Koinonia Aprile 2017


LA DEFINIZIONE FONDAMENTALE: ROM 1,16-17

 

Nella Lettera ai Romani, dopo aver dichiarato di essere al servizio del «vangelo di Dio» (1,1) inteso come «vangelo del Figlio suo» (1,9) e di esser pronto ad «annunciare il vangelo» a Roma (1,15), Paolo offre una definizione formale dell’euanghélion, unica nel suo genere, che prescinde dal suo contenuto ma ne evidenzia le caratteristiche di fondo:

 

«16Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come per il Greco. 17 In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: “il giusto per fede vivrà”» (1,16-17).

 

Come si vede, il termine «vangelo» si presenta qui in forma assoluta, senza alcuna specificazione di genitivo o di aggettivo. Quando Paolo scrive questa lettera ha ormai alle spalle lunghi anni di evangelizzazione e anche di riflessione sulla sua natura, come si deduce da ciò che scrive ‘altrove su «la parola di Dio ascoltata» (1 Tes 2,13) su «la parola della croce» (1 Cor 1,18) e su «la parola della riconciliazione» (2Cor 5,17-21). Ma mai altrove l’Apostolo impernia una frase attorno a questo concetto in forma così secca e mai altrove egli dà dell’evangelo una definizione così densa, nitida e  incisiva. Il termine qui comporta una dimensione di tipo dinamico-attivo, data la contiguità e quindi il nesso strettissimo con il verbo «annunciare il vangelo» che chiude il versetto precedente. La contiguità testuale diventa perciò contiguità semantica, cosicché il sostantivo vuole semplicemente spiegare quale sia la inaudita portata dell’azione che quello suggerisce, sicché è la dimensione dell’azione implicita nel verbo a condizionare il senso del sostantivo. In primo piano qui non sta ciò che va annunciato, bensì l’annuncio nel suo compiersi; non il messaggio in sé, ma la sua notificazione. Pur sulla base di un presupposto contenutistico unico nel suo genere, l’Apostolo pensa dunque all’evangelo non come dottrina ma come evento di comunicazione, cioè alla predicazione attiva, al fatto della evangelizzazione. Analogamente, quando egli rivendica di fronte ai Corinzi di averli generati attraverso l’evangelo (cf. 1 Cor 4,15), non fa che ricordare loro un evento, quello fondamentale della loro rinascita in Cristo avvenuta mediante l’annuncio attivo da parte sua.

È precisamente di questo evangelo che l’Apostolo scrive di non provare vergogna alcuna. La formulazione negativa della frase non deve però trarre in inganno, quasi evocasse una portata psicologica, come se Paolo volesse negare ad ogni costo e rimuovere da sé a livello conscio un disagio o un imbarazzo che proverebbe a livello inconscio. Qualche commentatore attira l’attenzione su di un possibile parallelismo con il testo di Mc 8,38 / Lc 9,26 («Chi si vergognasse di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre suo»). Certo la protesta paolina «Non mi vergogno» ha una componente di forte spiritualità, fatta di decisa responsabilità missionaria, compresa forse una componente emotiva, che implica insieme vanto e dedizione. E tuttavia sarebbe ancora poco intendere la frase nel senso di essere completamente votato al vangelo. In ballo piuttosto c’è la qualità oggettiva dell’evangelo stesso, a cui l’Apostolo attribuisce ogni merito. Se Paolo non si vergogna di esso, non è primariamente perché egli abbia la forza sufficiente per annunciarlo a chiunque senza guardare in faccia nessuno; piuttosto, è perché l’evangelo stesso gli dà la garanzia che ne vale la pena: proprio l’evangelo è il vero motivo della fierezza di Paolo, perché esso è impastato dei grandi valori della potenza, della salvezza, e della giustizia di Dio. Sono questi suoi costitutivi di fondo a fame un tesoro, che l’Apostolo sa di aver avuto in consegna per distribuirlo a tutti (cf. 1 Cor 4,1); è di questo capitale che egli va fiero, anche se sa di conservarlo in fragili vasi di argilla (cf. 2Cor 4,7: «Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la sua straordinaria potenza viene da Dio e non da noi»).

In effetti, la definizione dell’evangelo inizia subito con il concetto di «potenza di Dio». La qualifica dell’evangelo come «potenza» è un dato originale, dato che nella grecità essa è legata agli interventi prodigiosi di un dio o di un eroe; nell’Antico Testamento invece la potenza di Dio è anche collegata con la sua parola, e in questo caso i contesti riguardano sia la creazione (cf. Gen 1,3; Sal 147,15) sia la storia (cf. Is 55,10-11; Sap 18,14-16). Il nostro testo ha il suo parallelo più evidente in un altro passo dell’Apostolo: «La parola della croce per coloro che si perdono è stoltezza, ma per coloro che si salvano, per noi, è potenza di Dio» (1 Cor 1,18). Dall’accostamento risulta chiaro che l’evangelo di Rom 1,16 corrisponde alla parola della croce di 1 Cor 1,18, ma il testo della Lettera ai Romani evidenzia maggiormente la dimensione di parola propria dell’evangelo, che invece 1 Cor specifica con la menzione della croce (di Cristo). In entrambi i casi però è la potenza di Dio ad emergere come fattore decisivo in un evento di comunicazione. Una cosa è certa: Paolo non connette mai il concetto di «potenza» né con la croce né con il sangue né con la morte né con il sacrificio di Cristo! Diverso è il caso della sua risurrezione (cf. 1 Cor 6,14; 2Cor 13,4; anche Rom 6,4) e, appunto, dell’annuncio dell’evangelo. La conclusione che se ne trae è che nell’annuncio evangelico Dio interviene con la sua potenza in modo analogo a ciò che ha compiuto nella ‘risuscitazione’ del Crocifisso.

 

Romano Penna

Vangelo, Cittadella Editrice, 2014, pp.58-60

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