Koinonia Aprile 2017


VANGELO, QUESTO SCONOSCIUTO

 

Dire che il vangelo è sconosciuto non è tanto perché poco diffuso e letto, e neanche per come viene presentato nella predicazione, quando diventa un pretesto  per parlare d’altro. “Sconosciuto” perché rimane tutto da cogliere  nella sua natura e nella sua apertura al futuro. Non c’è di peggio che pensare di sapere e dare per scontato cosa sia il vangelo e farne un presupposto per imprese varie, che per quanto meritevoli sono altra cosa. Siamo dentro un universo in espansione, che non può essere racchiuso neanche nelle sue espressioni canoniche, che sono già una “glossa” così come “glossa” o interpretazione sono già il messaggio e la testimonianza di Paolo. “Sine glossa” può voler dire non fermarsi alle tante versioni date, ma cercare ancora una volta insieme una nuova comprensione.

Basterebbe pensare a quanto dice in chiusura del suo vangelo il discepolo testimone Giovanni: “Gesù fece molte altre opere: se si scrivessero tutte, una per una, riempirebbero tanti libri. Io penso che neanche il mondo intero potrebbe contenerli” (Gv 21,25). All’aspetto quantitativo va aggiunto quello qualitativo, perché sappiamo che “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future” (Gv 16,13). “Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8, 31-32).

Gli stessi vangeli canonici e tutte le testimonianze neo-testamentarie non sono la sostanza del vangelo, ma già delle variazioni, una prima inculturazione. Si potrebbe dire che sono una lente di ingrandimento per una messa a fuoco, ma da parte nostra ci limitiamo spesso a verificare ed osservare  l’effetto della lente e rimaniamo vittime di un auto-inganno: sapendo che l’ingrandimento è artificio, siamo portati a sottovalutare ciò che ne è l’oggetto, e quanto dovrebbe essere mediazione diventa impedimento.

Ed allora è necessario ripensare che le parole che Gesù ha detto “sono spirito e sono vita” (Gv 6,63), è necessario sperimentare,  grazie a tutte le mediazioni e al di là di esse,  che la “Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). Prima che in tutti gli altri luoghi e forme, essa viene seminata e dimora in noi, in ogni uomo come “semen verbi”. “Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza”(Gc 1,21).

Le parole di chiusura del vangelo di Giovanni si capiscono alla luce di quelle di apertura al capitolo 1: si tratta del vero fatto nuovo del Verbo che era in principio presso  Dio e che si fa carne. Colui per mezzo del quale è stata creata ogni cosa si fa creatura, diventa uomo e viene ad abitare tra gli uomini come uomo nuovo e nuova creazione. Siamo dunque nella linea della creazione, dove l’incarnazione del Verbo investe ogni creatura prima ancora di ogni consapevolezza e adesione personale, salvo restando che una fruizione piena di questo universo nuovo di grazia e verità avviene attraverso la fede: “Alcuni però hanno creduto in lui. A questi Dio ha fatto il dono di diventare figli di Dio” (Gv 1,12).

È forse qui la sostanza viva del vangelo, secondo Giovanni: il Verbo fatto carne  pieno di grazia e verità da cui tutti possiamo attingere. Tutto il suo discorso si sviluppa come progressiva esplicitazione e dilatazione  di questa luce  nuova che le tenebre non possono vincere e che illumina ogni uomo. Nella sua meditazione su quanto ha udito e visto, egli ritrova la fonte di tutto. Diversamente stanno le cose per quanto riguarda vangeli sinottici, in cui “vangelo” è il Regno di Dio, mentre il Figlio dell’uomo è colui che è mandato ad annunciarlo ai poveri. Di conseguenza, Matteo, Marco e Luca si preoccupano di ripercorrere ciò che Gesù “fece e insegnò” al fine di portare a credere al suo vangelo e a lui, qualcosa che per Giovanni ha valore di segno!

Quando Giovanni dice che non basterebbe il mondo  a contenere quanto in proposito di potrebbe dire, forse pensa anche agli altri vangeli, come per dirci che non è strettamente necessario dilungarsi più di tanto nella ricostruzione dei fatti, ma basta quel tanto che induca alla fede, al punto che, se uno crede, “fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” e lo Spirito lo guiderà alla verità tutta intera. Una riprova di ciò è l’apostolo Paolo in persona,  lui che non è un evangelista ma evangelizzatore e banditore del vangelo alle genti, qualcuno che apre ai destinatari della buona novella.

E quando egli afferma che vangelo è “potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” è perché ne ha fatto esperienza su di sé e ne sperimenta la forza davanti alle tante difficoltà che gli si presentano nella sua incessante sollecitudine di far nascere ed edificare chiese come “corpo di Cristo” e incarnazione continua. Anche se non le conosceva, ha sperimentato la verità delle parole di Gesù: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”.

Egli non ha un suo progetto o una sua dottrina da propagandare e con cui farsi valere, ma si fa semplicemente servo e strumento del vangelo potenza e sapienza di Dio – e quindi predicatore di Cristo crocifisso. Sono le situazioni e le circostanze le più diverse a provocare la sua testimonianza ed il suo magistero e ad evidenziare la verità  della Parola di Dio che le abita, per far “conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria” (Col 1,27; cfr 1,24-29). Non a caso egli comunica attraverso “Lettere”, in un rapporto diretto di partecipazione.

Tra la missione affidatagli  da Dio e le attese di salvezza degli uomini, quello che Paolo ci mette di suo è la totale dedizione e il sacrificio di sé per “portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi” (ib. 25-26). Per  questo, possiamo parlare di un vangelo di Paolo, nel senso che attraverso di lui la Parola del vangelo rivela tutte le sue potenzialità e si ramifica tra le genti, dove l’impatto col mondo è coefficiente imprescindibile e dove le leggi della incarnazione e della inculturazione si fanno conoscere.

Se Giovanni esprime una interiorizzazione ecclesiale del vangelo di Dio che risuona nei Sinottici, Paolo rappresenta il primo anello di congiunzione di questo vangelo col mondo, da cui non si può prescindere quando c’è da dare continuità all’annuncio della salvezza: egli fa da apripista per andare nel mondo a fare discepoli tra tutte le genti. Il passaggio dal Regno alla Chiesa non è in perdita se ogni chiesa trova la sua ragion d’essere nella attesa e nella invocazione del Regno.

In ogni caso, sia che si tratti di conversione per Sinottici, di illuminazione per Giovanni (e vide e credette), o di obbedienza della fede per Paolo, “credere al vangelo” è il punto di risoluzione  di ogni attitudine ed attività di ricerca, il punto di partenza e di arrivo (fons et culmen) di ogni analisi verso la sintesi originaria e finale. Come dire che nel credere tutto nasce da un incontro reale di grazia tra soggetti diversi per tornare ad esso come pienezza di comunione; è una alleanza che cresce e vuole portare fino all’intima unione. Le mediazioni ci sono perché alla base c’è già un contatto reale immediato, che ne è la causa e non l’effetto.

“Credere al vangelo”: è il DNA di tutta la vita del Popolo di Dio nella storia ed è la sua risoluzione ultima in termini di alleanza: ci sono gli estremi del rapporto uomo-Dio, che trova la sua manifestazione nel mistero nascosto nei secoli e ora rivelato, “Cristo in noi”. Il “punctum saliens” – ciò che davvero importa -  è nel dare continuità a questo evento salvifico: come starci dentro e farsene strumenti. Il problema principale è forse proprio questo:  come essere creature vive e nuove mediante la fede ad opera dello Spirito Santo  - “Signore e vivificante” -  e come diventare  portatori di vita.

L’espressione “punctum saliens”  - che mi è venuto spontaneo usare – in realtà  rimanda al discorso  di apertura del Concilio che va preso nella sua interezza e si propone come metodo, tanto  che ci viene raccomandato di dare “grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza”. Voglio ripetere qui qualcosa che ho sempre fatto presente, ma senza poter arginare la corrente generale, secondo cui il Concilio si qualificherebbe nei confronti del mondo e della modernità in termini di povertà e misericordia, qualcosa di innegabile ma solo come una faccia della stessa medaglia, quella ad extra.

Il punto in questione riguarda “un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione più viva delle coscienze”, perché “altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la riformulazione del suo rivestimento”. Quello che mi permetto di osservare è che ci siamo preoccupati prevalentemente di riformulazioni e di  rivestimenti, e cioè di plausibilità del depositum fidei, e meno della sua sostanza, data per scontata e immutabile: più della presentazione e delle conseguenze del “credere al vangelo”, che del credere stesso, che ha una sua originaria rilevanza.

E qui si torna alla centralità del “credere al vangelo” come punto di risoluzione e base di edificazione per una rigenerazione  del Popolo di Dio e della comunità dei credenti nel mondo. Di conseguenza diventa il punto  della “predicazione” in senso stretto come via alla fede e come servizio specifico di una chiesa al mondo. E se il credere è relativo al vangelo, sempre al vangelo è relativa la predicazione, che può essere anche diversificata, ma se è sale della terra non può perdere il suo sapore. Si può continuare a parlare di vangelo e pensare che il suo annuncio possa  arrivare ai destinatari per mille altre vie, ad esclusione della predicazione?

Predicare il vangelo è un mandato e un ministero e non attività accessoria e facoltativa, e per quanto coinvolga totalmente le persone è un atto ecclesiale, che non può non lasciar trasparire questa corresponsabilità. Per questo abbiamo spesso parlato di “Casa di predicazione” non tanto come luogo materiale ma come soggetto unitario e comunitario consacrato a questo servizio, che è ragione sufficiente per una scelta e dedizione totale di vita.

 

In questo senso, non sembri presuntuoso se diciamo che è stata sempre questa la nostra ispirazione e aspirazione attraverso temperie e intemperie le più diverse: lo possiamo dire ora con più consapevolezza e libertà, non perché tutto sia compiuto, ma perché l’istanza a cui cerchiamo di rispondere si impone più che mai. Il cuore ci dice ed osiamo infatti pensare che tra noi sia in atto una comunicazione fatta di ricerca e di radicamento nel “credere al vangelo”, di solidarietà verso tutti coloro a cui siamo debitori, di condivisione “verso una penetrazione dottrinale e una formazione più viva delle coscienze”: c’è l’obbedienza della fede, c’è la compassione per le pecore senza pastore, e c’è l’applicazione a dare una struttura di pensiero ad una fede vissuta.

Sono le componenti della predicazione evangelica e le dimensioni  di una “casa della predicazione”, quando questo compito diventa passione e responsabilità condivisa. Che poi tutto ciò sia qualcosa “senza luogo” - e cioè utopia - non toglie nulla alla sua possibilità di viverlo anche in diaspora!

 

Alberto Bruno Simoni op

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