Koinonia Maggio 2017


DA UNA FEDE INDOTTA ALLA FEDE ADULTA...

 

Dice Paolo: non mi interessa di conoscere il Gesù secondo la carne. Il Gesù secondo la carne è il Gesù della biografia obiettiva di un uomo vissuto in quel dato tempo, in quell’ambiente, con quella cultura, con quei costumi. Ma che cosa ci sia stato realmente in Gesù, quale sia stata la sua effettiva esistenza, secondo i modi con cui si può ricostruire la cronaca di una esistenza, questo non lo sappiamo. Perché ogni testimonianza che abbiamo su di lui ci viene dalla confessione di fede. I Vangeli non sono la biografia di Gesù. Vita Jesus Christi scribi nequit, la vita di Gesù non può essere scritta. Può essere scritta solo la vita del Gesù storico vista e pensata attraverso l’evento pasquale. Il Gesù storico dunque è quasi irreperibile. Il Gesù storico è un Gesù secondo la carne, ma la verità del Gesù storico è il Gesù nella condizione del mistero pasquale. La condizione del mistero pasquale ci introduce nell’unica via per entrare nel mistero del Gesù storico.

Non possiamo neppure separare il Gesù pasquale dalla fede della comunità, per cui la fede della comunità non è semplicemente il riflesso della Pasqua ma è essa stessa - questa fede - una componente della Pasqua. È in questa visione di Gesù che si allargano i nostri orizzonti per la comprensione del suo mistero. E la comprensione del suo mistero ci porta a comprendere anche il ruolo che ha, nella nostra comunità,. la fede.

Se c’è un problema pastorale teologico di fondo, oggi, nella Chiesa, è una nuova confessione di fede in Gesù Cristo. Perché la confessione di fede nel Gesù pasquale non è legata immobilmente, in maniera materialmente inerte, alla tradizione. La confessione di fede deve avere la varietà, la molteplicità e la dinamica della stessa esperienza storica, perché tutta la storia - passata e futura, come ho detto - è dentro l’alleanza. Il modo quindi di comprendere l’evento pasquale non può che ripetere, con ricchezze sempre nuove, la diversa collocazione dentro il disegno dell’alleanza. Già le comunità primitive, lo sappiamo, confessarono Gesù in modo diverso. La comunità di Gerusalemme usava per lui preferibilmente il titolo di Messia perché la categoria comprensiva della messianicità era il punto nodale dell’intelligenza israelitica. Le comunità di Corinto, del mondo ellenistico, preferivano la categoria Kyrios, Signore, perché il Kyrios era l’imperatore. Questa categoria serviva ad esprimere il dominio che il Gesù della Pasqua aveva ottenuto su tutte le cose, e serviva anche a contestare il dominio dei poteri esistenti in nome di questa potestà del Cristo. Le comunità del Brasile e in genere del Sud America, oggi, chiamano Gesù Liberatore, usano cioè di una categoria legata alla loro esperienza storica. C’è la possibilità di una pluralità di confessioni di fede. Ma qual è la nostra situazione effettiva? Le nostre confessioni di fede sono bloccate, inerti, relitti archeologici. Noi usiamo ancora quella del secolo iv. Non siamo in grado di parlare di Gesù in modo più autentico, perché il vero luogo per una nuova cognizione di Cristo non è né lo studio teologico, né la conferenza, né la meditazione che facciamo: è la comunità, la quale, se è viva, non può appagarsi di una confessione meccanicamente ripetuta. La paràdosis, la traditio è una consegna viva della fede, non è la consegna di un documento diplomatico della fede, che passa da archivio ad archivio. La tradizione curiale ha ucciso la tradizione comunitaria che è la vera garanzia della pluralità.

(La fede dalla fede, pp.66-67)

        

Dentro la comunità noi dobbiamo significare, anche nel nostro modo di comportarci, che il centro dell’unità è Cristo, è la sua parola. Noi ne siamo solo strumenti e segni. Quindi la disciplina della Chiesa deve essere, esplicitamente e non implicitamente e per sottintesi, al servizio dell’unità in Cristo. Che se essa si pone come ragione sufficiente è già «eretica» e fuori dall’unità della Chiesa. Chiunque edifica la Chiesa su altro fondamento che il Cristo, costui è eretico. La Chiesa non è né di Pietro, né di Paolo, né di Apollo ma di Cristo. Dovremmo saper tradurre, con la parola e con la vita, questo principio in termini attuali. Terza dinamica, legata a questa, è la dinamica comunionale. Sappiamo, oggi che ogni comunità è tutta la Chiesa. Un’assemblea di tre attorno all’eucaristia non è una porzione, una agenzia  periferica della Chiesa cattolica, è la Chiesa nel suo essere pieno. Questo principio che sembra assolutizzare il particolare è lo stesso principio che fa obbligo a ogni comunità di stare in comunione con tutte le altre. La comunione inter-comunitaria è un momento essenziale della natura della Chiesa. Aprire la comunità cristiana che tende a chiudersi per le spinte soggiacenti, inconsapevoli o consapevoli, nelle sue opzioni particolaristiche, aprire questa comunità alla comunione con le altre, alla partecipazione e al confronto della fede: questo è un servizio essenziale a che le comunità siano il vero segno del Cristo, e non siano legate all’avventura spirituale di un leader particolare. Ogni carisma è importante ma guai se la comunità si edifica sul carisma di un leader, e non si lega organicamente con le comunità nate dalla medesima fede nel Cristo.

C’è da inventare tutta una metodologia pratica di comunione inter-comunitaria? Ma intanto dov’è il segno di questa comunione?  Il Vescovo è il segno, il garante della comunione tra la comunità. Se il Vescovo fosse il ministro del Signore che serve ed esprime la comunione tra le comunità, allora veramente avremmo la crescita della comunità secondo il Signore. Se il Vescovo si isola da questo rapporto orizzontale, che succede? Che tutti i rapporti della comunità diventano verticali, burocratici e alla fine estranei alla novità del Vangelo. I primi cristiani avevano delle metodologie che potrebbero anche essere rivissute oggi, come il confronto di fede fra comunità e comunità; come il dono dell’eucaristia da una comunità all’altra; come la esposizione dei problemi gravi di una comunità, non di fronte alla istanza autoritaria, isolata, alla maniera di un prefetto o di un capo politico, ma di fronte alle altre comunità perché esse, nel Signore, giudichino. In questo modo la fede rimane apostolica, cioè salda sul fondamento della sua origine e rimane diversa e varia. Non si isola nel settarismo e nel rapido deperimento. Questa è infatti la sanzione di ogni distacco dalla organicità comunionale: il deperimento rapido, dopo lo splendore effimero.

Non ci troviamo, dunque, talmente nel buio da non sapere come spendere la nostra fedeltà al Signore all’interno della Chiesa. Ci troviamo invece nella possibilità di guidare - all’interno di un processo che ci compete e forse ci lacera - un progetto di Chiesa diverso da quello storicamente elaborato, che è ormai alle nostre spalle, e tuttavia costruito sullo stesso fondamento che sono gli apostoli in quanto annunciatori dell’evento pasquale.

(La fede dalla fede, pp.155-56)

.