Koinonia Giugno 2017


Si deciderà la Chiesa a cogliere la sua occasione storica e a riprendere la sua vocazione messianica?

 

LA CHIESA E I SEGNI DEI TEMPI

 

Può un cristiano vivere soltanto di cose ultime? Un grande teologo protestante, Dietrich Bonhoeffer, ha denunciato la falsa alternativa fra radicalismo e compromesso, che parte per entrambi i casi dal separare nettamente le realtà ultime e le realtà penultime, quelle cioè che definiscono la nostra condizione sociale e umana di tutti i giorni. Ora, come il tempo messianico non è un altro tempo, ma una trasformazione del tempo cronologico, così vivere le cose ultime è prima di tutto vivere in modo altro le cose penultime.

La vera escatologia forse non è altro che la trasformazione dell’esperienza delle cose penultime. Poiché le realtà ultime hanno prima luogo dentro le penultime, queste - contro ogni radicalismo - non si possono semplicemente rifiutare; ma - per la stessa ragione, e contro ogni possibilità di compromesso - le cose penultime non si possono considerare come ultime. È con il verbokatargein che non vuol dire «distruggere», ma rendere inoperante, letteralmente «dis-operare» - che Paolo esprime la relazione fra ciò che è ultimo e ciò che non lo è. La realtà ultima disattiva, sospende e trasforma la realtà penultima, ma è tuttavia al suo interno che essa entra in gioco interamente.

Ciò permette di comprendere la situazione propria del Regno in Paolo. Al contrario della corrente rappresentazione escatologica, va ricordato che per lui il tempo del Messia non può essere un tempo futuro. L’espressione con la quale indica questo tempo è sempre «ho nyn kairos», il tempo dell’adesso. Come scrive in 2 Cor 6,2: «[Idou nyn] Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!».

Paroikia e parousia, soggiorno da straniero e presenza del Messia, hanno la stessa struttura che è espressa in greco con la preposizione para: quella di una presenza che distende il tempo, di un già che è anche un non ancora, di un ritardo che non è un rimando a più tardi, ma uno scarto e una disgiunzione all’interno del presente, che ci permette di cogliere il tempo.

Si vede bene dunque che l’esperienza di questo tempo non è qualcosa che la Chiesa possa scegliere di fare o di non fare. Non vi è Chiesa, se non in questo tempo e per mezzo di questo tempo.

Che ne è di questa esperienza del tempo del Messia, nella Chiesa di oggi? Infatti il riferimento alle cose ultime sembra a tal punto sparito dal discorso della Chiesa, che si è potuto dire non senza ironia che la Chiesa di Roma ha chiuso l’Ufficio escatologico. Ed è con un’ironia senza dubbio ancora più amara che un teologo francese ha potuto scrivere «si attendeva il Regno ed è arrivata la Chiesa». È un’immagine potente, sulla quale dovremmo riflettere.

Considerando quanto detto sopra sulla struttura del tempo messianico, è chiaro che non si tratta di rimproverare alla Chiesa il compromesso in nome del radicalismo. Non si tratta nemmeno, come ha fatto il più grande teologo ortodosso del XIX secolo, Fëdor Dostoevskij, di presentare la Chiesa di Roma sotto la figura del Grande inquisitore. Si tratta di un’altra cosa, ossia della capacità della Chiesa di cogliere ciò che Matteo 16,3 chiama i segni dei tempi, ta semeia ton kairon.

Quali sono questi segni, che il Vangelo oppone al vano desiderio di interpretare l’aspetto del cielo? Se la storia è penultima in riferimento al Regno, questo - si è visto - ha il suo luogo prima di tutto e sopra tutto nella storia. Vivere nel tempo del Messia esige dunque la capacità di leggere i segni della sua presenza nella storia, di riconoscere nel suo corso il sigillo dell’economia della salvezza. Agli occhi dei padri - ma anche per i filosofi che hanno riflettuto sulla filosofia della storia, che è e resta (anche in Marx) una disciplina essenzialmente cristiana - la storia si presentava come un campo di tensioni, percorso da due correnti opposte: la prima - che Paolo, in un celebre ed enigmatico passaggio della Seconda lettera ai Tessalonicesi, chiama to catechon - che ritiene e differisce senza sosta la fine del mondo lungo la linea del tempo cronologico, infinito e omogeneo; l’altra che, mettendo in tensione l’origine e la fine, non cessa di interrompere e portare a termine il tempo.

Chiamiamo legge o stato la prima polarità, votata all’economia, ossia al governo infinito del mondo; e chiamiamo Messia o Chiesa la seconda, la cui economia - l’economia della salvezza - è essenzialmente finita. Una comunità umana non può sopravvivere se queste due polarità non sono compresenti, se non esiste fra di esse una tensione e una relazione dialettica.

Ora, è esattamente questa tensione che oggi è spezzata. A mano a mano che la percezione dell’economia della salvezza nel tempo storico si appanna nella Chiesa, si vede l’economia stendere il proprio dominio cieco e derisorio su tutti gli aspetti della vita sociale. Allo stesso tempo, l’esigenza escatologica che la Chiesa ha trascurato ritorna sotto una forma secolarizzata e parodistica nei saperi profani, che sembrano fare a gara per profetizzare in tutti i campi delle catastrofi irreversibili. Lo stato di crisi e d’emergenza permanente che i governi del mondo proclamano oggi è proprio la parodia secolarizzata del perpetuo aggiornamento del giudizio ultimo nella storia della Chiesa.

All’eclissi dell’esperienza messianica del compimento della legge e del tempo corrisponde un’ipertrofia inaudita del diritto, che pretende di legiferare su tutto, ma che tradisce con un eccesso di legalità la perdita di ogni vera legittimità. Qui e ora affermo, misurando le parole: oggi sulla terra non vi è più alcun potere legittimo, e i potenti del mondo stessi sono tutti rei di illegittimità. La giuridicizzazione e l’economicizzazione integrale dei rapporti umani, la confusione fra ciò che possiamo credere, sperare, amare e ciò che siamo tenuti a fare o a non fare, dire o non dire segna non soltanto la crisi del diritto e degli stati, ma anche e soprattutto quella della Chiesa. Poiché la Chiesa non può vivere se non tenendosi, in quanto istituzione, in relazione immediata con la fine della Chiesa.

E - non bisogna dimenticarlo - nella teologia cristiana vi è una sola istituzione che non conoscerà la fine e il dissolvimento: ed è l’inferno. Qui si vede bene - mi sembra - che il modello della politica di oggi - che aspira a un’economia infinita del mondo - è propriamente infernale. E se la Chiesa spezza la sua relazione originale con la paroikia, essa non può che perdersi nel tempo.

Ecco perché la domanda che pongo, senza di certo avere alcuna autorità per farla se non quella di un’abitudine ostinata a leggere i segni dei tempi, si riassume in questa: si deciderà la Chiesa a cogliere la sua occasione storica e a riprendere la sua vocazione messianica? Poiché il rischio è che essa stessa sia trascinata nella rovina che minaccia tutti i governi e tutte le istituzioni della terra.

 

Giorgio Agamben

 

Da La chiesa e il regno - Lectio pronunciata presso la cattedrale di Notre-Dame a Parigi l’8.3.2009]

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