Koinonia Febbraio 2017


 

Dall’opuscolo “Una Chiesa per i Gentili” del 1977

 

DOPO ATENE

 

Al Dio ignoto

Quel giorno, all’Areopago, è avvenuto qualcosa di importante e di decisivo, per la vita di Paolo ma anche per il destino del Vangelo nella storia.

Fino a quel momento sappiamo come sono andate le cose. “Il racconto degli Atti degli Apostoli ci mostra i Dodici che rimangono per interi anni in Gerusalemme e predicano solo ai Giudei. I primi ad evangelizzare i Samaritani non sono stati loro, ma il diacono Filippo, e in Antiochia sono stati gli Ellenisti cacciati da Gerusalemme, quelli che hanno cominciato a portare anche ai pagani l’annuncio del Messia Gesù. Pietro, il capo dei Dodici, ebbe bisogno di un intervento diretto di Dio per lasciarsi indurre a battezzare la casa di Cornelio... L’atteggiamento degli Apostoli o della Chiesa di Gerusalemme, che solo con ritardo e non senza titubanze approvavano l’evangelizzazione dei pagani, è quello che spiega come ad essi riuscisse difficile superare il proprio passato giudaico e la viva speranza della ricostruzione del Regno d’Israele. Allora bisogna dire che le lotte, di cui sono testimoni gli Atti e le lettere di Paolo, miravano non tanto alla accettazione dei Gentili nella Chiesa, quanto piuttosto alla loro liberazione dall’obbligo di farsi circoncidere e di osservare la legge (40).

La questione dei Gentili, però, risultò risolta solo all’interno o al vertice della Chiesa, perché di fatto i Giudei e i giudaizzanti continuarono ad intralciare l’azione di Paolo, servendosi di ogni mezzo. Proprio per sfuggire alla ostinata persecuzione di costoro, Paolo viene a trovarsi ad Atene, più in attesa di Sila e Timoteo, che con l’intento di annunciare anche qui il Vangelo. Improvvisamente, però, vede aprirsi un campo nuovo di lavoro per la sua anima religiosa e per la sua ansia apostolica: “Mentre Paolo li attendeva ad Atene - si legge negli Atti - fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli” (17,16).

Al tempo stesso, Paolo intuisce che è da cercare e da seguire una via diversa per annunciare il Vangelo in questo ambiente, centro spirituale dell’ellenismo e simbolo della sapienza profana. Così, mentre si attiene al metodo di discutere “nella sinagoga con i Giudei e i pagani credenti in Dio”, comincia a parlare ogni giorno sulla piazza principale con quanti incontra, unico caso ricordato di predicazione di tal genere. Si adegua, cioè, al modo ateniese di propagandare le idee. Questo strano tipo, ciarlatano e annunciatore di divinità straniere, suscita, oltre che la consueta curiosità degli Ateniesi, l’ilarità e l’ironia dei parlatori di mestiere, stoici ed epicurei. Gli Ateniesi, in effetti, “non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare” (17,21).

Sarà stato per sfuggire al rumore della piazza o per un effettivo interesse da parte di alcuni, Paolo è invitato a parlare e discutere all’Areopago, una specie di tribunale delle idee e delle dottrine. La sapienza degli uomini giudicava la verità di Gesù Cristo e il messaggio evangelico giungeva al cuore della cultura antica.

Paolo pondera l’importanza di questa occasione che gli si offre, e si produce al meglio di se stesso, sfruttando tutte le sue risorse teoriche, filosofiche, letterarie, per introdurre il suo messaggio. Ragiona e disquisisce con i termini degli interlocutori. “Il suo discorso ha una intonazione diversa da quelli diretti ai Giudei, ad esempio da quello tenuto nella sinagoga di Antiochia di Pisidia; esso non accenna a nessun fatto della Bibbia, e invece cita un poeta pagano; non adduce affatto la rivelazione dell’Antico Testamento, e invece parla della conoscenza di Dio mediante la sola ragione umana” (41).

Tutti gli uomini, per Paolo, sono posti nella condizione naturale di cercare Dio “se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi” (17,27). A questa esigenza e difficoltà fa riscontro una precisa risposta da parte di Dio che cerca l’uomo. Infatti, “dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti” (17,30 ss.).

La prospettiva non può essere più ampia e più universale: c’è tutta la convinzione di chi ritiene finiti i “tempi dell’ignoranza” ed iniziati i “tempi dei Gentili”, quando la Parola di Dio è rivolta “a tutti gli uomini di tutti i luoghi”. Ma la reazione generale dell’Areopago, di questo consesso di sapienti, è delle più rivelatrici del loro spirito di sufficienza. È bastato che sentissero parlare di “resurrezione dai morti”, per cominciare a deridere Paolo, che uscì da quell’incontro non si saprebbe dire come, ma certamente trasformato. Forse si era reso conto che gli uomini all’adorazione del Padre in spirito e verità preferiscono sempre il culto al “Dio ignoto”; che proprio la religiosità e l’intelligenza umana sono un impedimento alla fede nella Verità di Gesù Cristo.

Per tutta risposta, Paolo decide di andarsene di propria iniziativa dall’unica città da cui non è scacciato con la forza o per sommosse. Evidentemente il suo messaggio non aveva suscitato lo scandalo che per lo più irritava i Giudei, ma l’indifferenza e la sufficienza incontrate - quasi che dicesse stoltezze - lo avevano fortemente indignato. Mentre non rifiuta la persecuzione, egli rifugge la degnazione e l’accondiscendenza degli uomini, in una parola la loro “sapienza”.

Si è parlato, in proposito, dello scacco di Atene. Ma forse è più giusto pensare che proprio Atene, dopo Damasco, segna una seconda vocazione di Paolo, questa volta al Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i Greci. Se a Damasco nasce la vocazione dell’Apostolo dei Gentili, ad Atene matura la coscienza della missione da compiere! (42)

Si può parlare di un dopo-Atene per Paolo, ma forse un dopo-Atene si riscontra, come momento ineluttabile, ogniqualvolta si ripropone storicamente il rapporto Chiesa-mondo. Si può parlare di un dopo-Gerusalemme per quanto riguarda l’apertura della Chiesa ai Gentili; si deve parlare di un dopo-Atene per quanto riguarda il giusto rapporto Vangelo-mondo, inteso come cultura o come civiltà.

Visibilmente scosso, Paolo “lasciò Atene e si recò a Corinto” (18,1). Se Atene era il simbolo storico della sapienza umana, Corinto era tristemente famosa per la licenziosità dei costumi. Campo di lavoro senz’altro non meno difficile, ma forse più possibile. Con nuova lena, Paolo “discuteva ogni sabato nella sinagoga e cercava di persuadere Giudei e Greci” (18,4). Sono per lui momenti di estrema incertezza e quasi di smarrimento e di solitudine, perfino di irritazione, prima di ritrovare il coraggio e la forza sufficienti per intraprendere la sua fatica apostolica. Ecco come gli Atti fanno rivivere questo dramma: “Quando giunsero dalla Macedonia Sila e Timoteo (che non aveva più aspettati ad Atene), Paolo si dedicò tutto alla predicazione, affermando davanti ai Giudei che Gesù era il Cristo. Ma poiché essi gli si opponevano e bestemmiavano, scuotendosi le vesti, disse: ‘Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente; da ora in poi io andrò dai pagani’. E andatosene di là, entrò nella casa di un tale chiamato Tizio Giusto, che onorava Dio, la cui abitazione era accanto alla sinagoga... E una notte in visione il Signore disse a Paolo: ‘Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città’. Così Paolo si fermò un anno e mezzo, insegnando fra loro la parola di Dio” (Atti 18,5 ss.). È la visione di questo popolo numeroso destinato a divenire e rivelarsi nuovo Popolo di Dio, che darà a Paolo il coraggio sufficiente a proseguire! (43).

Questi fatti non sono certo privi di un loro preciso significato personale. Ma sarà lo stesso Paolo, in un secondo momento, quando la lotta interiore si sarà decantata, a sottolinearne il valore di svolta nella evangelizzazione dei Gentili. Ricordando il suo incontro con loro, così scrive ai Corinti: “Anch’io, o fratelli, quando son venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunciarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi con molto timore e trepidazione; e la mia parola ed il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1Cor 2,1 ss.).

Ad Atene non avevano capito gli Ateniesi; ma dopo-Atene Paolo ha compreso meglio il valore unico ed assoluto della “testimonianza di Dio”!

Noi assistiamo oggi a qualcosa di analogo nella tipologia del rapporto Parola di Dio-uomini; poiché in questi termini, in ultima analisi, va inteso il nuovo rapporto Chiesa-mondo, al di là di ogni equivoco, spiritualistico o temporalistico che sia. Il Concilio Vaticano II - sarebbe inutile ripeterlo - ha significato una nuova potenziale apertura ai Gentili, al mondo degli uomini. A parte l’azione instancabile e frenante dei giudaizzanti di ogni specie (e non c’è bisogno di pensare solo a mons. Lefevre!), in questo dopo-Concilio siamo in grado di capire meglio il rapporto Vangelo-mondo, e forse proprio per merito o in forza di tanti fallimenti di dialogo, che richiederebbero una analisi a parte (44).

Dopo una prima fase, quasi entusiastica, di assimilazione di linguaggi e di modelli culturali che il mondo d’oggi offre, sembra emergere sempre di più l’esigenza di non estraneità, ma allo stesso tempo di autonomia del Vangelo rispetto  a quelle che potremmo chiamare le forze storiche della società e della civiltà odierna.

Da un punto di vista generale o teologico, è stata riconosciuta e recuperata la reciprocità dinamica tra mondo e Vangelo. È come se si traducesse in termini di storia e di salvezza l’antico adagio “gratia supponit naturam”. Si torna a parlare di conciliabilità, di continuità e di complementarità, nel senso che c’è una storicità intrinseca al mistero ed alla fede nella loro manifestazione umana. Ma si dimentica facilmente che questo confronto o dialogo è condotto tra esigenze, potenzialità, entità ideali o tra essenze. Esso denuncia più una linea di tendenza e di orientamento che una coincidenza di fatto, né autorizza identificazioni affrettate.

Da un punto di vista non più soltanto teologico ma pratico e storico, il problema si presenta in modo del tutto diverso: sono chiamate in causa non essenze astratte, processi razionali ed enunciazioni di principio, ma le persone concrete che “fanno” il mondo, chiamate ad entrare in rapporto di fede col Dio vivente.

Non è più soltanto questione di ritrovare punti di contatto e di concordanza, di creare analogie tra il Vangelo e il mondo. Questo è un lavoro utile che va fatto e va tenuto presente, per non rendere il Vangelo estraneo al mondo e per non ritenere il mondo chiuso ed estraneo al Vangelo: il rapporto dialettico va sempre tenuto vivo. Ma non si potrà pensare di risolverlo diversamente, se non in forza dell’annuncio o attraverso la “stoltezza della predicazione” (1Cor.1,21). Il punto di partenza o di appoggio per arrivare al messaggio, non è il Dio ignoto o quanto ciò significa per la coscienza dell’uomo e per la religiosità dei popoli, ma sarà solo la “testimonianza di Dio”. C’è un ponte da gettare tra l’uomo e Dio: se si parte dalla sponda del mondo, non si riesce a raggiungere l’altra riva; se si parte dalla sponda di Dio si trova il modo di agganciare l’uomo!

C’è da ritenere che l’esperienza di Paolo ad Atene getti sufficiente luce sul problema che si è posto nella nostra ricerca e che è poi uno degli interrogativi che attraversano la chiesa intera: quello del punto di partenza della evangelizzazione, o quello della evangelizzazione in rapporto al mondo culturale, sociale e politico di oggi.

Senz’altro non è da trasmettere il Vangelo nella sua veste “giudaica” o ecclesiastico-clericale; ma questo vuol dire che il Vangelo possa o debba vestirsi per forza “alla greca”? La prima cosa da dire in proposito è che non esiste una risposta e soluzione unica e definitiva, valida per tutti e per sempre. Si può parlare solo di condizioni da rispettare e da creare, non di più. Il Vangelo, nella sua qualità di evento e di annuncio è “storicizzabile” in ogni situazione umana, sociale, culturale e politica. Ogni situazione storica, del resto, è suscettibile di evangelizzazione, nella misura in cui non sia chiusa in sé, ma rimanga potenzialmente aperta alla Parola di Dio. Non basta cioè tener conto della conciliabilità di sistemi e di modelli culturali o politici, per parlare di evangelizzazione; perché il Vangelo passa soprattutto per il “cuore” dell’uomo, che, come ben si sa, ha una logica diversa da quella della pura razionalità.

A poco varrebbe creare delle mediazioni culturali, se queste non fossero soltanto le condizioni previe o concomitanti per far risuonare il messaggio quale esso veramente è: Parola di Dio. Spesso, queste mediazioni sono necessarie più per rimuovere pregiudizi o controtestimonianze storiche all’annuncio stesso, mentre risultano inefficaci e perfino nocive, ai fini  di una adesione di fede al messaggio stesso, che scade o è ridotto al suo semplice significato “accettabile” dalla semplice ragione critica. Ma può succedere che al momento in cui si voglia fare il salto e richiamare al senso originario del messaggio quale esso veramente è, ci si senta ripetere: “Di questo ti sentiremo un’altra volta”.

Nella missione verso i Gentili, nell’opera di evangelizzazione di tutti i tempi, Atene segna la necessità di tornare a predicare Cristo, e questi Crocifisso, il momento di tornare al Vangelo ed alla fede più libera e liberante (45).

 

La stoltezza della predicazione

Dopo questo ideale viaggio ad Atene in compagnia dell’Apostolo Paolo, la riflessione ci ha portato alla riscoperta di una verità ovvia, ma dalle conseguenze pratiche e pastorali incalcolabili.

È tutto in questa risposta a distanza di Paolo ai suoi interlocutori dell’Areopago: “Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1Cor.1,20-21).

La constatazione ovvia - che risulta ancora una stoltezza - è che l’unico vero rapporto chiesa-mondo è dato dalla predicazione del Vangelo, o, se si vuole, dal Vangelo nella forma di predicazione (46). In effetti, c’è da riscoprire e da rivalutare la predicazione in ordine alla salvezza; a patto che, naturalmente, la predicazione non vada riferita e ristretta alla classica “predica” di un tempo, buona solo per un contesto ed una certa mentalità cristiana (47). In questi ultimi tempi, per la verità, la predicazione sembra aver ritrovato la sua ragion d’essere e la propria anima nella Parola di Dio, ma limitatamente all’ambito liturgico, col rilievo dato all’omelia. Ma anche qui, il più delle volte non è tanto la Parola di Dio a dare il senso alla celebrazione liturgica nel suo insieme, ma è piuttosto l’assetto rituale e formale ad inquadrare e schematizzare la Parola di Dio, e la predica vi si inserisce senza una rilevanza propria, ma in modo semplicemente didascalico. Si verifica così questo inconveniente, che l’efficacia della predicazione dipende per la maggior parte dai fattori intermedi. Non dovremmo quindi sopravvalutare le possibilità offerte dalla maniera tradizionale di predicare. Di qui, un lavoro pastorale che si limitasse - come capita spesso - alla parola e alla liturgia entro l’edificio della chiesa, sarebbe gravemente carente. In altre parole, identificare la nozione di proclamazione con le forme tradizionali in cui avveniva la proclamazione significa semplicemente non capire la realtà della situazione (48).

La predicazione, naturalmente, va intesa nel suo senso pieno: essa non è soltanto un aspetto o uno dei modi dell’evento della salvezza; ne è piuttosto il momento germinale, il seme e la radice. È facile dimenticare il seme e la radice, ma a volte è urgente tornarci! Così alla predicazione, quale comunicazione vitale del messaggio della salvezza. Essa ha una funzione insostituibile ed una autonomia specifica rispetto a tutti gli altri modi in cui la salvezza o l’evangelizzazione si attua. È noto come S.Paolo rivendicherà a sé il diritto di dedicarsi in modo esclusivo alla predicazione del Vangelo e si rifiuterà a ciò che oggi chiameremmo l’opera di sacramentalizzazione (cfr.Rom 15,20). Quale rilevanza ed autonomia istituzionale ha oggi nella Chiesa la predicazione del Vangelo al mondo? Non si ricorre forse a troppi altri surrogati ed espedienti di dialogo col mondo - magari di ordine teologico, scientifico, sociologico, storico - che è più un nostro dialogare con gli altri e non un appello della Parola o un interpellarli con la Parola? La lezione di Atene, per Paolo e per noi, non è stata forse la scoperta della forza della predicazione? O noi la riteniamo ancora una volta uno scandalo ed una stoltezza, per farne uso e per prestarsi ad essa?

Sarebbero tutte questioni da esaminare e da risolvere; e senz’altro sarà bene farlo in un secondo momento. Per ora c’è da dire che questo modo di ipotizzare o di intendere la predicazione come istituzione primaria rimette in questione il nostro modo di essere chiesa. Si potrebbe dire che abbiamo trovato il giusto criterio o il giusto termine di confronto per verificare noi stessi in quanto chiesa: se veramente siamo chiesa in modo tale da saper portare l’annuncio, una chiesa davvero per i Gentili. Quindi, non una chiesa all’interno della quale esercitare un proprio ministero e amministrare sacramentalmente la salvezza, quanto una chiesa come tensione e potenza salvifica essa stessa all’interno del mondo, che si fa continuamente con l’evolversi del mondo; non una chiesa chiusa e ripiegata su se stessa, ma aperta e dinamica col dinamismo e come dinamismo della storia.

Un modo di predicare, dunque, rivela senz’altro un modo di essere chiesa; come del resto un modo di essere chiesa comporta un modo di predicare o di proclamare la Parola. La predicazione è il segno effettivo e rivelativo della chiesa, tanto le due cose sono connesse. Ed allora, anche da questo punto di vista, come deve essere la chiesa per un diverso modo di predicare il Vangelo al mondo? (49).

 

È stato precisamente questo lo scoglio nel quale ci siamo costantemente imbattuti nella nostra ricerca: quello dell’annuncio o della proclamazione aperta in un mondo così complesso e meccanicamente congegnato. Non siamo arrivati ad una soluzione e neanche ad una proposta precisa e formale, ma solo ad alcune indicazioni, che rispondono all’interrogativo di fondo e concorrono a tenerlo vivo e presente: in che termini umani, psicologici, culturali, sociali, politici e storici possiamo qui ed ora interpretare, tradurre e concretizzare la nostra fede nel Cristo Signore? Come confessarla, questa fede, in modo che risulti il “segno visibile ed inconfondibile per i non-credenti”? Non si tratta, beninteso, di camuffare o di travestire il messaggio per renderlo “accettabile” in forza della sua presentazione e razionalizzazione funzionale all’uomo e al mondo; è questione soltanto di fare in modo, in contesti di esperienza diversi, che il messaggio sia veramente tale, all’esterno, così come la fede lo percepisce e lo vive all’interno. Che sia vero, così come è una verità!

A questo punto, alcune indicazioni in tal senso ce le siamo anche date, non so però con quale risonanza e rispondenza nei singoli e nell’insieme. Non è escluso che siano valide, almeno come fase di maturazione da attraversare.

Ci sarebbe prima di tutto da evitare lo sbaglio - abbastanza diffuso - di pretendere un comportamento nuovo “da chiesa” (magari anche evangelizzante) da un organismo vecchio o da un corpo di fatto inesistente. Mentre c’è da preoccuparsi in primo luogo che questo corpo esista, si sviluppi e, se necessario, si faccia nascere in forza unicamente di fede nella Parola. Per usare uno slogan, ci sarebbe da credere nella fede: sperimentarne e verificarne tutta la forza originaria, insieme di salvezza e di sfida nei confronti del mondo, senza ricorrere a sostegno storici di altro genere. Anche qui è questione di preferire un po’ di stoltezza allo scandalo o alla sapienza!

Si torna a fare delle affermazioni ovvie. Ma si torna anche a dire che l’ovvio è spesso quanto di meno scontato si possa dare. Così, ad esempio, si arriva a ripetere che l’annuncio può scaturire efficacemente da una vita secondo il Vangelo o che l’evangelizzazione suppone l’evangelismo. Ma quello che vale non è tanto l’affermazione in se stessa, quanto il fatto che essa è il frutto ed il segno di una nuova coscienza.

Così come si esprime ora, in questa particolare fase di sviluppo, questa nuova presa di coscienza ci consente di non strumentalizzare in nessun modo il Vangelo come fonte di ispirazione ideologica, ai fini di obiettivi da raggiungere in prospettiva storico-sociale. E questo perché non ci è lecito oggi interpellarlo neanche come “carta rivoluzionaria”, come deploriamo che sia stato fatto appena ieri lo statuto o lo strumento di giustificazione teologica di un impero e di un regno cristiano o di movimenti e partiti cattolici (50).

Il primato riconosciuto di fatto al Vangelo ci consente di dissolvere meglio l’ambiguità che i termini fede e chiesa conservano nel linguaggio comune e tradizionale: infatti, mentre fede fa pensare a qualcosa di individuale e soggettivo, ad esclusione dell’aspetto obiettivo e comunitario, chiesa fa ancora pensare a qualcosa di sociale, ma per lo più in senso istituzionale e giuridico (quando non territoriale) ad esclusione di una partecipazione personale diretta. Il più delle volte è necessario fare un discorso correttivo, per dimostrare che fede è di suo anche un fatto veramente sociale e che chiesa di suo implica un valore profondamente personale. Parlando invece di vita secondo il Vangelo, questi due aspetti - personale e sociale - non possono non coordinarsi e fondersi, perché il Vangelo non può prescindere da una adesione personale convinta e non può rinunciare ad una risonanza universale. Un uomo evangelico sarà fondamentalmente uomo, ma su scala sociale e storica; non sarà mai una persona “privata” e non partecipe.

Inoltre, proprio in forza di questa sua ampiezza universale, il Vangelo ci consente di superare l’opposizione tra i momenti diversi della vita, quali la riflessione e l’azione: esso è infatti un piano di vita più vasto dello stesso mondo, in cui devono rientrare di diritto e di necessità momenti quali quello della “segretezza” nella preghiera (Mt 5) come momenti di azione la più aperta ed esposta (fino a trasgredire lo stesso sabato). Il Vangelo è al di là di tutti i nostri sezionamenti ed ha la forza di ricomporre in unità, oltre che tutti gli uomini, anche tutte le sfere della vita dell’uomo.

Attraverso questo processo di riscoperta e di semplificazione, il Vangelo diviene sempre di più il valore unitario e centrale della vita. Non è più soltanto un accessorio o un abbellimento, ma è la stessa vita in modo diverso, in modo anche più pieno: qualcosa che ci tocca e ci interessa da vicino; qualcosa che è accaduto o che sta per accadere nella nostra esistenza come un evento o come una rinascita; qualcosa di cui si vive o si cerca di vivere.

Perché possa essere credibilmente annunciato, il Vangelo va vissuto già come annuncio e non come semplice dottrina o insegnamento a ben vivere. Si potrebbe dire che non ci sia modo migliore di annunciare il Vangelo che viverlo, come del resto non c’è modo migliore di viverlo che annunciarlo (51). Per questo c’è da operare costantemente un decentramento dalla pratica religiosa alla fede e i praticanti devono trasformarsi in credenti. Si arriva a dire che il Vangelo o è una fede totale o è nulla - fosse pure il presupposto ideologico per la rivoluzione sociale la più necessaria o il presupposto per il devozionismo o fanatismo religioso il più acceso. Non basta neanche proporsi come obiettivo le finalità che il Vangelo implicitamente propone, per poi raggiungerle comunque (ammesso che ciò si ritenga possibile). Le finalità o gli esiti che il Vangelo lascia intravedere sono l’oggetto proprio di una fede e viene da pensare che non siano mai riscontrabili in tutto e per tutto storicamente (salvo che per messianismi e millenarismi a buon prezzo) poiché in ultima analisi si tratta del mistero del Regno di Dio. Al contrario il Vangelo precisa e determina le vie e i modi da adottare per conseguire questi traguardi “impossibili”, in forza unicamente della spinta di fede.

Non sembra che il Vangelo ci abiliti o ci mobiliti per delle realizzazioni competitive sulla scena del mondo: ci richiede di agire più con valore di segno che a scopo di conquista. Credere nel Vangelo non è ottenere dei risultati comunque, ma prospettarseli in forza di una via ben precisa. Se ci sono delle forze storiche da cui non si può prescindere, noi crediamo che il Vangelo è una di queste. È questione di farsene interpreti e di incarnarla nelle particolari contingenze storiche ed ambientali in cui ci si trova.

L’intento è molto semplice, anche se la realizzazione rimane incerta e laboriosa: rendere la fede Vangelo e il Vangelo fede. E questo perché c’è troppa fede vissuta in senso semplicemente devozionistico e in modo poco evangelico, mentre d’altra parte c’è tanto Vangelo vissuto senza fede. Esiste cioè questa strana dissociazione, per cui tanta fede prescinde quasi dal Vangelo e tanto Vangelo prescinde dalla fede, con conseguenze gravi di mutilazione e falsificazione sia in un caso che nell’altro. Una forma manca del proprio contenuto e un contenuto sarebbe senza la sua forma (da non confondersi con la forma strettamente religiosa).

È troppo importante che la fede riacquisti il suo valore evangelico, come è importante che il Vangelo venga vissuto nel suo valore di fede: che una fede sia fede nel Vangelo e che il Vangelo sia il Vangelo della fede. Solo in questa maniera è possibile saldare la fedeltà alla vita e la vita al Vangelo. Poiché, mentre c’è tanta vita religiosa (o ufficialmente tale) che deve tornare ad essere fatto umano, ci sono tanti fatti umani che possono e devono farsi Vangelo.

Per quanto riguarda la risonanza giustamente “politica” dell’evangelismo (prima ancora che dell’evangelizzazione) - e perché tutto non si risolva in un nuovo moralismo conformistico - si può dire questo: le misure vanno prese sulle situazioni e sui fatti - sulla realtà viva della storia degli uomini - ma il metro rimane sempre quello della fede nel Vangelo. Dall’esterno, dalla situazione vissuta, si riceve lo stimolo e la provocazione a tradurre in modo storico la comune fede; ma non deve succedere che siano in assoluto situazioni ed analisi storiche (o presunte tali) a determinare intrinsecamente il modo di viverla. La fede, infatti, conserva una autonomia ed assoluta trascendenza critica (che non vuol dire estraneità o disinserimento) nei confronti di qualunque altra scelta e di qualunque altro sistema di vita, ad ogni livello, da quello personale a quello politico.

Ciò non vuol dire fare del fideismo astratto e neanche lasciarsi andare ad un integrismo fanatico, che determini leggi e comportamenti in tutti i campi in forza di ragioni di fede; non vuol dire rinunciare a qualunque mediazione o distorcere i fatti: vuol dire soltanto rispettare ogni cosa per quello che è, ma al tempo stesso ritrovarsela illuminata e relativizzata nell’ambito di una visione più ampia del mondo e della storia: la visione di cui ci fa capaci appunto la fede nel Vangelo.

Un modo nuovo di vivere la fede: è stato questo uno dei problemi più agitati ed una delle formule più utilizzate negli ultimi tempi, quasi il contrassegno di un’epoca.

Dopo-Atene, possiamo dire di aver meglio compreso che un rinnovamento ed una trasformazione della fede non avviene in forza di un adeguamento - magari calcolato e studiato - ai tempi, e cioè dall’esterno; semmai un giusto adattamento si ottiene attraverso una profonda trasformazione interna della qualità della fede. Il processo, per la verità, è reciproco, ma ci sono anche delle precise priorità da rispettare. C’è da preoccuparsi di ciò che viene dopo la fede, come punto di partenza; ma è necessario rimettere in valore ciò che fa della fede un punto di arrivo, in quanto “la fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,17).

 

Alberto Bruno Simoni

 

 

 

 

(40) A.Wikenhauser, Atti degli Apostoli, pp.210-211 (cfr.R.Schnackenburg, La chiesa nel nuovo testamento, pp.57-58).

 

(41) G.Ricciotti, Paolo Apostolo, p.363.

 

(42) Il parallelismo tra l’esperienza personale e la missione universale è una caratteristica dell’Apostolo Paolo: “Nella sua stessa personale esperienza, l’esperienza della sua conversione e dei suoi successi apostolici, Paolo ha percepito la potenza della ‘chiamata’, l’intervento di Dio nei tempi presenti, messianici, che sta per sconvolgere il mondo. Alla base della esperienza si trova la conversione. Paolo ha sentito ed ha tradotto questo come una chiamata di Dio, racchiudente essenzialmente una missione da compiere in favore dei gentili e dunque anche la chiamata di questi... In tal modo la vocazione personale di Paolo include la vocazione del gentili. Paolo è ‘convocato apostolo’ in favore dei gentili: la sua vocazione peculiare non ha significato se non in vista d’una missione da compiere, e con questa essa s’identifica (L.Cerfeaux, La teologia della Chiesa secondo S.Paolo, A.V.E., pp.192-193).

 

(43) Non è senza significato la progressione e la coesistenza delle prime comunità cristiane. “Accanto alla primitiva comunità di Gerusalemme composta di soli Giudei, e alla comunità mista di Antiochia, prendiamo come esempio di comunità formata prevalentemente di ex-pagani nell’ambito della missione paolina, quella di Corinto... Regna dappertutto nelle comunità cristiane una vita fresca, piena di promesse. Nonostante tutte le differenze locali, è chiaramente visibile quello che le è comune: la fede in Gesù Messia e ‘Signore’, Battesimo ed Eucarestia, predicazione e istruzione apostolica, alta stima dell’amore fraterno e attesa escatologica. Nelle differenze della prassi locale, nel contrasto tra atteggiamenti di vita pratica, nella valutazione di speciali questioni per la vita della comunità (carismi, velo delle donne ecc...) nelle decisioni di difficili casi particolari (l’incestuoso, processi davanti a tribunali pagani) si manifesta la libertà della Chiesa primitiva, come nei difetti e nella colpa si manifesta quella umana limitatezza che le viene lasciata nonostante la direzione da parte dello Spirito Santo” (R. Schnackenburg, op.cit. pp.24-25).

 

 (44) Si avverte una certa resipiscenza ed un senso di autocritica o di superamento per quanto riguarda i trascorsi entusiasmi per il “dialogo”. Il dialogo non è fallito, ma è servito a far maturare più chiaramente i problemi che comporta. Ad esempio: “Può esistere ancora un accordo su un progetto fondamentale della fede che sia veramente libera nel suo esercizio critico e progettante, pur cosciente dei suoi condizionamenti? È il medesimo Cristo quello a cui si fa riferimento e si continua a invocare insieme? Sono alcuni interrogativi che neppure oggi, per la verità, hanno trovato risposte esaustive; ma interrogativi che devono avere una risposta. Ciò anche per non cadere nel pericolo di sempre: determinazione dell’unità non più per sottomissione alla gerarchia o per il tipo di teologia che si accetta, ma in base all’ideologia politica. Di nuovo si rischia di identificare la Parola con scelte storiche. Ma allora quali sono i criteri capaci di non identificarsi con scelte precise, di restare simbolici e incidere sulla realtà? I problemi in questa direzione sono indubbiamente assai gravi. Fra essi segnalerò quello di fondo sul quale mi pare si sia poco riflettuto. L’affermazione della storicità della chiesa rischia di mancare di alcuni parametri che permettano di indicare non dico posizioni precise, ma una direzione e un quadro di riferimento. Si rischia cioè di passare da un universo compatto, preciso, in cui l’unità e l’appartenenza erano determinate una volta per sempre, ad un universo in cui tutto è mobile, tutto diventa giustificabile, nulla falsificabile. Il soggettivo rischia talmente di schiacciare il soggettivo, rifiutando ogni dialettica reale, che non resta più nulla se non una vaga affermazione di fede senza alcuna possibilità di verifica” (M.Cuminetti, in Una difficile unità, Cittadella Ed.,p.28).

(45) “Da più di un secolo, compromessi - filosofici o sociali, teorici o pratici, liberali o integristi - si accumulano fra la Parola di Dio nella Chiesa e gli uomini. Essi indicano altrettanti sforzi ingenui e talvolta eroici per addomesticare un rapporto, quello del cristianesimo col mondo, che deve restare una zona di combattimento e di attacco diretto. Non ricominciamo col cristianesimo rivoluzionario, il comunismo cristiano, o non so quale altra nuova anticaglia. Come per abbellire le nostre chiese non si dovrebbe aggiungere nulla, bensì spazzar via ori e gessi, così per rompere il muro di questo malinteso che ormai soffoca lo stesso messaggio, il cristiano non deve inventare nulla, se non il cristianesimo stesso, rendendo alla Parola grande la sua nudità penetrante” (E.Mounier, Agonia del Cristianesimo?, La Locusta, p.34).

 

(46) Trovo una felice ed autorevole conferma a questa affermazione apparentemente gratuita in uno scritto del filosofo francese P.Ricoeur, dal titolo Una corretta presenza della Chiesa al mondo:  ”L’azione dei cristiani nel mondo sembra dipendere oggi da un giusto rapporto tra tre fattori: anzitutto l’elaborazione di una nuova predicazione al mondo; secondariamente un lavoro teologico della chiesa su se stessa e sul suo rapporto al mondo; in terzo luogo un impegno qualificato dei suoi membri in azione di carattere laico. È dall’equilibrio di questi tre fattori che dipende la salute della presenza della Chiesa al mondo; si potrebbe parlare in questo senso del ‘tripode’ della presenza della Chiesa al mondo.

Bisogna cominciare dal tema della nuova predicazione al mondo, perché la teologia non viene mai per prima: essa è sempre una riflessione di secondo grado che suppone precisamente l’esercizio di questa predicazione e di questo impegno. Distinguerei qui predicazione ai fedeli e predicazione al mondo... Se la Chiesa ha un messaggio per il mondo e sui problemi politici del mondo, il suo messaggio deve essere pronunciato in qualche modo fondandolo sulla testimonianza della comunità confessante. Di qui la necessità di una predicazione a tutti gli uomini. E questa parola avrà una portata e un peso tanto più grandi se sarà stato continuato e portato a termine il processo di smantellamento delle istituzioni confessionali... Si tratta di dar vita nel mondo attuale a una nuova articolazione dello spirituale e del politico, e attraverso alla stessa di influire sul processo di mondializzazione dei problemi, delle soluzioni della politica stessa” (in La chiesa verso l’avvenire, A.V.E. pp.169-171). Un esempio pratico di tutto questo è dato da Predicazione atto politico, di G.Casalis dell’Ed.Coines, con prefazione del P. Chenu.

 

(47) “Il vocabolo ‘kerigma’, tradotto con ‘predicazione’, non indica l’azione del predicatore, ma l’oggetto delle sue prediche, il suo ‘messaggio’, come talvolta diciamo... ‘Predicazione’ significa annunziare pubblicamente il Cristianesimo al mondo pagano. Il verbo greco corrispondente infatti equivale propriamente a ‘bandire’; e il sostantivo può indicare un pubblico banditore, un tenitore di asta, un araldo o chiunque a voce spiegata richiama l’attenzione del pubblico su determinate notizie che intende annunziare. Molti argomenti della predicazione della Chiesa dei nostri tempi non sarebbero stati riconosciuti come ‘kerigma’ dai primi cristiani. Sarebbero entrati nella categoria dell’insegnamento e dell’esortazione, o in quella che chiamavano homilia, cioè una discussione più o meno privata circa i vari problemi della dottrina e della pratica cristiana, tenuta in una comunità ormai stabilizzata nella fede... Per la chiesa primitiva predicare l’Evangelo non significava certo tenere delle istruzioni o fare esortazioni. Finché essa era occupata nel trasmettere l’insegnamento del Signore, non era rivolta ad ottenere delle conversioni. In virtù del ‘kerigma’ e non della ‘didakè’, dice S.Paolo, piacque a Dio di salvare l’uomo” (C.Dodd, La predicazione apostolica e il suo sviluppo, Paideia, pp.9-10).

 

(48) “Non vogliamo fare l’elenco anche lontanamente completo della profusione di opere apparse in questi anni. Hanno tutte un valore: rivalutare il ministero della parola fino allora marginale all’atto liturgico o da esso staccato, atto che pertanto cadeva in un sacramentalismo vicino alla magia. Però tutte riflettono una delle maggiori carenze dell’epoca: l’incapacità del contenuto concreto della predicazione a calare nella situazione. Non si presta attenzione all’aspetto materiale della predicazione, dandolo per scontato. Si pensa che, una volta scoperta la parola biblica nella sua purezza, non c’è che ripeterla, poiché contiene una tale forza da essere, come automaticamente, efficace. In questi ultimi anni ci siamo resi conti dello sbaglio. Predicare la Parola di Dio non consiste nel ripeterla ma nell’interpretarla, nell’attualizzarla. I molti insuccessi e gli scarsi successi di questi anni lo hanno dimostrato. Il movimento kerygmatico degli anni ’60 ha portato a un biblismo che continuò ad alienare la predicazione dal suo tempo e dal suo pubblico... La ragione principale della crisi attuale della predicazione, tanto più inaspettata quanto più si credeva che il movimento conciliare biblico-kerygmatico portasse con sé la soluzione, risiede nel fatto che tale movimento si preoccupava solamente di un aspetto del ministero della predicazione, quello formale, e lasciava da parte l’altro, quello materiale, quello del contenuto con tutta la sua complessità dialettica” (L. Maldonato, La predicazione, Queriniana, p.14).

(49) Il quadro ecclesiale completo, in cui collocare la predicazione, è offerto da queste parola di S.Paolo: “Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: ‘Chiunque crede in Lui non sarà deluso’. Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’ invocano. Infatti :’Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato’. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentire parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati?... Ma non tutti hanno obbedito al vangelo... La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,9 ss.).

 

(50) “Politica: la parola è ambivalente, se non ambigua, come tutte le parole pregnanti. Indubbiamente, attraverso la sua polivalenza, trova il suo equilibrio e la sua regola nella natura stessa della parola di Dio, ben oltre gli opportunismi dell’ordine stabilito e, a maggior ragione, oltre le clericalizzazioni di destra o di sinistra. È caratteristico della parola di Dio promuovere la libertà nell’uomo e, per la sua libertà, favorire l’autonomia della sua ragione e delle sue scelte nella costruzione del mondo. Così le realtà terrestri, come si dice, vanno attuate e giudicate non per una deduzione dal vangelo, condensato come catechismo morale, sociale, culturale, politico; esse invece vanno inventate e costruite dall’uomo secondo le loro proprie leggi e nella consistenza del loro oggetto. Non si risolve un problema politico con delle motivazioni religiose. Non bisogna assolutamente ridurre il vangelo a un sostegno religioso in favore dell’ordine stabilito, né tanto meno a una sacralizzazione della rivoluzione. Questo termine, recepito ormai nel linguaggio dei teologi (ma vi era da molto tempo sotto altre voci), deve entrarvi con le sue proprie esigenze di analisi politica, tanto rigorosa quanto delicata” (P.Chenu, in Predicazione atto politico, pp.9-10).

 

(51) “Che cosa esige la parola di Dio in Cristo, proclamata in virtù dello Spirito Santo, dall’apostolo che la dice? Qual è il suo rapporto con quella parola, in modo che essa sia realmente pronunciata come parola di Dio nello Spirito Santo? Infatti, nel nostro caso non si tratta di una parola divina, che indipendentemente da un uomo, risuona in qualche maniera tra gli uomini e nel loro mondo, ma di una parola umana, che l’apostolo formula ed articola nella condizione attuale della sua esistenza. In che modo essa è ancora la parola sua, la parola dell’apostolo? Quando si cerca di rispondere a questa domanda, si rimane colpiti anzitutto dal fatto che a questa parola viene attribuita una certa autonomia, anzi una certa efficacia propria, tanto che si ha quasi l’impressione di avere a che fare con una specie di essere personale...

Ma c’è ancora altro. Questa parola, che si trova nella parola umana dell’apostolo, non è solo autonoma e non gode solo di una sua efficacia, ma è anche la sovrana dell’apostolo. Essa diventa quello che è - parola di Dio in bocca umana - in quanto l’apostolo la serve. E qui non intendiamo parlare solo di quel rapporto, in forza del quale il ministero e la missione affidati agli apostoli sono ordinati a questa parola, per cui essa diventa una parola ufficiale per quelli che l’ascoltano. Pensiamo piuttosto al fatto che questa parola ufficiale, quale parola di Dio in bocca umana, è anzitutto parola di Dio per lo stesso ministro che la serve e che egli, nel suo ministero e attraverso il suo ministero, la manifesta necessariamente come parola di Dio. Pensiamo cioè ad un dato di fatto, che si verifica e vale già per lo stesso ministro, per la stessa missione ricevuta. La efficacia del sacro ministero non dipende dal contegno di chi lo assolve e dal suo conveniente adempimento. Si fonda, come abbiamo visto, sul fatto che Cristo lo ha istituito con la sua rivelazione personale e lo ha ‘consegnato’, come si legge spesso.

Esso ha perciò un’autorità che precede colui a cui è stato affidato e lo trascende. In forza della sua origine è indipendente tanto dalla sua eventuale insufficienza, quanto dal suo eventuale talento. Eppure la sua natura non sarà compiuta ed esso non sarà completamente efficace per quel che è e deve essere, se colui al quale è stato affidato non tiene conto delle sue esigenze, cioè se l’esecuzione della missione ricevuta non è un servizio nei suoi confronti. E ciò vale anche per la parola o Vangelo, che costituisce il compito più importante del ministero apostolico” (H.Schlier, La parola di Dio, ed.Paoline, pp.35-38).

 

 

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