Koinonia Marzo 2017
Cultura e coltura
Tempo fa mi capitò tra le mani uno studio (che non sarei più in grado di trovare), sul concetto di “cultura”. Quello studioso si era divertito a trovare decine e decine di accezioni diverse. Senza pretendere di elencarle tutte, me ne vengono in mente alcune:
1) Bagaglio di nozioni, informazioni. Chi la possiede può essere definito più erudito che colto, se questa massa di informazioni non è penetrata profondamente in lui. “Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza”, disse Eraclito. E, sulla stessa linea, Sant’Ignazio: “Non è il molto sapere che appaga l’anima, ma sentire e gustare le cose interiormente”.
2) Forma mentis derivata da fattori storici e sociali. Questa accezione del termine non fa riferimento a criteri di valore: tutti in un modo o nell’altro appartengono ad una cultura, anche le persone che non sanno leggere e scrivere. Si può infatti parlare di cultura primitiva o evoluta, orientale o occidentale, cittadina o campagnola. In questo senso la cultura è il modo di essere e di valutare quanto ci circonda, modo di essere che varia di paese in paese, di epoca in epoca.
3) Questi modi di essere sono spesso visti come sovrastrutture e messi a contrasto con la natura umana che si immagina immobile e sempre uguale a se stessa. Per esempio si è tanto discusso (spesso in modo polemico) se le caratteristiche della psiche attribuite agli uomini o alle donne siano dovute alla loro natura anatomica e fisiologica o siano un portato della cultura di appartenenza.
4) Frutto di un’ istruzione elevata e prolungata, stile di vita ispirato a valori alti, raffinatezza. Si dice “una persona colta” di chi si orienta nelle scelte quotidiane in base a criteri selettivi, di chi ha viaggiato, letto, studiato.
5) La cultura può essere vista anche come un pesante condizionamento nella misura in cui vincola a pensare, dire, fare così come generalmente “si fa”. É il peso del “si”, di cui parla Heidegger: ci si comporta così, si dice colà, ci si veste in questo modo e non in quell’altro, ecc. In altre parole si obbedisce ad una serie di norme non scritte ma condivise e fortemente coercitive.
6) Si può invece ritenere che la cultura serva a liberarci da questi condizionamenti, nel senso che aiuti a comprendere meglio le situazioni nelle quali ci si trova, a prendere posizione nei contrasti, a superare le crisi, a reagire agli ostacoli. “La verità vi farà liberi” dice san Giovanni.
Per arrivare a questo traguardo, a meno che la Verità non ci venga concessa per Grazia divina, ci si può impegnare a far crescere la nostra cultura, a maturarla, “educarla” all’ascolto, all’approfondimento, al possibile. A ben riflettere “cultura” ha lo stesso etimo di “coltura” perché derivano entrambi da colere che significa coltivare. Pistoia, città nota per i suoi vivai, dovrebbe essere esperta in materia!
Da questo punto di vista tutti i significati citati convergono: le nozioni apprese, l’istruzione ricevuta, le conoscenze trasmesse, le consuetudini acquisite, non devono essere subite come un’eredità imposta, ma fatte proprie per libera scelta, coltivate, concimate e innaffiate, liberate dalle erbacce che le soffocano: acquisite o scartate a seconda che ci convincano o no. Socrate ci direbbe che occorre innanzitutto conoscere se stessi prima di dare o negare l’assenso a quanto ci viene proposto. Per conoscere se stessi occorre, d’altra parte, mettere a confronto il nostro io con quello degli altri.
Anche se tra san Paolo e i greci dell’Areopago si realizzò una rottura, nei secoli successivi il Cristianesimo e la filosofia greca si arricchirono reciprocamente fino a promuovere la nascita di pensatori del calibro di Sant’Agostino e San Tommaso. Come non definire questo reciproco scambio “cultura”? La vera cultura infatti è una situazione in fieri, non un possesso, è apertura, auto correzione, scambio e non soltanto difesa di un sapere tramandato.
Anna Marina Storoni Piazza