Koinonia Maggio 2017


È UNA GIORNATA STRANA...

RIFLESSIONI DA UNA ESPERIENZA DI VIAGGIO

 

Sono emozionato al pensare che parta per un safari, anche se solo di un giorno e mezzo, in Kenya. Finalmente avrò un primo contatto con la natura africana, con i suoi animali, che nell’immaginario di tutti popolano la savana e i tanti documentari visti in televisione. Questo breve tour si colloca all’interno di una vacanza diversa da quelle cui normalmente sono abituato. Stare in un resort sul mare del Kenya, in questa località che si chiama Watamanu, ma che qualcuno ha soprannominato “Milano 2”, visto l’alto numero d’italiani che qui vengono a “svernare”, è, comunque, qualcosa che ho deciso di provare all’interno dei festeggiamenti dei miei “sessanta”, ormai passati da un paio di mesi.

 

Partiamo presto e già l’inizio è particolare perché ci troviamo a discutere con la solita frotta di ragazzi di colore, con le loro storie più o meno credibili, che questa volta cercano di venderci farina e biscotti per i bimbi che troveremo sulla strada. Spesa lodevole ma che nasconde il lucro personale, sospettato o vero che sia da una parte e più la voglia di toglierci dall’assedio che per l’effettivo pensiero di aiutare qualcuno, dall’altra. Comunque, dopo il solito lungo patteggiamento e compromesso finale, partiamo. Attraversiamo Watamanu per inoltrarci dalla costa verso l’interno in direzione del parco. Sulla strada, tante baracche, negozi improvvisati e scuole, primarie e secondarie, con studenti e studentesse in divise dai colori diversi, blu e gialli, verdi e bianchi; blu e grigi, ecc. Alcuni cartelloni con nomi italiani, testimoniano la presenza di progetti di sostegno finanziati da associazioni del nostro paese. La periferia immediata, lascia il posto alle capanne di lamiera e fango e ai segni di una vita che sembra più stentata. La strada è lunga e qualcuno manifesta un po’ di difficoltà per la scomodità del viaggio, per il tempo delle attese e per le soste non programmate nei negozi di souvenir. Finalmente, svolte le attività burocratiche, entriamo nello Tsavo National Park Est. Il contatto con le prime zebre a portata di macchina fotografica m’immerge completamente in quel luogo. In un attimo mi trasformo in uno dei primi esploratori dell’Africa o in un reporter del National Geographics. Scatto foto a ripetizione ai primi elefanti, come se ogni animale intravisto fosse l’ultimo esemplare sulla terra. Non siamo l’unico gruppo in visita al parco e quindi la presenza di un gruppo di leoni che riposano sotto un grande albero, non passa inosservata. Sono lì, eccoli, incredibilmente vicini. Mi viene in mente la stupida riflessione di come li abbia visti, forse anche da più vicino, al circo o allo zoo. Perché, dunque, tanto entusiasmo? A parte la considerazione che adesso siamo noi quelli che sono in gabbia, anche se piccole e con le ruote, il pensiero è subito spazzato via dal vederli lì in questa vastità di paesaggio, che si fa sempre più bello. Con il passare delle ore, quando la luce definisce meglio i contorni, si accendono i colori e aumentano i contrasti fra il cielo azzurro, le nuvole bianche, la terra rossa e i verdi e gialli della savana. E’ tutto magnifico e neppure le ore di fuoristrada, passate sulle piste, tolgono un minimo a questa immersione. Quando l’oasi del parco finisce, si torna al presente che contrasta la bellezza che mi è rimasta negli occhi. L’autista si ferma più volte lungo la strada sterrata e polverosa, per permetterci di distribuire la farina e i biscotti che abbiamo comprato alla partenza. Così elemosiniamo a loro, quel che per noi è meno del superfluo. Rifletto sul contrasto di questi due mondi e quasi sono dispiaciuto di aver offuscato in parte questa visione ideale dell’Africa e per essermi ricordato con che cosa devo fare i conti. Le domande sono lì che chiedono spazio e si affacciano insistenti. Che cosa è che ha deciso che io sia nato da questa parte del mondo? Perché questa disparità? Che cosa posso fare io, senza rimanere nelle classiche opere di carità? Perché devo provare disagio nei loro confronti? Il contrasto è forte. Passo una settimana in un resort in riva al mare e dietro di me, a non più di qualche decina di metri le case sono di fango e legno, l’acqua corrente è un lusso e l’elettricità non è certo assicurata. Che cosa ho io di più di loro? Qual è la mia parte di responsabilità in tutto questo?

 

È inutile, fare gli ipocriti e negare un certo fastidio, nel vedersi attorniati, tutte le volte che esci dal recinto dorato del resort, dai “beach boys” (i ragazzi della spiaggia) che continuano a proporti di tutto, dal safari, al portachiavi in ebano (che pagherai quattro volte di più rispetto al negozio del villaggio), che non ti mollano anche quando spieghi che non hai bisogno di niente, perché hai già comprato tutto quello che volevi e potevi. Continuiamo a essere seguiti, ad ascoltare le loro storie, che non sai bene quanto credibili, di disastri, lutti e ristrettezze (forse quest’ultime vere). Certo è che ci sono fuoriusciti somali, eritrei, che vengono a vivere qui fuggiti dalla guerra e poveri fra i poveri. Rifletto ancora sul mio comportamento, in parte insoddisfatto, mentre dovrei essere in grado di dare il massimo del valore e dell’apprezzamento all’opportunità di vita che mi si è offerta e incapace di stare al meglio in quello che ho. Spreco nello spreco. Faccio i conti con questa esperienza, dove le luci e i colori della savana si portano dietro anche le ombre e i grigi della realtà del villaggio.

È stata una giornata strana.

 

Maurizio Valleri

.