Koinonia Marzo 2017


“Il dialogo come speranza della verità”

 

BRUNO CADORÉ, maestro generale dell’Ordine dei domenicani, ha tenuto la lezione di apertura del Congresso – tenuto a Parigi su “Come praticare il dialogo fra culture e religioni” – interrogandosi sul dialogo come speranza della verità. L’ottavo centenario del suo Ordine gli offre l’occasione di rimandare alle intuizioni fondamentali del fondatore, Domenico di Guzmàn, che invia i suoi frati lontano accompagnandoli con quattro verbi: partire, incontrare, studiare, rimanere. Mediante questi verbi si dice qualcosa della ragione e del suo rapporto con la verità. È uscendo dalla famigliarità del proprio mondo e rinunciando ad ogni dialogo che sia solamente un consenso facile, ma illusorio, sui contenuti, che diventa allora importante impegnarsi in modo deciso a pensare con gli altri. È, come propone il filosofo Emmanuel Levinas, far proprie, «al di là del dialogo, una maturità e una serietà nuova, una gravità nuova e una nuova pazienza e, se così ci si può esprimere, maturità e serietà per problemi insolubili». Restare in questa «presenza di persone davanti ad un problema» rende possibile mantenersi su questo cammino che esige una ragione la cui struttura è escatologica. È quel cammino in cui, per coloro che la cercano insieme nel dialogo, la “verità” si disvela proprio nello sfuggire alla loro presa. Dell’intervento del Maestro generale riportiamo questo paragrafo:

 

 

DIMORARE NELL’INCONTRO

 

Domenico chiedeva ai suoi frati di partire, incontrare e studiare. E aggiungeva: e fondare conventi. Dimorare, dunque, là dove andavano a condurre questa avventura della speranza della ragione unita a quella proclamata nella loro predicazione. Questa chiamata è alquanto importante perché manifesta l’esigenza e la ricchezza di ciò che oggi definiamo con il termine “inculturazione Questa “inter-culturalità” dà al dialogo delle razionalità un orizzonte particolare: quello del meticciato delle culture. Una persona, una comunità di persone, possono integrare in se stesse il confronto di razionalità differenti in una dinamica di identificazione. Significa sottolineare qui, ancora una volta, che il dialogo delle razionalità culturali non rientra solo nell’ordine dell’argomentazione, ma anche in quello dell’ordine esistenziale. In un certo qual modo, si potrebbe dire che vi è in ciò una sorta di pedagogia dell’incontro: «L’incontro non si annuncia più di quanto non si prepari. Nessuna strategia è possibile, a differenza di quanto avviene nel combattimento o nella seduzione. Non si arriva mai a un incontro, è sempre l’incontro che arriva». Ciò equivale a dire che la vigilanza di questa «maturità per problemi insolubili» deve attingere la sua pazienza, ancora una volta, non tanto dalla giustificazione argomentata dei princìpi, ma dalla prova concreta dell’esistenza condivisa e, qui, condivisa nell’orizzonte della fraternità.

 

Per concludere questo contributo, propongo di considerare in che modo questo dialogo delle razionalità culturali e religiose si presenti come una maniera di “dimorare nell’incontro”, facendo eco all’invito di Gesù ai suoi discepoli nel vangelo quando li chiama a «dimorare/rimanere nella parola» (Gv 8,31). Questa prospettiva prolunga la tappa del cammino di Domenico ricordato sopra quando egli invia i suoi frati a «fondare comunità». Si tratta allora di precisare di che cosa queste comunità sono il segno - di che cosa i gruppi di ricerca e di dialogo delle razionalità culturali sono il segno.

Esse sono, innanzitutto, il segno della diversità di cui è fatto, e arricchito, ogni incontro. Le comunità che visito nell’Ordine sono contrassegnate da una grandissima diversità: di generazioni beninteso, ma anche di cultura, di origine sociale, di opinione sociopolitica, di opzioni teologiche o ecclesiali... La tentazione principale di una comunità umana consiste nel ridurre l’incontro agli elementi comuni a tutti, in cui tutti possono riconoscersi. Ed è evidentemente importante, in un incontro, in una discussione, identificare i punti comuni fra gli interlocutori. È importante identificare gli elementi di un consenso fra tutti. Mi sembra tuttavia che la ricchezza e la forza di un incontro derivino, in misura molto maggiore, dalla determinazione di tutti gli interlocutori a fare un lavoro di oggettivazione degli elementi di dissenso, o addirittura di identificazione delle «differenze fondamentali» fra gli interlocutori.

Ricorderemo due dimensioni importanti di questo lavoro di addomesticamento delle differenze, o addirittura delle divergenze. Si tratta, in primo luogo, di prendere atto (nominandole, cercando di capire le opposizioni) delle differenze di esperienze, di posizioni, di convinzioni, di sistema di pensiero, di intelligibilità della realtà, cercando di formulare insieme l’esplicitazione di queste differenze: la comunanza di ricerca della verità non si costituisce come una sola e medesima formulazione della verità, ma piuttosto nella misura in cui tutti sono capaci di dire, in un discorso elaborato insieme e sostenuto da tutti, gli elementi che li costituiscono nella loro diversità. Così facendo - ed è la seconda dimensione - questo lavoro di elaborazione in comune costituisce un’esperienza concreta di comunità alla ricerca della verità. Credo che sia l’esperienza più forte, e a mio avviso più feconda per il bene comune, fatta dai membri dei comitati pluralisti di riflessione etica. La comunità umana fa l’esperienza di costituirsi, di istituirsi, per il fatto stesso di offrirsi reciprocamente nuove vie «verso la verità». Da questo punto di vista, il pluralismo non conduce necessariamente a un’indifferenza relativistica.

In questa prospettiva, è importante allora intendersi sul senso e sulla portata da attribuire al dialogo. Emmanuel Levinas, ancora una volta, può aiutarci a precisare questo punto. Lo abbiamo evocato in precedenza: secondo il filosofo, si rischia sempre di considerare il dialogo un’impresa di ricerca di una «comune razionalità». Ora, egli dice che il dialogo non deve ridursi a essere dialogo di immanenza che costruisca la socialità concreta conformemente a ciò che la ragione giudicherebbe auspicabile o possibile. Il dialogo deve permettere di scoprire che esso si fonda in una socialità originaria, trascendente, e rimanda a un aldilà del mondo. Questa proposta entra in risonanza con la riflessione del filosofo Jean Ladrière, secondo cui l’esercizio stesso della ragione - e del confronto delle razionalità - apre la strada verso l’esperienza dell’aldilà della ragione, che fonda quest’ultima al tempo stesso nella sua capacità di intelligibilità della realtà e nella sua umiltà davanti al fatto che la “verità” sfugge alla presa della ragione, nella misura per l’appunto in cui quest’ultima dispiega la sua capacità di intelligibilità. Ladrière dice che la ragione umana ha una struttura escatologica, e il suo dispiegamento è figura della sua speranza. Propongo di considerare il dialogo delle razionalità culturali e religiose secondo questa prospettiva. Se si tratta di aprire, in un’avventura comune, delle strade sempre nuove verso la verità, è anche l’occasione per gli interlocutori di un dialogo, di un incontro, di promuovere reciprocamente in ciascuno questa “capacità di speranza” della ragione umana. Dimorare nell’incontro significa restare su questa strada.

 

Bruno Cadoré

In  Concilium 1/2017, pp.138-140

.