Koinonia Maggio 2017


IL PRESUNTO DATO DELLA SECOLARIZZAZIONE

 

Quando ho iniziato la mia carriera di sociologo della religione, ho semplicemente accettato come valido quello che allora (negli anni Sessanta) era il consenso degli esperti. La secolarizzazione, cioè il declino della religione, era una conseguenza inevitabile della modernità. Va sottolineato che il presunto dato della secolarizzazione era accettato sia da coloro (per lo più persone religiose) che lo condannavano sia da quanti lo identificavano con la razionalità progressiva.

Probabilmente è opportuno, a questo punto, che io esponga la mia posizione religiosa. Non è cambiata in modo significativo dalla mia giovinezza. La definirei un cristianesimo nervoso, nella forma di un luteranesimo teologicamente molto liberale. Lo sviluppo della mia concezione sociologica della religione non ha avuto nulla a che fare con eventuali modifiche teologiche o filosofiche della mia visione del mondo. La maggior parte dei commentatori religiosi della presunta secolarizzazione, me compreso, l’ha considerata un problema serio per la fede, che doveva essere affrontato con onestà. C’è stato infatti un movimento di durata piuttosto breve i cui sostenitori, i cosiddetti teologi della «morte di Dio», accoglievano con favore l’abbandono di qualsiasi concetto di realtà soprannaturale come culmine della fede cristiana. Se mai c’è stata una versione teologica del postino che morde il cane, era quella. Non è durata a lungo.

Mi ci sono voluti molti anni per giungere alla conclusione che la teoria della secolarizzazione era empiricamente insostenibile. Tre esperienze hanno influenzato tale cambiamento di idea. A partire dalla fine degli anni Sessanta, i miei interessi sociologici si concentrarono su quello che veniva chiamato il «Terzo mondo» - prima sull’America Latina, poi sull’Asia e sull’Africa. È impossibile passare un po’ di tempo in quelle società senza essere colpiti dalla loro religiosità diffusa. Inoltre, nello stesso periodo cresceva la cosiddetta controcultura negli Stati Uniti e in Europa. Come mi ha detto una volta un amico, «solo un bigotto è in grado di rilevare con l’olfatto un altro bigotto»: avevo sviluppato un discreto fiuto per i fenomeni religiosi, e l’importanza della religione nell’«Era dell’Acquario» mi colpì fin dall’inizio.

Infine, indipendentemente dalle altre esperienze, entrai in contatto con la comunità evangelicale negli Stati Uniti: una popolazione di grandi dimensioni, e intensamente religiosa, in uno dei paesi più moderni del mondo - un fatto che è difficile interpretare come l’eccezione che conferma la regola. Lentamente e gradualmente, i miei scritti sociologici presero a riflettere il cambiamento del mio punto di vista sulla religione nel mondo contemporaneo. Il percorso è culminato in maniera decisamente rumorosa con il succitato libro che ho curato nel 1999 sulla «desecolarizzazione del mondo».

Un modo di descrivere la teoria della secolarizzazione è presentarla come una visione profondamente eurocentrica del mondo, non solo perché, tra le parti più influenti del mondo, l’Europa è davvero la più fortemente secolarizzata, ma anche perché negli Stati Uniti, e ovunque vi siano individui che hanno ricevuto un’educazione occidentale, il discorso intellettuale più apprezzato è costruito sulla storia delle idee europea. Quando gli studio si di scienze sociali viaggiano, quasi sempre socializzano con persone come loro, come farebbero dei turisti qualunque; i tassisti e gli impiegati dell’hotel non contano. Questo è altrettanto vero in patria; i professori di Harvard non hanno l’abitudine di frequentare le chiese pentecostali degli immigrati brasiliani.

La scienza è spesso citata come la causa principale della secolarizzazione. La comprensione scientifica della realtà emargina, in apparenza, la religione e infine la rende non credibile. È un’interpretazione che non mi ha mai particolarmente impressionato. La maggior parte delle persone oggi è certamente coinvolta nella rivoluzione tecnologica che la scienza moderna ha operato, ma il modo di pensare della gente nella vita quotidiana non è dominato dal ragionamento scientifico. Anch’io un tempo ritenevo che alcuni dei processi fondamentali della modernità - l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la migrazione, l’istruzione - spingessero la religione ai margini o al di fuori dell’assetto istituzionale. E che il pluralismo, come detto nel capitolo precedente, favorisse la secolarizzazione, facendo sì che la religione non fosse più data per scontata.

Era una visione corretta. Però commettevo un errore importante: il pluralismo indebolisce, sì, la certezza religiosa e apre un vasto campo di scelte cognitive e normative da compiere; tuttavia, in gran parte del mondo molte di queste scelte sono religiose. Vorrei collegare questa intuizione con la discussione sul pluralismo condotta nel capitolo precedente. Prima dell’età moderna ci sono stati alcuni casi di pluralismo. Nel mondo moderno, il pluralismo è onnipresente. La modernità non porta necessariamente alla secolarizzazione; dove lo fa, tale sviluppo non può essere dato per scontato, ma deve trovare una spiegazione. La modernità porta necessariamente al pluralismo. Ciò pone alla fede una sfida significativa, diversa però da quella della secolarizzazione.

 

Peter L.Berger

I molti altari della modernità, Emi 2017, pp.53-56

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