Koinonia Aprile 2017


SALMO 103: IL DONO DELLA GRAZIA (I)

 

Parte prima: Un Dio povero e buono

 

Il Salmo 103 è un salmo di lode, una lode rivolta al Dio creatore che cammina con noi nella storia, sebbene nessuno lo abbia mai ancora visto, e che tuttavia un giorno finalmente “vedremo così come egli è” (1 Gv 3,2).

Come la gran parte degli altri, anche questo salmo è attribuito a Davide, un po’ come se fosse il re Davide ad averlo scritto e pregato. E tuttavia non è così: è infatti la comunità d’Israele ad averlo scritto e pregato la quale, contrariamente a quanto di solito si pensa, “ha cominciato a dire ‘Io’ prima di dire ‘Noi’”, un io dunque esattamente opposto al nostro narcisistico io, al punto che - dice Alberto Mello (I Salmi: un libro per pregare, Edizioni Qiqajon, 1998) - il dire noi, piuttosto tardivo nella comunità d’Israele, “tradisce un modo di pensare più individualizzante”. Perciò quando nel Salterio incontriamo i nomi di Mosè, Davide o Salomone dobbiamo pensare, più che a essi, al popolo d’Israele che, attraverso queste grandi figure del passato, ha pensato e vissuto la Legge, la preghiera, la sapienza. Pertanto pregando con un salmo e dicendo ‘io’ dovremmo sempre tenere conto di questo: la nostra preghiera, come il nostro credere, non è mai questione solo personale, ma sempre questione dell’essere parte di una comunità credente e parte della creazione tutta. Chi prega cioè, deve avere a cuore non soltanto se stesso e Dio, ma anche i fratelli e le creature tutte: la redenzione riguarda infatti non solo l’umanità ma anche la creazione che ora “geme e soffre” (Rm 8,22) nell’attesa di essere rifatta nuova, come è stato promesso.

Gesù, nell’unica preghiera che ha insegnato, ci ha invitato a rivolgerci a un “Padre” che è “nostro” e ad aprirci anche ai “nostri debitori” mentre invochiamo la venuta del suo “regno” e che sia fatta la sua “volontà” (Mt 6,9-13).

 

Ma vi è un altro elemento evidenziato da Mello, sul quale è difficile non essere d’accordo. Se è storicamente impossibile – egli dice - “individuare un unico autore per tutto il Salterio”, è tuttavia “possibile trovare un unico destinatario”: il Dio unico, creatore e redentore del mondo. Ed è questo che davvero qui ci interessa, e ci interessa in quanto credenti che ogni giorno in qualche modo cercano, anche attraverso i salmi, di accostarsi a quest’unico destinatario che comunque continua a essere con noi “tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), come ci ha detto il “Figlio di Davide” (Mt 9,27), Cristo Gesù, che ha fatto sue queste preghiere quand’era tra noi, esattamente come ancora noi oggi le facciamo nostre in comunione con la comunità credente tesa al suo ritorno, tesa alla redenzione da lui stesso promessa in quanto Messia “Figlio di Dio”, “re d’Israele” (Gv 1,49).

Ma chi è davvero il destinatario dei salmi lo troviamo chiaramente descritto - dice Mello - nella soprascritta del Salmo 102, dunque nel salmo appena precedente a quello che andremo a commentare. Le parole ebraiche comunemente tradotte “preghiere di un povero”, potrebbero infatti essere anche tradotte: “preghiera per un povero”, come se il povero qui non sia tanto colui che prega ma il destinatario stesso della preghiera, un Dio “che è così povero da rispondere come un servo alla nostra preghiera” (p. 30). Una considerazione che dovrebbe far riflettere, soprattutto noi cristiani, ogni volta che si accostiamo ai salmi, percependo nel loro insegnamento il timore e il tremore non tanto di fronte a un Dio impassibile e duro, ma a un Dio che ha tanto bisogno di noi, un Dio crocifisso che duemila anni fa si è rivelato a noi nel pianto e nell’angoscia.

 

E anche quando incontriamo altre soprascritte, comunemente tradotte con “Al maestro del coro”, dovremmo renderci conto che si tratta di “un’idea moderna – dice Mello -: i traduttori antichi non avrebbero mai inteso così”. I Settanta traducono per esempio “Per la fine”, conferendo a tali salmi “una nota escatologica”. Ma è soprattutto la traduzione che adotta “la tradizione ebraica” a divergere radicalmente da “Al maestro del coro”. Il midrash arriva infatti a tradurre: “A colui la cui vittoria è una vittoria eterna”, oppure, addirittura: “A colui che si lascia vincere dalle sue creature”, perché Dio non è come i re di questo mondo che si adirano se vengono vinti. No, “Il Santo – benedetto sia – se viene vinto se ne rallegra”. E se ne rallegra perché attraverso quel suo essere vinto viene meglio compreso, esattamente come meglio lo comprese Giacobbe al “guado dello Iabbok” il quale, proprio per quella sua vittoria, venne da Dio stesso chiamato “Israele”. Israele infatti significa proprio questo: popolo che combatte “con Dio” fino a vincerlo (Gen 32,23-29), fino a fargli cambiare idea, fino a tirarlo giù dal cielo affinché vinca finalmente sulle potenze del male e della morte a vantaggio di tutti.

Le grida di certi salmi sono tutte interne a questa logica di lotta con Dio e di coscienza del fatto che Dio deve ancora vincere la sua lotta col male. “Infatti – dice Mello – lo stesso midrash afferma che ‘ogni passo dove si dice Al vincitore va inteso come riferito al futuro”. Per questo “L’‘Io’ dei salmi, alla fine delle fini, è quello messianico”. Non solo - dice ancora Mello riferendosi a delle intuizioni di Lévinas - ma lo stesso “‘Io’ dei Salmi e quello dei Vangeli si confondono, sono lo stesso ‘Io’” (p. 36).

  

Fatte queste dovute premesse accostiamoci al Salmo 103.

Chi lo prega inizia col rivolgersi a se stesso, alla propria “anima”, alla parte di sé più profonda e sensibile (pensieri, sentimenti, desideri, volontà), tramite le quali si è chiamati ad amare Dio con tutte le forze. Cosa dice l’orante biblico a questa parte di sé? Di pensare bene, di dire bene del Signore con tutta la propria vita: “Quanto è in me benedica il suo santo nome”. E che cos’è il “santo nome” di Dio se non la parte più intima di lui, la parte che più lo contraddistingue, dunque il suo carattere, il suo modo di essere e di fare; in una parola: il suo volto, il modo che Dio ha di sentire, di guardarci, di amarci e di dirci le cose?

Insomma, il fatto che Dio abbia un nome significa che è una persona, un tu a cui ci si può rivolgere. Il proprio “nome” Dio lo rivelò infatti a Mosè presso il roveto ardente, per dirgli che aveva ascoltato le grida di dolore dei suoi figli e che aveva deciso di liberarli, di salvarli (cf Es 3, 1-15).

Al centro della benedizione che viene da Dio, gli uomini devono riconoscere che c’è la salvezza. Ma nella Bibbia è necessario che anche l’uomo benedica Dio, invitando persino le altre creature a farlo. Pensiamo anche soltanto al canto dei “tre giovani” nella “fornace” di fuoco che troviamo nel Libro del profeta Daniele (3,46-90).

E subito dopo la memoria. Del Signore infatti, si deve dire bene soprattutto ricordando “tutti i suoi benefici”. Dio ha già fatto tanto per noi, a pensarci bene, e di questo si deve tenere conto quando a lui ci si accosta. Guai a dimenticare il bene ricevuto, la gratitudine nei confronti di chi ci ha donato la vita e tutto ciò che di buono ogni giorno ci sostiene. E ognuno sa bene quello che ha ricevuto da Dio, siamo unici e irripetibili, sapendo sul proprio conto quello che nessun altro può sapere. Dal ricordo di quanto ha già detto e fatto possiamo capire il perché lo dobbiamo benedire con tutto il cuore e con spirito di gratitudine. Due sono gli imperativi alla base della fede d’Israele. Il primo: “Ascolta, Israele!”. E il secondo: “Ricordati, non dimenticare” (Dt 9,1.7).

 

Come si esprimono da sempre “tutti i suoi benefici”? L’orante continua a dirlo alla propria anima: perdonando “tutte le tue colpe”, guarendo “tutte le tue infermità”. Di fronte alla colpa e al dolore - che a tratti si implicano e a tratti no, perché il dolore arriva a superare la colpa - Dio è colui che non solo perdona ma anche guarisce. Gesù di Nazaret sarà colui che opererà concretamente, in quanto Messia e Salvatore, queste cose in mezzo al popolo d’Israele: perdonerà i peccatori, guarirà i ciechi, gli storpi, i lebbrosi, farà udire i sordi e parlare i muti.

Ma ancora di più, arriverà a salvare “dalla fossa la tua vita”. Il rapporto con la morte giungerà ad essere sempre più diretto nella fede d’Israele man mano che ci si avvicina al tempo di Gesù. La speranza, dai giorni delle grandi persecuzioni narrate dai due libri dei Maccabei e da quelli in cui fu rivelato il Libro del profeta Daniele, giungeva a toccare anche il dramma dell’ingiustizia e della morte: la morte ad un certo punto non apparirà più come il nemico invincibile, e sarà il Signore stesso a giudicare ognuno di noi alla fine dei tempi: “Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento: coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre” (Dn 12,2-3). Questo è il passo scritturale più antico che abbiamo di tale speranza, che covava da tempo nel cuore degli oppressi di Israele, che vedevano la loro vita soffocata nell’ingiustizia e nella morte.

Nel suo Il principio speranza, Ernst Bloch lo disse chiaramente: l’impulso che ha dato vita a tale novità di speranza “non derivava dall’antico desiderio di lunga vita, di prosperità sulla terra, ora prolungata in modo trascendente. Proveniva piuttosto da Giobbe e dai Profeti, dalla sete di giustizia”. Dunque dalle stesse prerogative espresse già a Mosè sull’Oreb, là dove fu Dio stesso a rivelargli il proprio santissimo nome, un nome dal significato profondamente intriso di promessa e riscatto futuro rivolto ai poveri e agli oppressi.

 

Ed è proprio in questo stesso versetto 4 del Salmo 103, che si sprigiona un concetto che rivela la caratteristica propria del Dio d’Israele: quella della bontà e della grazia, chesed in ebraico: Dio ci “circonda di chesed e misericordia”. Gli studiosi hanno fatto notare che delle 245 presenze di chesed in tutta la Bibbia ebraica, 127 si registrano nel Salterio e di queste ben 4 nel Salmo 103, quello che stiamo commentando. Al punto che - fa notare Mello - chesed si potrebbe persino considerare “concetto basilare” per esprimere il rapporto che Dio ha con l’uomo all’interno di tutti i salmi. Vi sarebbe infatti una vera e propria “teologia della grazia” nel Salterio, una teologia che approderà con una certa forza nelle poderose riflessioni teologiche di San Paolo e poi di Lutero.

E c’è poi da sottolineare come proprio questo stesso Salmo 103 venga chiamato, nella tradizione orientale, Polyéleos, il “Molto misericordioso”, essendo dedicato alla rivelazione del Nome di Dio attraverso Mosè sul monte, quando passò davanti a lui proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di chesed (grazia) e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Es 34,5-7). Dio è un Dio di grazia e di fedeltà, un Dio che mantiene le sue promesse fino all’ultimo giorno. Il carattere di queste affermazioni è storico nel senso che avviene nei rapporti tra gli uomini e Dio durante il tempo della storia, fino all’ultimo giorno, quando si compiranno le cose promesse fin dai giorni di Abramo e Mosè. “Possiamo ben dire – conclude Mello – che la ‘grazia fedele’ di Dio è la nozione riassuntiva di tutta la rivelazione, sia nella creazione sia nella storia, e dunque il centro unificante della spiritualità del Salterio” (p. 105).

 

È da notare come nell’ultima traduzione CEI non appare mai il termine grazia per tradurre chesed, a volte tradotto con bontà, a volte con amore, oppure con misericordia. Hanno significato simile, è vero, ma è necessario comprendere lo specifico del termine chesed, anche semplicemente per comprendere in che senso il Dio d’Israele, il Dio di Cristo, è buono. Essere buoni non c’entra nulla con certo buonismo oggi molto in voga, in particolar modo quando si cerca di affibbiarlo a Dio. Quando pensiamo a una persona perfettamente buona non può che venirci in mente Gesù. Ma Gesù era buono coi bambini, coi poveri, gli umili, un po’ meno con i potenti, i ricchi, di fronte ai quali Gesù facilmente anche si adirava.

Ci viene raccontato un episodio nel quale Gesù prende volentieri i bambini tra le braccia invitando tutti a essere come loro per entrare nel “regno di Dio”. Poi parte e lungo la strada ecco un uomo che gli s’inginocchia davanti chiamandolo “maestro buono” e chiedendogli cosa deve fare “per ereditare la vita eterna”. E Gesù subito chiarisce: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo”.

Cosa voleva dire Gesù a quell’uomo? Voleva dirgli: non basta osservare tutti i comandamenti per essere buoni come è necessario esserlo. Gesù appena seppe che quel tale osservava i comandamenti di Mosè fin dalla “sua giovinezza” si mise infatti a fissarlo, ad amarlo, chiedendogli persino di seguirlo. Una sola cosa arriva a chiedergli in aggiunta: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri”. Senza però dire che facendo ciò l’avrebbe reso buono, ma soltanto che così facendo avrebbe semplicemente guadagnato “un tesoro in cielo”. Sappiamo com’è andata: quell’uomo possedeva “molti beni” e non aveva alcuna intenzione di mollarli, così “se ne andò rattristato”. È a quel punto che Gesù cita il famosissimo detto del cammello e della cruna dell’ago per dire la difficoltà per un ricco “ad entrare nel regno di Dio”.

Ma è la risposta che darà ai discepoli che qui ci interessa: ai discepoli che si chiedono “stupiti” parlando “tra loro: ‘e chi può essere salvato?’”, Gesù risponde che salvarsi non è questione di osservare tutti i comandamenti fin dalla nascita, non è meritare il regno di Dio mediante le proprie opere. Salvarsi infatti è impossibile, esattamente com’è impossibile essere buoni. Buono è “Dio solo”, c’è poco da fare. A salvarci è semmai proprio questa consapevolezza. Lo dice bene Gesù: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio” (Mc 10,13-27). A salvarci è dunque la grazia non i nostri meriti, è la potenza di Dio non le nostre buone opere.

 

 Daniele Garota

(1.continua)

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