Koinonia Aprile 2017


Trasformare ogni lettura dei Vangeli

in un viaggio di scoperta

e in una scommessa col mistero

 

I VANGELI COME LETTERATURA

 

Allorché vennero scritti i Vangeli il mondo greco non conosceva nulla di simile all’arte narrativa: l’epos, morto da molti secoli, era ormai solo oggetto d’esercitazioni erudite, e il gracile fiore del romanzo amoroso stava appena sbocciando. Alquanto diversa era la situazione nel mondo latino, dove era recente il tentativo di far rinascere l’epos e in piena auge la storia. Ma anche in questo caso si trattava di opere create in base a rigide premesse letterarie e alle regole retoriche che presiedevano a ciascun genere, e destinate a cerchie assai ristrette di lettori colti.

Coi Vangeli, la narrativa entra nella storia, e vi entra come narrazione della vita d’un uomo al livello della realtà, narrazione in forme realistiche e a respiro popolare destinata al più largo pubblico possibile. Secoli di lettura prevalentemente religiosa ci hanno fatto quasi dimenticare che i quattro Vangeli erano anzitutto racconti. E racconti non d’invenzione, perché chi li scriveva intendeva tenersi il  più possibile al criterio del vero, non obbedienti alle regole d’un genere letterario che pel momento non esisteva, ignari dei criteri della convenienza e del decorum che non consentivano di trattare in opere serie personaggi di bassa estrazione e di mettere alla pari personaggi «bassi» e personaggi «elevati», e scritti in prosa, quando la «narrativa» creata fino allora era stata tutta in versi, e scritti in un linguaggio parlato e popolare. Gli autori erano  indifferenti alle convenzioni che volevano stili distinti a seconda della qualità e del livello degli argomenti, e incuranti delle stesse norme retoriche che presiedevano alla storiografia, l’unico genere che in qualche misura vi si potesse avvicinare: racconti composti insomma con una libertà che avrebbe acquistata soltanto il romanzo, ma molti e molti secoli più tardi.

Si trattava, a ben pensarci, d’una vera e propria svolta letteraria in virtù della quale - per ripetermi - la narrativa entrava nella storia, e vi entrava come arte del vero e come arte popolare, e forte d’una libertà che la letteratura fino a quel momento non aveva mai conosciuta, e forte d’un realismo che le consentiva di ripetere i fatti col linguaggio dei fatti, e di far parlare i personaggi nella loro lingua quotidiana, e di riferire un evento tragico, quale la morte di Gesù,  senza gonfiare le gote e piuttosto spegnendo i toni per farne emergere la veridicità. Se potessimo applicare la distinzione tra scrittori di cose e scrittori di parole venuta in auge più tardi, dovremmo collocare gli evangelisti tra gli scrittori di cose. E chi avesse dei dubbi intorno alla portata letteraria delle novità da loro introdotte, provi a dire se c’è, in tutta la letteratura precedente, un solo dialogo che abbia l’immediatezza e il sapore di verità dei dialoghi dei Vangeli; oppure confronti il discorso di Didone sul rogo con le parole pronunziate da Gesù sulla croce e provi a immaginarsi cosa sarebbe diventata la morte di Gesù in mano a un tragico greco o a Virgilio. Certo è che coi Vangeli entra fortissimo nella letteratura il sentimento del quotidiano, e vi entra in forme e con un’estensione che assai di rado l’arte dello scrivere, anche molto più tardi, avrebbe saputo raggiungere, e con un coraggio della realtà e una sanzione realistica - o, se si preferisce, una naturalezza - che sembra escludere, da parte degli autori, ogni arbitrio inventivo, ogni intervento dell’immaginazione, e in virtù della quale perfino i miracoli rientrano nella logica del verosimile e del credibile. Se non ci fossero altre ragioni per distinguere gli Apocrifi dai Vangeli canonici, basterebbero delle semplici considerazioni letterarie: il ridursi delle cifre realistiche, l’indulgere ad abbellimenti esterni, l’introdursi del leggendario in forme espressive e narrative che sanno d’invenzione. Allo stesso modo, se non ci fossero ragioni ben più alte per spiegarci l’efficacia immediata dei Vangeli, sarebbero quasi sufficienti delle ragioni letterarie: l’effetto cioè di choc che ebbe l’avvento di questa così nuova forma narrativa che rompendo il chiuso recinto degli istituti letterari parlava nei modi della naturalezza e col linguaggio delle cose, e si mostrava capace di parlare all’uomo colto come allo schiavo e di commuovere e coinvolgere l’ascoltatore come solo può fare una narrazione che anche espressivamente abbia il prestigio della verità.

Ma coi Vangeli entrava anche in scena un personaggio di portata straordinaria. Quando apparve il personaggio di Gesù (e dico personaggio nel senso proprio di protagonista d’un’opera letteraria) era da tempo esaurito il ciclo dei vari Achille e Prometeo, degli Oreste, degli Enea; e si sarebbero dovuti aspettare di nuovo mille anni per riavere, con Orlando, un personaggio che gli si avvicinasse per il risalto poetico e la capacità d’ispirare scrittori diversi, e addirittura interi cicli. Non so se si sia mai abbastanza riflettuto intorno a questa caratteristica del personaggio di Gesù: esso è della stessa razza dei Prometeo e delle Elettra, degli Orlando e dei Faust, a esaurire i quali non è bastato un solo libro, ma al contrario, tale era la loro forza di stimolo, sono occorse intere generazioni di scrittori. Solo che, se Gesù è personaggio di quella razza, lo è in misura più estesa e più completa, sia perché, se si dovessero contare le opere letterarie (e non parliamo delle saggistiche, né di quelle d’altre arti) che in questi venti secoli vi si sono ispirate, non si finirebbe tanto presto, sia perché fin dalle origini, in meno di cinquant’anni, il suo mito appare già fatto. In questo senso i quattro Vangeli sono un esempio perfetto, e storicamente singolare, di formazione d’un ciclo letterario:  quattro libri che presentano quattro versioni parallele e insieme autonome d’un medesimo personaggio, quattro maniere di sentirlo, di intenderlo, di narrarlo, quattro variazioni su un unico tema che, riprendendo ciascuna e in pari tempo arricchendo quel che è detto dall’altra, contribuiscono alla formazione di quel potente blocco poetico che è il personaggio del Cristo Gesù. A un’analisi delle varianti del personaggio  da libro a libro avremmo la sorpresa di scoprire anche la tensione, magari inconsapevole, di ciascun evangelista verso possibilità poetiche trascurate dall’altro.

 

Il caso però è, singolare anche per un altro verso: che il Cristo Gesù è personaggio della realtà, non è creatura del mito o dell’immaginazione. E allora accade, per questo e per altro, che sia esso a ritrarre a sé lo scrittore: non se ne lascia assoggettare, al contrario, lo assoggetta, riduce al minimo i margini della sua libertà inventiva, esige da lui le misure della testimonianza e della verità, gli preclude ogni strada alle avventure dell’immaginazione. Di qui la potente oggettività dei Vangeli e di nuovo il realismo e la riuscita in un metodo che i narratori realisti hanno sempre inseguito riuscendovi così di rado: il metodo dell’impersonalità.

 

È curioso, ed è anche questo un caso unico: quello di un uomo che si dice Dio, e intanto viene reso nel segno della concretezza, col linguaggio del quotidiano e nei modi del più sommesso e disadorno oggettivismo. Ne viene una situazione estetica straordinaria e un sapore di «verità poetica» nel pieno senso dell’espressione, che nessun’opera scritta fino a quel momento aveva posseduto in ugual misura, e che ci vorranno dodici secoli per raggiungere nuovamente. Solo Dante mostrerà di capire di nuovo la lezione letteraria dei Vangeli.

Ma il personaggio di Gesù fa di più: in quanto essere della realtà che esige testimonianza, fa sì che lo scrittore estenda il metodo dell’impersonalità fino a scomparire veramente dietro di lui, a lasciarlo parlare il più possibile con le sue parole stesse. E anche questa era una novità, perché fino allora non esisteva una simile disposizione di fronte al personaggio. Perfino lo storiografo, e perfino quando aveva a disposizione documenti autentici, gli attribuiva parole e interi discorsi di propria invenzione, riatteggiava insomma il personaggio, in molti casi lo sorpassava: gli uomini politici descritti da Tucidide o da Livio non furono certo così perfetti né parlarono forse mai con tale pienezza. In tal senso anche il Socrate degli scritti di Platone oltrepassò sicuramente il Socrate della realtà. Nei Vangeli, al contrario, il rapporto è invertito, si sente ovunque che la reale personalità di Gesù resta superiore e non riducibile alla letteratura che lo concerne.

Da quel che delle parole pronunziate da Gesù ci viene riferito attraverso le pagine dei Vangeli, si ha come l’impressione d’essere di fronte a una testimonianza minore e frammentaria d’un discorso ben maggiore; si sente comunque che gli evangelisti, salvo forse, in parte, Giovanni, sono in umile atteggiamento d’ascolto, tesi solo a ricordare e custodire quanto più fedelmente ciò che Gesù ha effettivamente detto, comportandosi talora addirittura come chi non intende appieno un’espressione, ma non s’azzarda a modificarla. Così la realtà, l’effettivamente accaduto e detto, entrano nella letteratura anche per un’altra porta. Ma quale realtà? Sono i loghia, le parole, i discorsi di Gesù, e per effetto di essi si verifica un’altra delle sconcertanti novità letterarie dei Vangeli: su un piano narrativo dimesso e popolare emergono discorsi che senza distaccarsene quanto a tonalità stilistiche e movenze sintattiche, risultano di straordinaria densità e pregnanza, parole che in una lingua quotidiana e disadorna straripano di significati, parole insomma che per effetto della inusitata intensificazione semantica che hanno subita posseggono in pari tempo la persuasività dell’evidenza e la vibrazione indefinita del mistero.

Si tratta come d’una continua eccedenza del senso rispetto al suono, che è il correlativo dell’eccedenza del personaggio di Gesù rispetto agli autori che scrivono di lui. Certo è che il linguaggio usato da Gesù è un vero miracolo espressivo: non è riportabile a tradizioni, nemmeno a quella dell’Antico Testamento, nasce fuori d’ogni buona regola letteraria, sfugge a ogni definizione, non è riducibile al nostro metro - come se il linguaggio nostro non fosse riuscito a contenerlo intero - soprattutto non è imitabile. Chiunque ha cercato, dagli Apocrifi in poi, di rifare il verso a Gesù, è uscito soltanto in goffi balbettamenti. Ma se il criterio dell’inimitabilità vale a distinguere la grande poesia, esso lo è in sommo grado.

 

Insieme con Gesù entrava in scena un altro protagonista finora inedito: il mondo popolare. La scoperta del mondo popolare come oggetto di rappresentazione al livello del serio e non più solo del comico o nel grottesco (come accadeva ad esempio nell’antica commedia) è un’altra delle novità letterarie dei Vangeli. In questo senso è stato benissimo detto che essi rappresentano «quanto non era stato mai rappresentato né dalla poesia né dalla storiografia antica: la nascita d’un movimento spirituale nella profondità della vita spirituale del popolo, che con ciò acquista un’importanza mai prima raggiunta» (Auerbach). E popolo sono i discepoli che accompagnano Gesù, popolo gli uomini e le donne con cui discorre, popolo la folla che lo contorna, che s’esalta di lui o che lo vuole morto. Ed è tutto un fondo umano inesplorato finora dall’arte che emerge acquistando voce propria, che soffre passioni e vive drammi mai prima rappresentati in un seguito ora di movimenti psicologici di massa, ora di situazioni d’altissima presa, i quali escludendo oltre tutto ogni tentazione agiografica, come al solito danno in misure d’inconsueta verità poetica. E basterebbe per questo pensare alle figure dei tre discepoli che fanno da sfondo all’episodio dell’Orto degli ulivi, o ricordare la scena del rinnegamento di Pietro, che nelle succinte misure realistiche proprie dei Vangeli lascia emergere un dramma psicologico altissimo e «un ritratto d’uomo nel senso più sublime, profondo e tragico». Si provi a rileggere le due scene, l’una nella versione di Matteo, l’altra nella versione di Marco, e si dica se esse non suscitano le emozioni di cui sola è capace la grande poesia, e se soprattutto non hanno, come solo questa ha, quel carattere di necessità espressiva che rende impensabile ogni abbellimento e ogni aggiunta.

Ma la scena dell’Orto degli ulivi, con Gesù che soffre angoscia, suggerisce anche’ un’altra osservazione: in questo e in altri casi il criterio del vero ha sbarrato la strada a ogni  agiografismo, a ogni soluzione di maniera, a ogni espediente da «vite di santi». L’agiografismo, checché se ne pensi, è sconosciuto ai Vangeli,  i quali creano personaggi, non modelli di perfezione, tanto meno categorie morali. Negli anni in cui venivano composti i Vangeli, Plutarco s’accingeva a creare con le sue Vite parallele una serie d’eroi categoriali, archetipi, modelli tipologici, incarnazioni ciascuno della sua propria virtù. Nulla di più distante dai metodi degli evangelisti. Al confronto non solo le figure minori del Vangelo non hanno nulla di tipico o di categorico, sono invece persone di sfumata e contraddittoria umanità, ma lo stesso Gesù nasce senza piedistallo. Ma soprattutto è personaggio aperto, políverso, mal definibile, non classificabile, al limite un enigma: e un enigma che non scaturisce solo dalla sua statura o dall’ampiezza d’un messaggio che quattro testimonianze diverse non sono riuscite a esaurire, o dalla ricchezza delle varianti introdotte dai vari Vangeli e che hanno moltiplicato i «punti di vista» intorno a lui (e in effetti di grado in grado le differenze tra il Gesù di Marco e quello di Giovanni si fanno sostanziose), o da una oggettività che costringe gli evangelisti ad aggirarvisi come intorno a un mistero che non osano penetrare (e in effetti sanno di lui solo ciò che egli dice di sé), ma dalla sua imprevedibilità in quanto personaggio: tenero e forte, delicato e fiero, vigoroso e sofferente, imperioso e insicuro, sconcertante comunque: e si potrebbe continuare senza aver mai finito.

Del resto in venti secoli non si è mai finito. Il fatto è (a riportare le cose in termini letterari) che Gesù è personaggio che non è, ma si fa, non è una «biografia» al modo di Plutarco, ma una «vita», con l’enorme complessità d’una vita di cui quattro scrittori diversi, ciascuno a suo modo, si sforzano di scrutare il senso, riuscendo soltanto a descriverne il divenire. Vero prototipo, in ciò, dei personaggi da grande narrativa, non si lascia «costruire», ma prende esso per mano lo scrittore guidandolo attraverso le varie fasi d’una esistenza abbandonata al suo movimento, al suo continuo arricchirsi e diversificarsi e perfino contraddirsi. E contraddittoria comunque, agli occhi umani, è l’esistenza d’un uomo che si dice Dio e viene per morire: e tale dunque che l’evangelista ne può esprimere al più alto grado il livello tragico, ma secondo i modi d’un’obiettività che sfiora lo stupore. Così resta vicenda aperta e, letterariamente parlando, un nodo tragico che ha l’insondabilità e la ricchezza di fondi semantici di poche altre situazioni tragiche: solo quelle di Edipo e di Amleto si prestano ad altrettante possibilità di lettura o suscitano altrettante inquietudini. Con la differenza d’un movimento estetico (e quindi d’un’emozione estetica) meno regolamentato, meno stretto alle consuetudini letterarie, meno preoccupato del proprio effetto, e perciò più libero, più mosso, più polisenso: la stessa impressione di «non finito» di ciascun Vangelo ci coinvolge e ci stimola come non fanno tante altre opere letterariamente più finite. E con quest’altra differenza: che nella misura in cui un autore può conoscere il personaggio da lui creato, Sofocle e Shakespeare sembrano conoscere, essi almeno, Edipo ed Amleto, mentre gli evangelisti, letterariamente parlando, sembrano essere di fronte a Gesù nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: «Ma voi chi dite che io sia?». È la situazione nella quale collocano il lettore: con il risultato di trasformare ogni lettura dei Vangeli in un viaggio di scoperta e in una scommessa col mistero.

 

Mario Pomilio

in Scritti Cristiani, pp.103-111

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