Koinonia Maggio 2017


SALMO 103: IL DONO DELLA GRAZIA (II)

 

Parte seconda: Dio che prega e l’uomo che prega

 

È dura essere buoni, e quando si ha a che fare con un uomo davvero buono egli è tale proprio perché è convinto di non esserlo. E se qualcuno lo chiama buono, non può far altro che rispondere come ha risposto Gesù, che essere buono è impossibile, e che se è possibile a Dio è perché a lui tutto è possibile. C’è un pensiero straordinario di Simone Weil al riguardo: “Un beneficio – È un’azione buona se compiendola si ha coscienza, con tutta l’anima, che un beneficio è cosa assolutamente impossibile.

‘Fare il bene’. Qualsiasi cosa faccia, so in modo perfettamente chiaro che non è il bene. Perché ciò che faccio non può essere bene, dal momento che lo faccio. Perché colui che fa il bene è buono; chi non è buono non fa il bene. E ‘Dio solo è buono’.

Non ‘è bene che io faccio questo’; ma ‘sarebbe male se non lo facessi’” (Quaderni III, p. 90). Dura arrivare a tale consapevolezza, e non è un caso che si tratti di una pensatrice ebrea.

I benefici che vengono da Dio, per i quali il salmista chiede alla sua anima di dire ogni bene di Dio, solo Dio può elargirli, guai a dimenticarlo. Noi possiamo fare molto, possiamo mettercela tutta, fare il nostro dovere fino in fondo, ma alla fine guai se non sentissimo sinceramente il nostro essere “servi inutili”, avendo semplicemente “fatto quanto dovevamo fare” e nulla più (Lc 17,10).

Ma c’è qualcosa ancora, oltre il nostro dovere, oltre l’osservanza della Legge di Dio: la salvezza, quella salvezza che ci viene soltanto per grazia dalla bontà e dalla potenza di Dio.

Grazia ha a che fare con la gratuità, con un dono ricevuto senza meritarlo, ed è per questo che richiede gratitudine, riconoscimento della bontà di chi ce lo ha fatto. I doni che riceviamo da Dio non sono legati a necessità naturale e nemmeno ci sono dovuti, sono semplicemente frutto di bontà e di grazia da parte di Colui che gratuitamente ci dona ogni cosa in ogni momento, cose che dovrebbero persino stupirci per la loro bontà e bellezza, dal chiarore del mattino appena ci svegliamo al volto di un bambino che nasce e ci cresce dentro casa.

C’è grazia proprio perché c’è dono, gratuità, storia. Per questo non dobbiamo mai dimenticare quanto riceviamo senza avere pagato o meritato nulla per averlo. Gli ebrei, tesi alla venuta del Messia e alla redenzione futura, non hanno mai dimenticato quanto di buono hanno già ricevuto, al punto da coniare un termine specifico nella loro preghiera: Dajenu, che significa “ci sarebbe bastato”. Come a dire: nulla mi farà contento fino a quando non verrà il Messia che farà risorgere i morti, intanto però, anche senza ricevere le ultime cose che attendo di ricevere sono già felice di quello che ho e anche solo questo mi basta. Solo riconoscendo la preziosità del già la fede osa chiedere il non ancora, ma non tanto perché sente di meritarlo, piuttosto perché è Dio stesso che lo ha promesso e desidera donarcelo con gioia. La salvezza si raggiunge non perché la si merita, piuttosto perché la si crede e la si invoca, pur percependosi ‘servi inutili’ e meritevoli di nulla.

 

La salvezza è dunque frutto della bontà e della grazia di Dio. Ma dalla grazia che ci viene donata, scaturiscono in noi due rischiosissime potenzialità, che possono condurci a salvezza ma anche a dannazione: la libertà e la responsabilità. Nel giudizio ultimo soltanto conosceremo il valore di quanto abbiamo ricevuto e il valore di quanto abbiamo fatto, detto e pensato durante la nostra vita, ora soltanto piccole e brevi intuizioni e solo avendo il cuore umile e disponibile a esse.

C’è un pensiero, al riguardo, di Romano Guardini: “Quanto più forte è la grazia di Dio, tanto più libero diviene l’uomo per la sua più personale iniziativa” (Libertà, grazia, destino). Molto è quello che ci è donato e concesso e proprio per questo molto ci sarà richiesto nell’ultimo giorno. C’è un’affermazione tremenda dello stesso Gesù: “Chi non crede è già stato condannato” (Gv 3,18). Perché condannato? Perché a quel punto Dio non può nulla oltre a quello che ha già fatto per salvarlo. O meglio, per riuscire a donargli la fede che salva. E perché solo la fede salva? Perché Dio non può salvare chi non desidera essere salvato, chi non sa nemmeno cosa sia e cosa comporti la redenzione del mondo e della storia. “Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce” (Gv 3,19). Non è dunque Dio a condannare, ma sono gli uomini a preferire la condanna alla salvezza. Chi odia la luce non ama andare verso la luce, c’è poco da fare, e a quel punto nemmeno Dio può più fare nulla.

O meglio, può solo soffrire perché da parte sua ha fatto di tutto e più che dare la vita non poteva fare per salvarci, per salvare il mondo intero. Salvezza alla fine sarà luce che splende in mezzo a quelle tenebre che faranno di tutto, fino all’ultimo, per soffocarla, vincerla, com’è chiaramente detto nel prologo del Vangelo di Giovanni (1,5). E per capire quanto siano potenti le tenebre basta saper guardare con occhi svegli e audaci come va il mondo giorno dopo giorno.

Come andrà a finire? La speranza è che le tenebre non vincano del tutto, ma per la luce sarà lotta davvero dura, fino all’ultimo giorno, e molto dipenderà anche da noi: noi siamo del tutto liberi di scegliere. Ma dobbiamo stare molto in guardia perché sappiamo - come già di fronte alla “luce” che per un attimo ha illuminato il mondo nel Cristo - “gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce” (Gv 3,19) e il Cristo non solo non ha potuto farci nulla ma è stato persino ammazzato per questo: a tal punto è giunto a mettersi nelle nostro poverissime e deboli mani.

 

Il fedele ebreo guarda il cielo e si riferisce alla sua altezza rispetto alla terra che ha sotto i piedi per dire quanto “potente” sia la sua chesed, la sua grazia, “su quelli che lo temono”. E prende a esempio la distanza tra oriente e occidente per dire quanto tale grazia permette a Dio di gettare lontano “da noi le nostre colpe”.  Dio “perdona tutte le colpe, guarisce tutte le nostre infermità”. Fino a salvare “dalla fossa” la nostra “vita” (vv. 11-12). Impossibile scampare dalla morte? Non per Dio.

Nell’ultima intervista che è riuscito a rilasciare già novantenne e poco prima di morire, il professor Umberto Veronesi è stato messo di fronte a due domande: una sulla fede e una sulla vecchiaia. Ha risposto così: “Troppi bambini innocenti soffrono nel mondo per continuare a credere in Dio. La vecchiaia? Terribile, attraverso di essa troppi mali ci raggiungono, ed è già tanto conservarne la coscienza”.

Ecco chi sono da sempre i nemici dell’uomo e di Dio: il male e la morte, nemici che Dio ha promesso di sconfiggere, nemici di fronte ai quali persino uno come il professor Veronesi è costretto ad arrendersi, sebbene abbia salvato molti dal cancro con la chemioterapia.

Prendiamo il Salmo 103 al versetto 5, che richiama uno straordinario versetto messianico del profeta Isaia: “Sazia di beni la tua vecchiaia, / si rinnova come aquila la tua giovinezza”. E sentiamo anche direttamente Isaia: “Quanti sperano nel Signore riacquistano forza, / mettono ali come aquile, / corrono senza affannarsi, / camminano senza stancarsi” (41,30).

E c’è poi il bisogno di giustizia, la sola misericordia non basta, fare grazia non significa trascurare la giustizia, anzi. “Il Signore compie cose giuste, / difende i diritti di tutti gli oppressi”, dice il Salmo 23 (v. 6).

E infine il bisogno di tenerezza: “Come è tenero un padre verso i figli, / così il Signore è tenero verso quelli che lo temono” (v. 13).

Ecco, Benedire il Signore, dire bene, riconoscere i suoi benefici è, in fondo, un totale affidarsi a lui con questi profondi bisogni nel cuore, custodendo l’“alleanza” con lui, “ricordando i suoi precetti per osservarli” (v. 18), con spirito umile, obbediente.

 

A proposito di obbedienza, voglio concludere con una profonda riflessione di Dietrich Bonhoeffer, che ho trovato nella Quarta Appendice della sua Etica, e riguarda l’uomo ricco della parabola evangelica di cui abbiamo già fatto cenno, e che non è riuscito ad entrare in questa fede come obbedienza di fronte all’invito del Signore.

“Ciò che importa della Parola di Dio, non solo gli ordinamenti in sé, ma l’obbedienza della fede che in essi si verifica (…). Per Gesù, come per il decalogo, si tratta esclusivamente della concreta obbedienza a Dio; può darsi che nel rinunciare per amore di Dio al proprio diritto, al matrimonio, alla proprietà, si onori la vera fonte di quei doni, ossia Dio stesso, più che nell’affermare il proprio diritto che potrebbe allora facilmente mettere in ombra quello di Dio.

La richiesta che Gesù rivolge al giovane ricco, di rinunciare a uno dei suoi diritti, mostra chiaramente come il fatto che egli avesse ‘osservato i dieci comandamenti fin dalla sua giovinezza’, non costituisse un’obbedienza a Dio, ma piuttosto di fare astrazione dal Dio vivente proprio nell’atto di osservare quelle che erano considerate espressioni della volontà divina (Mt 19,16 ss.).

Il decalogo e il Discorso della Montagna, non rappresentano dunque ideali etici diversi, bensì un unico appello all’obbedienza concreta verso il Dio e Padre di Gesù Cristo. Quando nella fede in Dio si accetta responsabilmente la proprietà, non accade nulla di diverso da quello che si produce quando nella fede in Dio si rinunzia alla proprietà. Né la ‘lotta per il proprio diritto’ né la ‘rinuncia al proprio diritto’ hanno un valore speciale: non sono affatto oggetto della predicazione della Chiesa, ma l’una e l’altra sono, nella fede, un modo di sottomettersi all’unico diritto di Dio” (Etica p. 303).

Insomma, non conta tanto star lì a disquisire se sia giusto o meno possedere la casa in cui si abita, che mio fratello divida con me l’eredità, o seppellire il proprio padre prima di seguire il Messia, conta invece, e molto, mettere al di sopra di tutto “il regno di Dio e la sua giustizia”, considerando tutto il resto null’altro che una semplice aggiunta (Mt 6,33), pronti ad abbandonare in ogni momento quello che si ha, persino la vita se occorre.

Uno può mettersi a fare qualsiasi cosa, purché la faccia come se non la facesse – dice Paolo. Perché? Perché “il tempo si è fatto breve” e perché “passa la figura di questo mondo!” (1Cor 7,29-32). Si ha qui a che fare con quanto Gershom Scholem diceva esserci nella speranza messianica ebraica: un attenuarsi del peso specifico delle nostre azioni, dovuto ad una consapevolezza di bisogno di fronte alla quale soltanto la salvezza promessa da Dio può realmente corrispondere. 

 

Ma torniamo per concludere a quello che si diceva all’inizio: il destinatario della preghiera, Dio, potrebbe paradossalmente essere egli stesso colui che prega, il povero che prega. Dio non solo cioè potrebbe essere così povero da rispondere come un servo alla nostra preghiera, ma potrebbe persino essere colui che prega noi di aiutarlo.

Ne Il pozzo dell’esilio, André Neher dedica un capitolo breve alla preghiera, riprendendo quanto detto, alla luce del midrash talmudico, dal Maharal di Praga, un famoso rabbino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento. Pregare significa prima di tutto pensare, mettere il proprio pensiero in tensione. “L’uomo che prega è dunque l’uomo teso, l’uomo che si mette in cammino, l’uomo che si proietta dal basso in alto. È l’uomo nostalgico pungolato da un desiderio inestinguibile, assillato da un bisogno lancinante”.

L’uomo povero sta come davanti alla porta di Dio confidando non solo nella sua presenza ma anche nel suo aiuto, nel suo intervento. “Pregare, per l’uomo, significa indossare l’abito dell’umiltà” che permette di “identificare in lui la creatura separata, impotente, le cui uniche armi sono l’attesa, le mani tese nel vuoto dell’universo”.

Ma dall’altra parte dell’universo cosa fa Dio mentre l’uomo umilmente prega e attende a mani tese? Prega anche lui, dice Neher, alla luce di un midrash. E si viene pure a sapere cosa dice in concreto Dio nella sua preghiera: “Che la mia volontà sparga la Grazia su tutti i Miei attributi!” (Berakhot, 7a).

Ma chi c’è ad ascoltare la preghiera di Dio? Nessuno, Dio è solo e “la sua preghiera la rivolge solo a se stesso”. Ma questo nulla toglie al carattere di tale preghiera, perché anche la preghiera di Dio è “volontà pura, tensione, desiderio (…). Con tutte le sue forze tese Dio vuole il Bene, ma non può che volerlo”. Ed è proprio per questo che Dio “non ha più niente in comune con l’immutabile, l’indifferente, l’insensibile, il rigoroso e meccanico Dio dei filosofi (…). Precisando che Dio prega – dice ancora Neher – il midrash scopre l’essenza di Dio nella sua solitudine e nella sua parziale impotenza”.

Di più. “Dio che prega e l’uomo che prega sono così infinitamente separati dal vuoto dell’universo che non si scorgono: Dio torce il Volto; l’uomo nasconde il suo. Non vi è preghiera più tipica di Dio di quella in cui, rifiutando a Mosè il suo Volto, non gli scopre che le sue Spalle. E il momento culminante della preghiera ebraica”, è quando “l’uomo nasconde il volto e vela il viso. Ed entrambi sono perdutamente alla ricerca del dono e dell’accoglimento: la loro preghiera comune, ma separata, attesta che ne provano il bisogno”. Ed è qui che si capisce bene come non solo l’uomo ha bisogno di essere benedetto da Dio, ma anche Dio di essere benedetto dall’uomo.

E c’è, di seguito, un passaggio straordinario: “I monologhi paralleli della preghiera, che isolano Dio e l’uomo respingendoli ciascuno nello slancio di una tensione inappagata, si tramutano in dialoghi della benedizione”, all’interno dei quali uno desidera la benedizione dell’altro. “La berakahah (la benedizione) – dice ancora Neher – è l’incontro di Dio e dell’uomo attraverso la loro solitudine; la messa in comune di ciò di cui hanno bisogno perché il loro rispettivo Essere non sia solo intravisto nella nostalgia di un desiderio, ma realizzato nella pienezza di un compimento” (p.146-148).

Non assume qui tutto il significato la lotta di Giacobbe con Dio con l’intento di carpirgli la benedizione? Non è gioia quella di Dio, gioia di Padre che desidera essere vinto dal figlio per riempirlo di benedizione, di vita, di promesse e di grazia?

L’obbedienza della fede - quella fede che ci permette di insistere fino allo sfinimento a bussare alla porta di Dio giudice buono e Salvatore, una fede che Gesù stesso temeva di non trovare più sulla terra al suo ritorno (cf Lc 18,1-8) - apre a possibilità inaudite, possibilità solo a Dio possibili.

 

Daniele Garota 

(2. fine)

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