così l’umanità va avanti» (110).

Alla scuola ‘borghese’, che, per un verso,   si permette di  giudicare chi è tagliato o no per una materia e, per l’altro, non vuole e non sa orientare perché il suo «credo supremo» è «il Libero Sviluppo della Personalità» – «Guai a chi vi tocca l’Individuo» – Milani  contrappone la figura del maestro che con la sua autorità  non può non  (anzi ha il dovere di)  «influenzare»  i suoi ragazzi:

 

 «Sennò la scuola in che consiste?(…) Gli animali non vanno a scuola. Nel Libero Sviluppo della loro Personalità le rondini fanno il nido eguale da millenni» (112)

 

Un maestro che mette se stesso e la sua cultura al servizio di un’opera di trasformazione. Per questo non può rassegnarsi e cerca  nello «sguardo distratto» di Gianni «l’intelligenza che Dio ci ha messa certo eguale agli altri», lotta per lui «che ha più bisogno, trascurando il più fortunato, come si fa in tutte le famiglie», si sveglia la notte «col pensiero fisso su di lui a cercare un modo nuovo di far scuola, tagliato su misura sua», va «a cercarlo a casa se non torna». Non si dà pace, «perché la scuola che perde Gianni non è degna d’essere chiamata scuola» (82).

Ma l’autorità e la partigianeria del maestro, e dell’insegnante in genere, oltre ai  ‘danni’ che arreca ai valori di una cultura disinteressata ed universale,  non rischia forse di  impedire proprio l’innovazione che permetterebbero alle «rondini» di fare il nido in modo diverso da quello appreso dai suoi istruttori? Non è forse scuola di conformismo quella in cui il docente, con  la sua autorità, impone agli allievi le proprie scelte e tende a farne la fotocopia di se stesso? Milani non ha dubbi:  il docente che ha per gli allievi un amore paterno e duro,  non può mai comunicare l’impressione che tutto gli sia indifferente o che tutto gli vada bene e non potrà che gioire se alla fine le scelte dei suoi allievi-figli saranno difformi dalle sue.

Che meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo perché è segno che quel figliolo è già un uomo e non ha più bisogno di balia, è qui il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso.

 

La scuola siede tra passato e futuro e deve averli presenti entrambi, il maestro deve essere per quanto può un profeta; scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare, domani, e che noi vediamo solo in confuso

 

3. Una prima discriminante, riguardo la concezione della cultura, è dunque definita. La cultura, che potremmo connotare come genericamente ‘idealistica’,  intesa  come sapere disinteressato, destinato ad elevare l’anima,  è di solito apprezzata perché è alta e si presenta    al di sopra delle parti, ma  la sua falsa  neutralità svela, così come lo sbandierato interclassismo del partito unico dei cattolici, la sua matrice  di classe e la sua destinazione ‘borghese’ riservata all’individuo  che ha tempo e modo di coltivarla – anche (e forse soprattutto) in solitudine – e che vi è già predisposto in virtù di  capacità  attivate in gran parte dalla famiglia d’origine e potenziate o consolidate da una scuola modellata allo scopo.

La cultura che invece, partigiana, si schiera, come vuole la Costituzione,  per rimuovere gli ostacoli che impediscono l’eguaglianza effettiva delle situazioni di partenza, si può chiamarla ‘impegnata’,  nel senso che è giustificazione e prospettiva di un autentico impegno civile.

 

Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali (p. 94)

Conoscere i ragazzi dei poveri  e amare la politica è tutt’uno. Non si può amare creature segnate da leggi ingiuste e non volere leggi migliori» (93)

 

 

Questa cultura esige, come condizione necessaria,, la comunicazione:  la discussione e il litigio, lo scontro e la collaborazione, un dialogo permanente, il coraggio di una vita pubblica. Come l’albero evangelico si riconosce dai frutti,  il valore della cultura che si dà e/o si costruisce insieme, si misura dalla sua  capacità di operare il cambiamento, sia a livello individuale che collettivo , sul piano della storia.  O,  per dirla con le parole adoperate nel 1962 da Alberto Scandone – il precoce intellettuale e politico fiorentino che l’anno prima,  a 19 anni,  aveva fondato l’associazione giovanile “Nuova Resistenza” –  «un problema non è risolto quando è risolto da uno di noi, ma quando la sua soluzione feconda un ambiente e stimola altre soluzioni». Di qui la valorizzazione delle modalità comunitarie che, assumono a Barbiana l’apprendimento , l’insegnamento e le attività di studio .

Una seconda discriminante discende quasi come un corollario dalla prima. Gli assi portanti della cultura  proposta da Barbiana sono, com’è noto :  il Vangelo, che «non tocca ai preti» ma riguarda «letteratura», geografia, storia e «una materia apposta», la storia – materia bistrattata, ridotta a «un raccontino provinciale e interessato fatto dal vincitore al contadino» –,  l’educazione civica,  ovvero la centralità della Costituzione e la sua attuazione,  e l’arte dello scrivere.  Sono questi i quattro strumenti culturali fondamentali che, insieme alla lettura del giornale (la connessione con il resto del mondo, con l’universale),  danno sostanza e senso alla passione per la politica, che mettono gli allievi in condizione di possedere «la parola».

La terza discriminante è la valorizzazione della diversità tra le culture. Anzitutto la cultura contadina, definita «un dono» che i ragazzi di Barbiana portano a quelli di città, che  non conoscono più gli alberi col loro nome e  anche degli uomini sanno sempre meno: chiusi nell’ascensore, nell’automobile e col telefono in mano, ignorano i propri vicini e, se parlano, «sovrappongono le voci e seguitano a parlare come se niente fosse. Tanto ognuno ascolta se stesso». «La nostra cultura regge da per tutto dove è vita vera» (103) 

 

Ogni popolo ha la sua cultura e nessun popolo ce n’ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri. (…)

Lei se parla con un operaio sbaglia tutto: le parole, il tono, gli scherzi. Io so cosa pensa un montanaro quando sta zitto e so la cosa che pensa mentre ne dice un’altra.

Questa è la cultura che avrebbero voluto avere i poeti che lei ama. Nove decimi del mondo l’hanno e nessuno è riuscito a scriverla, dipingerla, filmarla. Siate umili almeno. La vostra cultura ha lacune grandi come le nostre. Forse più grandi. Certo più dannose per un maestro elementare. (115–117)

 

Tutta la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi. (13)

 

I «figli dei poveri» vanno messi in guardia: la cultura propinata a scuola contagia come un’infezione chi ne viene  a contatto. Rischiano di ritenerla  «la cultura vera» e di pensare    che  il loro bisogno di essenzialità, sia  «un semplicismo»  superato da secoli,  e il loro «sogno d’una lingua che possa essere letta da tutti, fatta di parole d’ogni giorno»  non sia altro che «un operaismo fuori tempo»( 133).

Rispetto a Esperienze pastorali, la  valorizzazione  della dignità intrinseca alla cultura   di ciascun popolo, e quindi anche dei poveri, è qui  fissata con maggior forza.  A Calenzano erano stati oggetto di indagine appassionata e rigorosa l’esodo dal mondo rurale, il declino  della cultura contadina e l’adozione degli stili di vita legati agli incipienti processi di industrializzazione e di scristianizzazione, responsabili sia delle condizioni di miseria e di ingiustizia che  del  corrompimento della mentalità e dei costumi. Il fatto che fosse  indicato come  rimedio la scuola, la sola in grado di far recuperare alle persone la perduta dignità umana e di offrire le  precondizioni per  un’azione pastorale efficace, significava prendere atto,  senza nostalgie antimoderne, del carattere irreversibile dei profondi mutamenti in corso.  La scelta di  radicarsi nell’ambiente più desolato di Barbiana ha determinato in Milani qualcosa di nuovo e, mi si passi il gioco di parole, di più radicale : la consapevolezza che solo i poveri possono essere i protagonisti del loro riscatto esige il superamento di qualsiasi complesso d’inferiorità e, direi,  la fierezza  del proprio patrimonio culturale,  formatosi  su esperienze vitali dirette e intessuto di relazioni con la natura, gli animali e gli uomini,  che non solo va salvaguardato dal contagio che può produrvi l’arrogante cultura della scuola ‘borghese’, ma che anzi è da apprezzare e da offrire come  «dono», in grado di colmare le «lacune» della cultura coltivata da  una società malata,  umanamente povera e omologata del consumismo. Vengono alla mente Turoldo e Pasolini, e,  un po’ più lontano,  il vivace dibattito provocato da  Il mondo magico (1948) che segnò il distacco di  E. De Martino dall’etnocentrismo di B. Croce.

Non solo, ma se  sono i «nove decimi del mondo» a possedere il  «dono» di questa cultura,  la prospettiva si allarga ad una dimensione terzomondista e planetaria.

 

In Africa, in Asia, nell’America Latina, nel mezzogiorno, in montagna, nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano d’essere fatti eguali. Timidi come me, cretini come Sandro, svogliati come Gianni. Il meglio dell’umanità” (LP, p.80)

E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è né vilta né eroismo. E’ solo mancanza di prepotenza” (LP, p. 10)

La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola. (105)

4. Il 26 giugno 1992 apparve su «l’Unità», a distanza di due mesi dalla morte del suo autore, I nuovi ragazzi di Barbiana, l’ultima delle riflessioni di Ernesto Balducci intorno a Lettera a una professoressa, «immensa e mirabile metafora del tempo nuovo» in cui «le  Barbiane del mondo» gli  ricordavano con ancora più forza che noi, figli del mondo occidentale, «ci comportiamo come se il mondo fossimo noi».  Si dice, osservava Balducci, che il nostro è  un tempo di comunicazione,  ma  la cultura continua ad essere affidata a meccanismi di trasmissione come quando la coscienza veniva data alle masse da una élite ecclesiastica o di partito. Non sono  più B. Croce e gli intellettuali accademici di stampo umanistico a detenere le chiavi dell’apparato culturale e del  sistema d’informazione, le notizie sono diventate merce da comprare e da vendere – non a caso  è così elevato l’interesse delle grandi multinazionali per  il controllo dei mezzi di comunicazione – ma  noi viviamo immersi in una rete costruita sulla base di  banche dati controllate  da qualcuno tutt’altro che disinteressato. E la «monade informatica», di cui parlava J.–F. Lyotard, il    «gran sistema di informazioni che vivrà di se se stesso»,  non riduce forse la coscienza  a «un’escrescenza soggettiva»? La Lettera  mantiene allora  intatta la sua forza, perché interpella proprio le coscienze, seminando  inquietudine e invitando ad adottare  la regola del «dubbio metodico su ciò che diciamo» e su ciò che sentiamo dire. Anzi, forse più di ieri se ne comprende la lezione: il ruolo profetico del maestro, chiamato appunto a scuotere le coscienze; la fiducia nelle possibilità latenti dell’uomo e nell’adoperarsi senza risparmiarsi per farle vivere; la consapevolezza che le masse hanno una cultura», ma «hanno bisogno della parola» per esprimerla, e che  «la cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo» non può sorgere che da un rapporto nuovo e non gerarchicamente condizionato fra la cultura dominante e le culture delle Barbiane del mondo; l’insegnamento non come trasmissione ma come processo di liberazione, capace di mettere in moto l’autonomia e la formazione come «processo comunitario, circolare» non competitivo.

Dall’articolo di Balducci è passato  un altro quarto di secolo e le drammatiche vicende che lo hanno caratterizzato hanno sicuramente accelerato ed accentuato sia i processi di planetarizzazione  sia  le  immigrazioni di massa,  che più appropriatamente si  dovrebbero  oggi chiamare diaspore, dato che l’Europa e l’Occidente, dopo aver perduto la centralità politica ed economica,  non detengono più lo status di cultura dominante e solo illusoriamente possono cercare di ‘assimilare’ i nuovi arrivati.  Non potersi sottrarre dal dover fare i conti con le conseguenze sempre più vistose della rivoluzione informatica,  con il  mondo multicentrico che, tra paure e incertezze, si profila già in mezzo a noi  e con la loro  complessità, che provoca sempre situazioni ambivalenti, significa  per le coscienze  trovarsi  ad un  bivio, stavolta avvertito come più decisivo,  e  dover scegliere tra le risposte dell’uomo edito e quelle dell’uomo inedito. Può  ancora illuminare la via il messaggio ‘profetico’ di Milani e/o di  Balducci? E la fedeltà alla loro  lezione, significa restare attaccati  a ciò che troviamo nei loro scritti, assumendo  quasi come indiscutibile ciò che hanno detto, oppure è necessario cogliere, al di là della lettera,  il nucleo profondo – e perciò dinamico – del loro pensiero e della loro prassi, e farlo reagire con le dinamiche del presente, rischiando anche, se del caso, di arrivare a sostenere posizioni divergenti da quelle degli ‘antenati’,  ma fedeli alla loro lezione vivente?

 

Aldo Bondi

.