Koinonia Aprile 2017


ALLA RICERCA DEL “QUINTO EVANGELIO”

DI MARIO POMILIO

 

Nasce ad Orsogna (Chieti) nel 1921 e muore a Napoli nel 1990.

Dopo aver studiato alla Scuola Normale di Pisa è professore di Liceo ad Avezzano e a Napoli. Esordisce nella narrativa con il romanzo L’uccello della cupola (1954), il cui motivo di fondo è il problema del bene e del male in rapporto con la fede. Si evidenzia fin da ora la predilezione di Pomilio per argomenti drammatici o realistici, trattati con un sentimento cristiano amaramente pessimista, come ne Il testimone (1956) e La compromissione (1965), uno dei libri più interessanti degli anni sessanta, descrizione dell’avventura interiore di un’intera generazione che, uscita dalla seconda guerra mondiale con tante illusioni e attese, si ritrova incerta davanti al bivio del marxismo e del cattolicesimo, ed esposta ben presto alla disillusione ed al compromesso.

Dieci anni dopo esce Il quinto evangelio (1975), il libro di Pomilio che ha avuto maggiore risonanza europea, ottenendo il “Premio Napoli”, il “Prix Raimond Queneau du meilleur livre étranger” a Parigi (1978) e il premio “Pax” a Varsavia (1979). La condizione spirituale da cui nasce quest’opera è stata senz’altro influenzata dalla lettura di S.Agostino, di Pascal, di Simone Weil - quest’ultima in particolare meditata a lungo: l’ansia di Dio, la riscoperta del Cristo, la fede come vita, la vita come missione. Si tratta di un libro che esula dai modelli tradizionali e non si lascia catalogare in nessun “genere” letterario: “frutto di un ripensamento radicale - afferma lo stesso Pomilio - che ha investito molte cose insieme, a cominciare dal problema del romanzo, dal come narrare e addirittura dal che cosa narrare”. La materia proviene da fonti diverse, nostrane e no, colte e popolari, da documenti pubblici e da carteggi privati, ma molto più spesso è opera di fantasia. Infatti l’essenza della poetica di Pomilio, come egli stesso chiarì nel corso di un dibattito pubblico, consiste nell’”utilizzare l’immaginazione per forzare il documento e costringerlo a manifestarsi, a rivelare le sue pieghe nascoste; partire dalle realtà documentate per farne sprizzare, attraverso un’aggiunta di fantasia, la verità”. Così, in un libero gioco di verità e di invenzione, di utilizzazione di documenti reali e di fonti immaginarie, la potenza creatrice della fantasia trova espressione nelle immagini e la prosa finisce col tendere alla poesia e la finzione diviene più forte, più autentica del vero oggettivo. Infatti il Quinto evangelio prende l’avvio da un motivo di carattere realistico, ma ben presto muta di tono e si sviluppa su due piani, quello letterale e quello allegorico: nel 1945, tra le rovine di Colonia, Thomas Bergin, uno studioso americano trova tracce relative all’esistenza di un quinto vangelo inedito e da allora dedica tutta la vita alla sua ricerca, senza trovarlo, ma scoprendone moltissime tracce: versetti non contenuti nei Vangeli canonici, novelle, leggende popolari, epigrafi, documenti d’archivio, testi di mistici e di teologi. Lo colpisce soprattutto il fatto che in ogni secolo ci sono stati uomini (santi, eretici, credenti, non credenti) che come lui hanno speso la vita in questa ricerca. Alla fine, gravemente ammalato, invia  al segretario della Pontificia Commissione Biblica buona parte del materiale raccolto - che nel suo insieme configura l’intera storia del Cristianesimo - nella convinzione che ogni generazione deve scrivere un suo Vangelo, cioè riprodurre in modo inedito il volto di Cristo, diffidando degli atteggiamenti passivi, della fede facile, di tutto ciò che si accetta supinamente.

Il significato ultimo della ricerca di Bergin, trasformatasi a poco a poco da storica in religiosa, e del probabile passaggio dello studioso dall’agnosticismo alla fede,  è riposto nella conclusione di una novelletta medievale da lui trascritta e conservata gelosamente: Un uomo andava pellegrino cercando il quinto evangelio. Lo venne a sapere un santo vescovo e, per l’affetto di averlo veduto vecchio e stanco, gli mandò a dire queste parole: “Procura di incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio”.

Romanzo provocatorio, da diversi punti di vista: innanzitutto nei confronti della letteratura italiana del tempo, appiattita in una dimensione unicamente orizzontale, nella presunzione che il dato religioso non possa fornire spunti narrativi. Provocatorio, poi, nei confronti della Chiesa, chiamata a superare le tentazioni del dogmatismo, dell’autoritarismo e dei compromessi con il potere. Infine, provocatorio nei confronti dei tanti cristiani amorfi, dimentichi del fatto che il Vangelo è continua conversione, lotta, testimonianza.

 

Continuazione ideale del Quinto evangelio è Il Natale del 1833, altro romanzo dal taglio originalissimo, in cui Pomilio trae spunto dall’ultimo degli Inni Sacri di Alessandro Manzoni, rimasto incompiuto, per una profonda meditazione intorno al mistero della sofferenza. Dopo la morte della moglie e della figlia primogenita, Manzoni - che si definisce “uomo terribilmente visitato da Dio” - si pone una serie di interrogativi angosciosi: perché il dolore nel mondo, se c’è Dio? Perché la “disperante oscurità dei disegni di Dio”? Come è possibile credere che la Provvidenza agisca nella storia, quando vediamo che la giustizia è continuamente calpestata? Perché Dio vuole il “perpetuo olocausto dei buoni”? È una bestemmia chiedersi se il dolore non dimostri la sconfitta di Dio, piuttosto che la sua volontà? Nell’ultima pagina del romanzo c’è la risposta - sublime e misteriosa - della fede: “Ma la storia delle vittime è di per sé la storia di Dio... perché ogni qual volta un innocente è chiamato a soffrire, egli recita la Passione. Che dico, recitare? Egli è la Passione: non nel senso, beninteso, che il Signore voglia rinnovato in lui il proprio sacrificio, ma nel senso che è Egli stesso a crocifiggersi con lui. Potrà parervi disperante questo Dio disarmato. E invece che cosa c’è, riflettendoci bene, di più consolante che questa solidarietà non di forze e di giustizia, ma di compassione e d’amore? E in verità è questo, semplicemente, amico mio: la croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno; e il dolore di ciascuno è la croce di Dio”.

Ecco quindi che gli interrogativi trovano una risposta: Gesù Cristo condivide la nostra sofferenza; non è venuto per spiegarla, ma per riempirla della sua presenza, per viverla personalmente e trasfigurarla. Nel Crocifisso la sofferenza non è più ingiustizia e assurdità, ma dilatazione della redenzione. In questa theologia crucis Pomilio si pone sulla scia di Bonhoeffer, di Bernanos, di Simone Weil, interprete, come loro, di una “attesa di Dio” che impegna il pensiero e il cuore dell’uomo.

 

Giovanna Mori

 

 

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Contemporanei al Quinto evangelio, o di poco posteriori sono i saggi raccolti negli Scritti cristiani (1979), che affrontano la letteratura, la filosofia, il cristianesimo e rispecchiano una “lettura cristiana” del mondo, prospettando l’immagine di una Chiesa in riflessione, volta alla ricerca, per gradi e su piani diversi, della verità umana e spirituale. Ne riportiamo un passo significativo.

 

Altra volta a chi scrive è accaduto di dire, metaforicamente, che a ciascuna generazione spetta scrivere un suo vangelo. Il che, se nel campo pratico può servire a designare le opere che compiamo per attenerci ai precetti di Gesù, in sede teoretica raffigura, credo, abbastanza quel tanto d’insonne che proviene al cristiano dal contatto con la parola di Gesù e dalla sua percezione che ogni sforzo per penetrarla non fa che dimostrarne da un lato la capacità di restare contemporanea a chiunque vi si avvicina, il suo riproporsi sempre nuovo, dall’altro l’inesauribilità. Evitando cioè di dirci esplicitamente chi, secondo loro, era Gesù, non bloccando la fede a risposte “certe”, rinunziando insomma a proporci una verità bell’e fatta e offrendocela anzi come in fieri, o come in crescita (com’è del resto in crescita il discorso cristologico dal Vangelo di san Marco a quello di san Giovanni), ci hanno consegnati, parole di Gesù alla mano, a un destino d’eterni interroganti - il contrario della disposizione dommatica che si suole, dagli avversari, attribuire ai cristiani. Ed è vero bensì che una volta almeno all’interno dei Vangeli una risposta “certa” c’è, ed è nell’episodio della cosiddetta professione di fede di Pietro, l’unico caso forse in cui all’interno dei sinottici si dichiara esplicitamente, formalmente chi è Gesù (occorre appena ricordarlo: Gesù che domanda: “Ma voi chi dite che io sia?”, e Pietro che risponde: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente”). Ma è anche vero che tra domanda e risposta c’è di mezzo uno spazio immenso - lo spazio stesso del mistero - che è diventato il libero campo dell’interrogazione del cristiano. Ma l’episodio è importante anche per un altro verso: perché, rovesciando la norma cui i Vangeli si attengono solitamente, di farci intuire chi è Gesù soltanto attraverso le sue parole stesse, si affida a un uomo, a Pietro appunto, di pronunziare le parole più salienti e decisive intorno all’effettiva identità di Gesù: un fatto così straordinario, e talmente carico di significato, che ha deciso nei secoli del modo d’essere nella fede e della condizione del cristiano. Tanto più che, paradossalmente, in quell’episodio è importante la domanda almeno quanto la risposta: perché, sì, confessare il Cristo nel modo usato da san Pietro rappresenta una condizione senza la quale non ha senso professarsi cristiani, ma intanto il “Voi chi dite che io sia?” resta piantato là e continua a risuonare anche per noi, chiamandoci a collaborare al discorso della fede, chiedendoci che siamo noi a pronunciarci su chi è Gesù, invitandoci insomma a diffidare degli atteggiamenti passivi, della fede facile, dell’accettato supinamente.

È una specie, per dir così, di delega della Parola (che è poi il corrispettivo della nostra libertà) senza la quale non si spiegherebbe la vicenda stessa dell’anima cristiana, con le sue punte mistiche, le sue mille filosofie e quant’altro l’ha resa mobile e fervida, dal momento che essa ha come trasformato la Rivelazione in un evento perpetuo e il problema della fedeltà al messaggio dei Vangeli in quello del suo continuo reinveramento. E in effetti, da quando vennero pronunziate quelle parole, è stato un ricominciare sempre da capo, in bilico tra il considerare la verità tutta nota e rivelata e il trattarla come un conto aperto, perennemente verificabile, e secondo i modi d’una ricerca e un destino d’inquietudine che hanno segnato i due millenni di storia del Cristianesimo

E che tuttora ci coinvolge. A osservare il mondo cristiano d’oggi potranno colpire dolorosamente i fenomeni di crisi che lo attraversano. Ma ad andare oltre la superficie schiumosa e contrastata, si fa presto a scoprire che ciò che più lo caratterizza è la centralità e direi la crescita del discorso cristologico. Più che mai il Cristo sollecita con la sua domanda di sempre. E si ripete, in virtù di essa, non solo la ricerca d’una nuova autenticità di vita, ma l’infrazione degli schemi, delle prospettive codificate; emerge di nuovo la sollecitazione alla verifica, l’invito alla mobilitazione delle coscienze, la negazione di ciò ch’è fermo, di ciò che s’è sclerotizzato. Ma è naturale: al modo stesso che il Cristo non è venuto a fondare una legge, ma un modo d’essere in tensione nei confronti di qualsiasi legge, ciò che è proprio della sua Parola - per come, oltre tutto, ci è stata trasmessa la sua Parola - è il quantum di tensione che esige da parte nostra. E se il punto di partenza - o il punto d’arrivo - sarà pur sempre la risposta di Pietro, lo spazio intermedio (ed è uno spazio che va da qui all’infinito) è tutto lasciato, lo ripetiamo, alle nostre interrogazioni, ai nostri slanci, alle nostre ansietà, finanche ai nostri dubbi, e comunque a una condizione che richiede giorno per giorno un itinerario di conversione. Quella tale religiosità del vivere di cui prima si parlava, il cristiano la realizza, anche in sede intellettuale, negandosi i riposi e le tranquillità della fede facile.

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