Koinonia Febbraio 2017


Un incontro tra le fedi per un’altra società

 

“Ho un sogno», confida alla folla Martin Luther King il 28 agosto 1963. Potrebbe essere la fuga dalla realtà, il sollievo del debole sconfitto dalla storia. Invece è il sogno potente. Quello che trasforma.  I have a dream passerà alla storia come uno dei discorsi più capaci di suscitare cambiamento. La forza di quel sogno, la stessa del suo autore, sta nella fusione tra politica e religione: sermone e comizio, parola di filosofo e di profeta, mani battute in piazza, voci gospel in chiesa. Al servizio dell’ideale costituzionale e biblico della giustizia razziale. Perché univa le due fedi, politica e religiosa, I have a dream ha fatto meraviglie.

Non nasceva nel vuoto il gesto del reverendo King. S’innestava su una lunga tradizione di uomini di Dio capaci di far leva su un non luogo, su un’utopia, per cambiare il mondo. Appartiene a quella tradizione il senso degli occidentali per l’utopia: fu dato alle stampe per la prima volta 500 anni fa, alla vigilia della protesta di Lutero, il celebre volume Utopia di Thomas More (Tommaso Moro), il politico cristiano inglese, poi cancelliere sotto Enrico VIII, che perse la testa sul patibolo per difendere l’indipendenza della Chiesa dal governo del re.

Oggi, cinque secoli dopo, è difficile per noi occidentali credere in un’utopia politico-spirituale. Anzitutto perché le grandi comunità religiose dei nostri giorni tendono ad affermarsi in termini di utilità sociale e di tradizione e identità. Per chi persegua una strategia conservatrice e difensiva, come fanno le fedi storiche e maggioritarie occidentali, spesso appese ai soldi dei governi, l’utopia è troppo rischiosa. In secondo luogo, temiamo le utopie religiose che ci circondano e nelle quali non vediamo un disegno di miglioramento del mondo. È il caso, per eccellenza, dell’utopia apocalittica e millenarista dei terroristi musulmani e del progetto di morte jihadista. È il caso delle utopie di piccoli gruppi di fedeli che si ripiegano su se stessi e si autoescludono dalla società complessa, o dell’utopia ateista dei tanti che ancora sperano di liberare l’uomo dal giogo di Dio. È il caso, ancora, dei cristiani conservatori in lotta con la società secolarizzata: si ispira a Tommaso Moro chi difende oggi il matrimonio cristiano eterosessuale, al punto di mettere in discussione il proprio impiego allo stato civile o il proprio bed and breakfast, se ciò è necessario per non essere complici di sposi gay cittadini o clienti. L’utopia, in tal caso, è la difesa di una moralità cristiana non più maggioritaria come un tempo, la cui sopravvivenza può parere oggi, appunto, una cosa che non sta in alcun posto.

Chi non si scaldi per queste piccole utopie, chi cerchi orizzonti aperti, deve seguire le tracce di credenti impegnati a rinnovare l’esperienza religiosa sul solco di maestri come Raimon Panikkar. Conducono, quelle tracce, nella direzione di un’utopia spirituale che attraversa le fedi e le nazioni. È l’utopia dell’islam coraggioso di Tareq Oubrou, imam a Bordeaux, dei padri redentoristi vietnamiti che fondono spiritualità asiatiche e giustizia sociale cristiana, del buddhismo internazionale di Khenpo Sodargye, del minimalismo musicale del compositore ortodosso estone Arvo Part, e di tantissimi altri sperimentatori di Dio. Cinquecento anni dopo l’Utopia di More, oltre cinquant’anni dopo I have a dream, ha un sogno potente chi forgia l’utopia spirituale globale.

 

Marco Ventura

In laLettura, 8 gennaio 2017

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