Koinonia Marzo 2017


“Già e non ancora” a cura di Daniele Garota

 

11. FEDE E MISTERO

 

Quando nella Scrittura rivelata ci si trova di fronte alla parola “mistero”, si ha a che fare con ciò che già in qualche modo vive nascosto nella mente e nel cuore di Dio, “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” e che possiamo incontrare anche nel segreto delle parabole raccontate da Gesù (Mt 13,34-35).

L’unica volta in cui è dato imbattersi nella parola “mistero” all’interno dei Vangeli, è quando Gesù, trovandosi da solo coi “Dodici”, dice loro: “A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole” (Mc 4,11; cfr. Mt 13,1; Lc 8,10). E nelle parabole, pur così semplici in apparenza, come quella del seme sparso qua e là portando frutto soltanto dove cade nel terreno buono, sembra difficilissima la comprensione del messaggio. Come già da sempre in Israele, tutto dipende dall’attenzione con cui si ascolta (cfr. Mc 4,24) e si accoglie quanto sta più a cuore a Dio, che solo a costo di grande fatica riesce a rivelarcelo.

Proprio “mentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva”, Gesù spiazza i discepoli con la dura realtà della croce invitandoli a mettersela “bene in mente”. Ma essi non capivano, tali cose “restavano per loro così misteriose che” non solo “non ne coglievano il senso”, ma avevano persino “timore di interrogarlo su questo argomento” (Lc 9,43-45).

Il “mistero” contiene i disegni e i desideri di Dio, quelli che riguardano, in primo luogo, la fine dei tempi, il giorno in cui ci incontreremo con lui faccia a faccia. Se ancora non ce lo rivela che a piccoli tratti e molto raramente, è perché non ne reggeremmo il peso: troppo grande e troppo piccolo insieme sarà Dio. Quando lo incontreremo e lo vedremo “così come egli è” (1Gv 3,2) sarà, infatti, un uomo crocifisso e risorto, che porta le cicatrici dei chiodi nella carne, i segni del dolore umano e le lacrime di commozione sul volto.

Per questo la semplice conoscenza delle cose che ci stanno e ci vivono intorno, per quanto ampia, non basta. C’è un pensiero, di Gabriel Marcel, illuminante: “La conoscenza disperde all’infinito tutto ciò che crede di racchiudere … Forse soltanto il mistero riunifica. / Senza il mistero la vita sarebbe irrespirabile” (Tu non morirai). E questo perché solo attraverso l’umile adesione al mistero possiamo aprirci e abbandonarci al respiro della fede, alle cose impossibili che ci ha promesso Dio, cose che riguardano noi, coloro che ci stanno intorno e coloro che la morte ci ha strappato più o meno improvvisamente da vicino.

Il “Testo sacro” tramite il quale giunge ancora a noi oggi notizia delle grandi cose che ci ha promesso Dio, dice Léon Bloy, “non è oscuro, ma misterioso. Il Mistero è luminoso e impenetrabile. L’Oscurità è essenzialmente penetrabile, poiché l’uomo può esserne inghiottito” (Diario, 29 settembre 1894). Ogni volta che alla Parola di Dio ci accostiamo con cuore sincero, ci accorgiamo che quanto sta più a cuore a Dio, e che ci è stato fino a un istante prima nascosto, potrebbe esserci anche improvvisamente rivelato. Intuire il mistero è giungere a sfiorare l’intimità di Dio, una particolare conoscenza di lui e della sua luce. “Il Signore si confida con chi lo teme” (Sal 24,14).

Il mistero che abita in Dio è discreto e mai c’inghiotte, perché egli ci vuole liberi e amanti di lui, non come il Grande Inquisitore che ci vuole tutti inghiottiti in massa nella cieca obbedienza. “Non è la libera decisione dei loro cuori quello che importa - dice con alterigia al Cristo che gli sta davanti con rispettoso silenzio - né l’amore, ma un mistero a cui essi debbono ciecamente inchinarsi, anche contro la loro coscienza” (I fratelli Karamazov).

Il mistero deve rimanere tale fino al compiersi di quanto promesso da Dio, prima può essere soltanto accolto e vissuto nella fede, riflesso dal volto luminoso dei testimoni, “nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo”, come dice la liturgia attorno ai grandi e santissimi segni del poverissimo pezzo di pane e del modestissimo goccio di vino, diventati carne e sangue di lui da continuare a mangiare e bere facendo memoria del suo amore, dell’inimmaginabile prezzo che ha pagato per salvarci. Questo è il “mistero della fede” che dovrebbe farci ardere il cuore ancora oggi, mentre annunciamo la sua morte, proclamiamo la sua risurrezione, nell’attesa della sua venuta. Se il mistero dev’essere accolto con fede e speranza, è perché contiene ciò che viene dalle profondità di Dio e che possiamo intuire appena. Perciò tentare di chiarirlo, di dominarlo qui e ora, sarebbe distruggerne la preziosità: tanto è bisognoso di essere desiderato e atteso Dio, come il dono più grande, quello di cui mai saremo degni.

Sempre le eresie sono nate da tali impazienti tentativi messi in atto da gente religiosissima e pia illusa d’avere la verità in tasca, mentre la fede necessita di slancio e profonda convinzione certo, ma mai del possesso del mistero, che va invece umilmente accolto e conservato con timore e tremore, in attesa di quanto Dio deve ancora concretamente compiere e rivelare. Solo così la nostra fede si irrobustisce di fronte a ciò che ancora non vediamo spingendoci ad attenderlo “con perseveranza”, secondo i desideri dello “Spirito” e i “disegni di Dio” (Rom 8,25-27).

Il mistero più che con la conoscenza ha a che fare con i gesti concretissimi di Dio nella storia, gesti che nella fede siamo invitati a vivere come primizia dei gesti ultimi della redenzione promessa. Mai dimenticare quello che di recente ha voluto ricordarci anche il teologo J. B. Metz: “Tutte le affermazioni bibliche riguardanti Dio, contengono una nota sulla fine del tempo” (Memoria passionis). Per questo ci sembrano qui calzanti le sottolineature di Giorgio Agamben su Il mistero del male, Benedetto XVI e la fine dei tempi, in particolare là dove mette in evidenza come la parola greca mysterion, “non designa una dottrina segreta”, ma “una prassi, un’azione o un dramma nel senso anche teatrale del termine, cioè un insieme di gesti, di atti e parole attraverso i quali un’azione o una passione divina si realizza efficacemente nel mondo e nel tempo per la salvezza di coloro che vi partecipano”. “Siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini”, dirà Paolo, relegati “all’ultimo posto, come condannati a morte (1Cor 4,9). Agli occhi di Paolo infatti - dice ancora Agamben - “la storia dei tempi ultimi”, si presenta “come un ‘mistero’”, come un dramma nel quale i credenti svolgono un ruolo determinante all’interno del quale può rendersi persino necessaria la loro vita. La testimonianza è prima di tutto martirio, donare la vita a favore del Signore nel quale si crede e che ha a sua volta dato la vita per la nostra salvezza.

 

Leggendo la Bibbia la parola mistero (raz, in lingua aramaica) la si incontra per la prima volta nel Libro di Daniele (2,19.27-30.47; 4,6), ed è ripetutamente usata per indicare il significato segreto di un sogno che tolse il sonno al gran re Nabucodonosor, e che sarà Dio stesso a rivelare attraverso Daniele. E non è senza significato, ancora per noi oggi, che a far emergere per la prima volta quella parola sia l’unico libro canonico di tutto l’Antico Testamento che abbia un carattere autenticamente apocalittico, libro in cui appaiono, anche qui per la prima volta, l’attesa del giudizio ultimo e della risurrezione dei morti, parole da sigillare “fino al tempo della fine”, quando “molti” torneranno a scorrere tale “libro” accrescendone “la loro conoscenza” (12,2-4). Ancora a noi oggi è affidato il compito di intendere come vi sia “un Dio nel cielo che svela i misteri, e che ha fatto conoscere al re Nabucodonosor quello che avverrà alla fine dei giorni” (2,28).

La “sapienza di Dio” contenuta in tale “mistero”, e “rimasta nascosta” fin da “prima dei secoli” per la gloria di chi crede in essa, “nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta”: cose inaudite, cose “che mai entrarono in cuore di uomo”, Dio ha “preparate per coloro che lo amano” (1Cor 2,7-9). La più grande forse tra esse Paolo l’annuncia più avanti e certo la riprende dalla speranza sorta in Israele fin dagli anni in cui fu scritto il Libro di Daniele e s’abbatterono le terribili persecuzioni narrate nei libri dei Maccabei: la speranza di non morire, oltre a quella della risurrezione di coloro che sono già morti. “Ecco – dice Paolo - io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati” (1Cor 15,51-52).

Paolo sa bene e lo dice come il “mistero di Cristo” non sia stato “manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito”. Al punto che a lui in particolare, che si ritiene “ultimo fra tutti i santi”, è concessa la grazia di “annunciare alle genti le impenetrabili ricchezze di Cristo e illuminare tutti sull’attuazione del mistero nascosto da secoli in Dio, creatore dell’universo” (Ef 3,3-9).

 

Ma non c’è solo il mistero di Cristo, c’è anche il “mistero dell’iniquità” che è già abbondantemente all’opera da gran tempo, una potenza che non solo invade più o meno nascostamente il mondo, ma che anche ci cova dentro spingendoci a fare il male che non vorremmo anziché il bene che vorremmo, come ci ricorda Paolo (cfr. Rom 7,18-19). Per questo sarebbe un grossolano errore considerare tale potenza di iniquità e peccato all’interno del solo orizzonte dell’etica e della morale. Per quel genere di male infatti, come per la morte, altro rimedio non c’è che quello promesso dal “Signore Gesù”, che “lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta” (2Ts 2,8-9).

Tutto è parte del “mistero di Dio” che dovrà finalmente compiersi, così com’è stato promesso. L’angelo dell’apocalisse ci viene mostrato con un piede sul mare e uno sulla terra mentre alza la sua destra “verso il cielo” e giura: “Non vi sarà più tempo! Nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e suonerà la tromba, allora si compirà il mistero di Dio, come egli aveva annunciato ai suoi servi, i profeti” (Ap 10,6-7).

Più avanti al veggente sarà rivelato anche “il mistero della donna e della bestia che la porta”. Gli sarà dato di vederla la “donna, ubriaca del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù”, così come gli sarà dato di vedere la bestia. Ma c’è un passaggio difficile da comprendere: “E gli abitanti della terra il cui nome non è scritto nel libro della vita fino dalla fondazione del mondo, stupiranno al vedere che la bestia era, e non è più; ma riapparirà. Qui è necessaria una mente saggia” (Ap 17,6-9).

Col suo ultimo libro, lasciatoci oltre vent’anni fa poco prima di morire, Sergio Quinzio ebbe con piglio profetico l’ardire di mettersi nei panni dell’ultimo papa e scrivere al suo posto due fondamentali encicliche. La prima riguardante la risurrezione dei morti e la seconda il mistero dell’iniquità. E concludeva così, riferendosi alla Rivelazione che tace dal tempo dell’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, libro nel quale ha culmine il suo annuncio: “Dobbiamo aprire le orecchie del nostro cuore al presentimento di ciò che confidiamo essere ormai alle porte. Dobbiamo giocare tutto il senso della nostra fede, molto più che il senso della nostra vita, su questa estrema speranza” (Mysterium iniquitatis).

 

Daniele Garota

(11. continua)

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