Koinonia Febbraio 2017


“Già e non ancora” a cura di Daniele Garota

 

10. AMORE E MORTE 

 

Nelle trincee di guerra del 1918, sul fronte dei Balcani, il giovane pensatore ebreo Franz Rosenzweig riusciva a scrivere brano dopo brano, su cartoline militari che poi spediva al proprio indirizzo in Germania, quella che resterà la sua opera più importante: La stella della redenzione. Opera in cui si trova chiaramente riflesso, pur nel breve arco dell’esistenza del suo autore (morirà a 43 anni, strappando con gran fatica gli ultimi sette dalle grinfie di una malattia terribile che lo paralizzerà totalmente togliendogli persino la capacità di parlare) quello che Neher definisce: “uno straziante ma vittorioso duello con la morte”. Perché vittorioso se la morte lo inghiottirà ancor giovane? “Perché per sette anni non si è arreso là dove altri avrebbero ceduto in sette settimane o sette mesi”, vivendoli come “il periodo più creativo, più sfavillante della sua esistenza reclusa e immersa nella sofferenza” (Hanno ritrovato la loro anima). Gli ebrei difficilmente si sono arresi alla morte, pur dovendo alla fine ogni volta cedervi, avendola sempre combattuta guardandola dritta in faccia, come dicendogli: non sarà tua l’ultima parola!

Non a caso Rosenzweig inizia La stella con una riflessione sull’“aculeo velenoso” della morte e la conclude evocando i battenti di una “porta” che si apre “sulla vita”, lasciandoci intravvedere, nel bel mezzo delle sue pagine, forse il cuore delle sue poderose riflessioni, là dove incrocia e mette a tema il testo sacro che riconosce “come nucleo e centro della rivelazione”: il Cantico dei cantici. Ravvisandone al suo interno, nell’“unico passo non dialogato ma semplicemente enunciato”, un versetto secondo lui della massima importanza, quello in cui è detto che “forte come la morte è l’amore” (8,6).

Perché tutta questa importanza? Perché - secondo lui  - proprio nel Cantico, che si apre col comparativo “migliore del vino è il tuo amore”, riferito all’amato che tutte le ragazze di sé fa innamorare (1,2), si “riannoda il filo precisamente là dove lo aveva lasciato cadere il ‘molto buono’ conclusivo e perfettivo della creazione”, quello in cui Dio proprio creandoci “maschio e femmina” capaci d’unirsi con amore in “un’unica carne”, riuscì a farci diventare “sua immagine” (Gen 1,27-31; 2,24). Non per nulla ci s’inchina in Israele come davanti alla presenza di Dio incontrando una coppia di giovani sposi.

Ebrei e cristiani sanno che il Regno di Dio atteso ha due immagini forti e chiare: quella delle nozze e quella del banchetto, entrambe segnate qui e ora dall’amore e dalla morte. Quando uomo e donna dicono il loro sì di nozze per unirsi davanti a Dio finché morte non li separi, forse non sono ancora minimamente attraversati dal pensiero, tanto più terribile quanto più essi riusciranno davvero per sempre ad amarsi, che quasi certamente uno di loro dovrà accompagnare l’altro nelle oscurità della fossa. E la mensa eucaristica, oltre che essere prefigurazione del banchetto del Regno, cos’altro è se non partecipazione, attraverso i santi segni del pane e del vino, all’amore e alla morte del Signore (1Cor 11,26)?

Ci fu momento in cui Rosenzweig sentì tutta la forza del cristianesimo, ma non vi entrò, convincendosi che già rimanendo buon ebreo fosse riuscito a rimanere fedele anche alla rivelazione cristiana, e tuttavia lasciandoci proprio su questo punto percepire come all’interno dei tre elementi costitutivi dell’intera opera: creazione, rivelazione e redenzione, ne manchi un quarto, decisivo e fortissimo, quello che ha in Gesù di Nazaret il suo centro e fondamento: l’incarnazione, il diventare di Dio un’unica carne con noi suoi “amici”, amandoci da morire così come si amano lo sposo e la sposa diventando tra loro una carne sola. Un “mistero grande” lo chiamerà Paolo, riferendosi non solo “a Cristo e alla Chiesa”, ma anche a ciascun uomo nei confronti della propria sposa e a ciascuna donna nei confronti del proprio sposo (Ef 5,32-33). Lì non altrove si percepirebbe una potenza d’amore, in grado di tenere testa alla morte, come “passione” tenace quanto “il regno dei morti”, con “vampe di fuoco” da “fiamma divina!” (Ct 8,6): solo in quest’unico versetto infatti, all’interno di quel prezioso canto d’amore che i giovani cantavano danzando in mezzo alle vigne d’Israele, si sprigiona come una scheggia (Jah) il nome di Dio.

 

“Tutto il resto – dice Rosenzweig – non può ‘esser’ detto ‘circa’ l’amore ma viene espresso dall’amore medesimo. Infatti l’amore è linguaggio completamente attivo, completamente personale, totalmente vivo, totalmente parlante”. Mentre in questo versetto, capace di toccare in un colpo solo il cuore della rivelazione e che rimanda sia al primo giorno della creazione che all’ultimo della redenzione, è fatta eccezione: “La morte, la vincitrice di ogni cosa, e l’Orco, che gelosamente trattiene nelle sue mani quanto è trapassato, sprofondano davanti” alla forza dell’amore, “all’intensità del suo ardore. Il gelo di morte del passato, rigido come un oggetto, viene riscaldato dal suo fuoco, dalle sue fiamme divine”, dice ancora Rosenzweig. Dal fuoco d’amore di un Dio “che si chiama Geloso” perché “è un Dio geloso” (Es 34,14) che ha un’estrema paura di perderci, un estremo bisogno del nostro amore fedele. Del nostro amore cioè, in quanto singoli unici e irripetibili. Per questo la morte è uno scandalo, perché a morire è una persona che non sarebbe mai dovuta morire, non solo perché amata ma soprattutto perché non sostituibile. Nulla può giustificare la morte di qualcuno, nemmeno il fatto che grazie a quella si salvi il mondo intero. Se poi si tratta della morte di un innocente allora lo scandalo è inaudito: “Il grido dell’innocente sacrificato risuonerà, come un rimorso, sino alla fine del mondo, come risuonerebbe, secondo le supposizioni impossibili di Bergson e di Ivan Karamazov, il grido del bambino condannato a soffrire perché il mondo continui a esistere” (V. Jankélévitch, La morte).

E tuttavia lo scandalo gridato al cielo di un mondo retto dalla morte degli innocenti e dei giusti, ha costretto Dio a scendere tra noi fino a morire crocifisso: nulla di meno fu necessario a Dio per salvare il salvabile di quell’amore con cui ci ha creati e amati fin dall’inizio. Ma come continuare a sperare quando Dio continua a restare irrimediabilmente nascosto e silenzioso mentre la morte inesorabilmente e sfacciatamente miete ovunque e in ogni istante le sue vittime? Il giusto crede, ama, grida a Dio e spera in lui, ma poi muore, questo è ciò che vediamo e di cui siamo certi giorno dopo giorno mentre, rimanendo nella fede, continuiamo ad avanzare a tentoni, esattamente come fanno i ciechi: chi crede infatti ancora non vede ciò in cui crede ma soltanto spera e scommette, mentre là la morte continua a ridacchiargli in faccia. Avendo un po’ d’amore dentro il cuore, avendo cioè Dio “perché Dio è amore” (1Gv 4,8), il desiderio struggente che si ha è quello che l’amore, sia alla fine più forte della morte. Fino ad allora - e occorre molta umiltà di fede per poterlo dire - l’amore è molto forte, certo, ma non più della morte.

La croce del Cristo ci ha salvati, è vero, ma solo “nella speranza” perché ancora ci tocca morire; ancora “tutta insieme la creazione geme e soffre”, esattamente come noi che “gemiamo interiormente” aspettando “la redenzione del nostro corpo”: la salvezza riguarda il creato, riguarda corpi di carne e ossa. Cose deboli, debolissime, tendenti a sonno e silenzio, cose in aiuto delle quali deve costantemente giungere lo Spirito coi suoi santi desideri, coi suoi “gemiti inesprimibili”, per scuoterci dal torpore rassegnato.

Noi “speriamo quello che non vediamo”, per questo lo dobbiamo attendere “con perseveranza”. Amare Dio e i fratelli altro non è che questo desiderio del morire della morte finalmente, nemico acerrimo che tutti in ogni istante ci attanaglia: la redenzione di tutte le creature sorelle, di tutti coloro che sono morti e amavamo come noi stessi (Rm 8,18-27).

 

Proprio perché l’amore va oltre il qui e ora e oltre il mondo, verso il mai ancora visto, può esistere, dice Berdjaev, “un profondo legame tra amore e morte”, intendendo l’amore non come rivolto a mondi di puro spirito o di idee, ma quello che diventa autentico soltanto quando “va da persona a persona”, nella concretezza dei volti e dei desideri dei corpi di carne e ossa, come la fame, la sete, il bisogno di un vestito, il bisogno che ha un uomo di unirsi alla sua donna. Lì, in tale concretezza d’amore scaturisce anche lo scandalo della morte di fronte a chi si ama e si vede soffrire e morire. La morte è il vero avversario dell’amore, la morte dell’altro soprattutto, la morte di chi profondamente amiamo. Per questo, dice ancora Berdjaev, tra gli autori russi che più di altri hanno ruotato attorno al rapporto tra l’amore e la morte, spicca, ancor più di Soloviev e di Rozanov, che pure hanno toccato corde profondissime su questo argomento, Fedorov, che passò tutta la vita ad accanirsi contro la dura realtà non tanto della propria morte, ma quella dei morti di tutti i tempi. “Nessuno è simile a lui in questo”, perché egli mirava a niente di meno che alla “risurrezione dei morti”, alla vittoria della vita eterna anche sul passato, in mezzo alle tombe e alla polvere di chi è morto da gran tempo. Nulla è più naturale e ovvio del morire e della morte, perciò soltanto chi crede e spera si scandalizza e scoppia a piangere di fronte a essa, percependone l’estrema gravità e ingiustizia. “Fedorov voleva vincere la morte, far volgere il tempo all’indietro, mutare il passato”, conclude Berdjaev (Schiavitù e libertà dell’uomo). Un obiettivo santissimo, che però diverrebbe in un istante estremamente pericoloso, se l’uomo mirasse a raggiungerlo con forze proprie, confidando in quei prodigi della scienza e della tecnica che rendono ogni volta possibile domani quel che si riteneva impossibile ieri. Ci sono già al mondo cadaveri ibernati con speranza che tornino in vita grazie a scoperte scientifiche future.

Mai perdere di vista il monito della Scrittura sacra, là dove si narra di come Dio proprio avendo gran paura della potenza umana, che potrebbe aver l’ardire di vivere “per sempre” anche nel suolo maledetto in cui è stata cacciata, si precipitò a porre nel “giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire l’albero della vita” (Gen 3,24).

Cristianesimo è, come nell’esperienza di san Paolo, speranza di non morire (1Ts 4,17), ma al tempo stesso, desiderio di morire crocifissi se serve per stare accanto al “Cristo” (Fil 1,21). Ciò che davvero conta nella fede, ancor più del vivere e del morire, è l’amore che dovrebbe tenerci legati al Signore sempre, con l’unica preoccupazione di non abbandonarlo, o di sentire almeno la vergogna di sentirsi vinti dal sonno mentre a lui tocca di sudare “sangue” entrando in agonia pur avendo con tutte le forze chiesto di non morire (Lc 22,41-45). Qui, non altrove, ci sembra rivelarsi il significato più autentico del “chicco di grano” che solo morendo “produce molto frutto” (Gv 12,24).

Per questo, alla fine, è proprio colui che più di ogni altro desidera di non morire che riesce, paradossalmente, a desiderare di morire, morire con il Signore. Di questo duplice desiderio è stato capace un credente come Sergio Quinzio fino al termine dei suoi giorni. Ma ci teneva a precisare tuttavia che, lungi da ogni mistica consolazione, si deve a quel punto voler morire “falliti e disperati, non morire certi delle sue braccia che ci accolgono, morire soltanto, morire del tutto, perché l’unica cosa che si può fare per chi è morto è morire d’amore per lui, e solo questo rende capaci di essere con lui, di capirlo, e quindi di poterlo consolare … A sua imitazione, perché lui appunto, ha voluto morire per poterci salvare”. La conclusione di Quinzio ci giunge ancora oggi, dopo decenni che l’ha scritta, come un pugno sullo stomaco: “Se non vogliamo morire è perché non amiamo abbastanza chi è morto, è perché preferiamo tenerci la nostra vita e abbandonare chi muore. Almeno di questo dovremmo vergognarci” (Dalla gola del leone).

 

Daniele Garota

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