Koinonia Aprile 2017


DOPO L’INCONTRO CON RENZO SALVI

GUARDANDO ALLA VISITA DI PAPA FRANCESCO A MILANO

 

L’incontro del 26 marzo con  Renzo Salvi ci ha aiutato a fare il punto  per continuare ad accompagnarci in un cammino  verso  il sempre “non ancora”,  sia pure attraverso i tanti  “già” del momento! Questi nostri incontri, in effetti, non sono altro che momenti di emersione nello spazio di quanto cerchiamo di vivere nel tempo con chiunque, sulla base di una ricerca condivisa del Regno di Dio e della sua giustizia, che prima d’essere un fatto ecclesiale visibile è una istanza di vita nella storia.

Proprio in questo senso, avere sotto gli occhi per qualche ora sullo schermo il “Tantum aurora est” di papa Giovanni e di Mons.Capovilla ci ha fatto ritrovare il  filo conduttore della loro vicenda e della loro storia, quel filo a  cui possiamo riallacciarci anche noi, ma che soprattutto ci riporta al bandolo della matassa: sì, il vangelo, anche se il richiamo può sembrare scontato! Il punto focale della giornata è stato in queste parole di L.F. Capovilla, quasi un responsorio: “È la prima ora della evangelizzazione!”.

Per noi queste parole non sono solo incentivo a trovare vie nuove per predicare il vangelo, ma motivo di ritrovare il senso stesso della predicazione del vangelo: a ritrovare il sale col suo sapore più che cercare di ridare sapore al sale che lo ha perso. Anche la galleria rivisitata dei tanti profeti che hanno preceduto e accompagnato il Concilio (Don Zeno, don Giovanni Rossi, P.Chenu, P.Balducci, P.Turoldo, don Milani, don Mazzolari ecc…), ci ha fatto capire che bisognerebbe non tanto rifare oggi quello che essi hanno fatto,  per continuarne l’opera, quanto rivivere la loro obbedienza al vangelo, in atto di farlo rivivere nuovamente tra gli uomini.

Questo loro servizio del vangelo, in ogni caso, restava debitore e portatore delle strutture dentro le quali e a nome delle quali veniva esercitato, mentre sappiamo che la “parola di Dio non è incatenata” (2Tm 2,9), neanche quando c’è da soffrirla fino a portare le catene. Il dilemma o il bivio davanti al quale ci troviamo è: se  tentare e sperimentare altre forme di comunicazione per i nostri tempi - dando per acquisito il messaggio originario - o contentarsi semplicemente di farsi voce della buona novella come tale, in modo che risuoni come la vera novità anche per oggi e sia davvero la prima ora della evangelizzazione anche all’atto pratico e non solo come riferimento ideale.

E quando si dice “vangelo sine glossa” non è da intendere  solo in chiave interpretativa ma anche operativa, e cioè  a prescindere da tutte le condizioni e i mezzi di fatto in cui si trasmette, che si tratti di parole persuasive o di azioni dimostrative: “Da voi, forse, è partita la parola di Dio? O è giunta soltanto a voi?” (1Cor 14,36). “È la prima ora della evangelizzazione!”, perché cominciamo appena a comprendere meglio il vangelo di sempre, che perciò va preso per quello che è prima ancora di preoccuparci dei risultati: l’albero prima dei frutti!.

Questo non vuol dire avere la pretesa di cogliere il vangelo allo stato puro - che sarebbe una contraddizione in termini in quanto Parola di Dio fatta carne - ma desiderio di mantenere la tensione e le proporzioni giuste tra i due estremi, tra il sensus fidei e l’intellectus fidei o - come si potrebbe dire - tra vangelo e comprensione del vangelo.

Proprio questa distinzione potrebbe essere un criterio di discernimento di ogni opera di evangelizzazione, ed in questo senso diventa ipotesi di lavoro per  guardare alla recente visita di Papa Francesco a Milano. Massimo Franco sul Corriere della sera di domenica 26 la presenta così:  “Evocando la complessità e l’apertura a tutti di una città che forse oggi è la più europea in Italia, Francesco ha evocato una sfida fatta di capacità di accogliere e amalgamare l’umanità e le esperienze più diverse. Sono tratti che si ritrovano nel simbolismo di ogni tappa del suo viaggio-lampo… Le critiche papali a una religiosità chiusa, sulla difensiva, e all’Europa «sterile», sono nate in questo contesto. Francesco ha rilanciato la sua visione come sfida soprattutto alla rassegnazione. Lo ha fatto lungo le strade di Milano; nello spiazzo delle Case bianche, porta di ingresso periferica ma strategica, per lui; nello stadio di San Siro, e davanti a oltre mezzo milione di persone nel Parco di Monza”.

Ma se questa è la ricaduta esterna e l’impatto sociale della visita, questa non si esaurisce nella sua risonanza giornalistica, per lasciare in sospeso l’interrogativo che il Papa pone e che attraversa tutta la sua giornata: “Ci farà bene domandarci: come è possibile vivere la gioia del Vangelo oggi all’interno delle nostre città? È possibile la speranza cristiana in questa situazione, qui e ora?”. L’attenzione viene riportata quindi sul vangelo, per chiedersi se al di là delle manifestazioni e delle stesse celebrazioni oceaniche questo vangelo può diventare lievito di vita umana e civile o rimanere relegato nel “tempio”.

Mettendo a confronto l’annunciazione del Battista a Zaccaria  e quella di Gesù a Maria – una nel Tempio e l’altra nell’anonimato della casa di una giovane – il Papa dà una sua risposta di principio: “Un contrasto non di poco conto, che ci segnala che il nuovo Tempio di Dio, il nuovo incontro di Dio con il suo popolo avrà luogo in posti che normalmente non ci aspettiamo, ai margini, in periferia. Lì si daranno appuntamento, lì si incontreranno; lì Dio si farà carne per camminare insieme a noi fin dal seno di sua Madre. Ormai non sarà più in un luogo riservato a pochi mentre la maggioranza rimane fuori in attesa. Niente e nessuno gli sarà indifferente, nessuna situazione sarà privata della sua presenza: la gioia della salvezza ha inizio nella vita quotidiana della casa di una giovane di Nazareth”.

Se le cose stanno idealmente così, quale capovolgimento non sarebbe necessario perché stiano così anche sul piano pastorale e nell’opera di evangelizzazione? Almeno se vogliamo evitare un parallelismo tra “credere al vangelo” e una fede ideologica in funzione sociale, “pur di udire qualcosa” (2Tim 4,3). Esaltiamoci pure per le cifre della partecipazione nel Parco di Monza o allo Stadio di S.Siro, ma quale rilevanza e impronta evangelica questi numeri hanno nella società milanese? Siamo in presenza di mondi separati, quello secolarizzato (“in cui tutto sembra ridursi a cifre”) e quello della tradizione religiosa cristiana, dentro il quale altro è il mistero della fede vissuta e altro la fede come residuo culturale in una società post-cristiana. 

Tornando alle domande  sollevate, il Papa arriva a dire che esse “esigono da parte nostra un nuovo modo di situarci nella storia”. Eccoci allora davanti alle montagne da spostare e alla questione cruciale della fede, che se non è delle masse, non è neanche di singoli individui magari aggregati in funzione propria. La questione attiene a qualche “Figlio dell’uomo” o a qualche “piccolo resto” che si facciano lievito nella massa in senso totale e pieno, senza surrogare il vangelo come panacea o toccasana per tutte le sfide sociali e storiche che incombono, pur di avere consenso, ma lasciando che esso sia il necessario punto di appoggio.

Nel suo incontro in Duomo con i sacerdoti e i consacrati, lo scambio lo porta a dire, per esempio, che “l’evangelizzazione non sempre è sinonimo di ‘prendere i pesci’: è andare, prendere il largo, dare testimonianza… e poi il Signore, Lui ‘prende i pesci’”. E a proposito di sfide da accettare, facendo memoria di quelle delle origini, afferma: “Sono segno di una fede viva, di una comunità viva che cerca il suo Signore e tiene gli occhi e il cuore aperti. Dobbiamo piuttosto temere una fede senza sfide, una fede che si ritiene completa, tutta completa: non ho bisogno di altre cose, tutto fatto. Questa fede è tanto annacquata che non serve. Questo dobbiamo temere. E si ritiene completa come se tutto fosse stato detto e realizzato. Le sfide ci aiutano a far sì che la nostra fede non diventi ideologica”.  E ancora: “La fede per essere cristiana e non illusoria deve configurarsi all’interno dei processi: dei processi umani senza ridursi ad essi. Anche questa è una bella tensione”.

E in risposta alla domanda di una religiosa, dice: “I nostri padri e madri fondatori non pensarono mai ad essere una moltitudine, o una gran maggioranza. I nostri fondatori si sentirono mossi dallo Spirito Santo in un momento concreto della storia ad essere presenza gioiosa del Vangelo per i fratelli; a rinnovare ed edificare la Chiesa come lievito nella massa, come sale e luce del mondo... Loro pensavano semplicemente a portare avanti il Vangelo, il carisma… Per molti anni abbiamo avuto la tentazione di credere, e in tanti siamo cresciuti con l’idea che le famiglie religiose dovessero occupare spazi più che avviare processi, e questa è una tentazione. Noi dobbiamo avviare processi, non occupare spazi”.

Anche qui c’è da misurare la distanza tra le irrinunciabili enunciazioni di principio e la innegabile realtà dei fatti, regolata da altre logiche efficientiste  e per lo più autoreferenziali: consacrarsi al servizio del vangelo non equivale a farsi strumenti di strutture preesistenti e standardizzate, ma vuol dire prima di tutto investire tutta la propria esistenza a fondo perduto insieme a chiunque si senta di fare altrettanto: “Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Cor 9,16).

Siamo davvero alla prima ora della evangelizzazione, e se - come scrive don Primo Mazzolari - “la primavera incomincia con il primo fiore, la notte con la prima stella”, il vangelo comincia sempre da ogni credente.


ABS

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