Koinonia Febbraio 2017


Quale vangelo nella “Capitale della cultura”

 

La mobilitazione culturale a Pistoia - Capitale  italiana della cultura 2017 - è a pieno regime, e non c’è giorno in cui non sia prevista una manifestazione o iniziative a cui poter partecipare. Viene solo da chiedersi se questa moltiplicazione di eventi abbia un’anima e possa avere una  ricaduta - non solo di lustro - sulla sensibilità e crescita culturale della cittadinanza: se in altre parole  per cultura vada intesa la riproduzione e riproposizione di quanto è già rubricato come tale, mentre attraversiamo tempi in cui stimoli e capacità di maturazione culturale sarebbero vitali a tutti i livelli.  Possiamo contentarci di descriverci come società liquida, mondo globalizzato, informazione al potere, regno della post-verità?

 

Forse la coscienza di ogni singolo reclama qualcosa di più illuminante ed  orientativo  e la coscienza sociale un orizzonte più chiaro e più sicuro: a questo dovrebbe provvedere  appunto quella che viene chiamata  “cultura”, che non è solo patrimonio da ereditare e valorizzare (magari turisticamente), ma eredità da metabolizzare e trasmettere nella sua interezza. Quale mondo in realtà abitiamo e consegniamo alle nuove generazioni, tecnologicamente più avanzate, come riserva di potenzialità mentali e morali?

 

Niente da eccepire che tutto vada per il suo verso e che la cultura venga mitizzata o ipostatizzata come valore separato a cui rendere culto. A rischio di passare per oscurantisti, non possiamo però impedirci di dire come stanno le cose e chiederci se c’è qualche voce fuori dal coro che metta in guardia da una visione unilaterale ed estetizzante della cultura. Se per esempio si va a dare un’occhiata al bel volume curato da Giovanni Capecchi per Naturart  ”Avvicinatevi alla bellezza”, ci si rende conto che in gran parte il patrimonio culturale presentato è a matrice cristiana e testimonia di una cristianità defunta, che certamente non potrà essere rigenerata da operazioni culturali di facciata, certamente utili per rendere maggiormente accessibili e fruibili testimonianze storiche.

 

Ci si potrebbe aspettare che una voce di richiamo e di discernimento critico venisse dal mondo della Chiesa, la quale per la verità sembra avvalorare la linea culturale egemone e contentarsi di approntare in parallelo un “contraltare” alle iniziative in corso, non per contrapporsi ma per esserci. È questa almeno l’impressione che si ricava dal nutrito programma allestito dalla Diocesi.

 

Presentando questo programma, il Vescovo F.Tardelli parla di “un evento molto importante che parla a tutta la comunità cittadina ed anche alla Chiesa diocesana, che è stata ben volentieri tra i promotori della candidatura risultata poi vincente ed è anche presente nel comitato promotore assieme all’amministrazione comunale, alla Fondazione Caript, alla Camera di Commercio e alla Cassa di risparmio di Pistoia e Lucchesia. La Chiesa di Pistoia è sempre stata parte attiva della storia e della vita della città. Il suo contributo alla cultura di Pistoia è stato ed è evidente per gli uomini di valore che ha espresso, per le infinite opere d’arte di cui ha arricchito il territorio, per quella cultura della solidarietà e della carità che contraddistingue, pur con tutte le contraddizioni del caso, la città di Pistoia. Anche nell’evento di Pistoia capitale della cultura la Chiesa pistoiese c’è e ci vuole essere, facendo la sua parte per lo sviluppo autentico e pienamente umano di questa città”.

 

Praticamente si ratifica una compresenza di riconoscimento reciproco tra componenti distinte di una stessa città, che però si ritrovano omologate nel campo neutro di una cultura autoreferenziale. Certamente vorrà dire poco, ma è indicativo il fatto che scorrendo il ricco programma della Diocesi per il 2017, non si fa parola di “vangelo”, che potrebbe sembrare fuori luogo in questo contesto, al tempo stesso in cui in altri contesti viene presentato come la ragion d’essere della chiesa. Forse non sarebbe fuori luogo, da un certo punto di vista, rileggere Lc 21,5-6: “Mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta»”. Vangelo alla mano, ci si può contentare di una semplice deferente coesistenza tra mondo dei credenti e mondo laico, o questi mondi devono ritrovare una piattaforma culturale comune creativa e dialettica, che non sia solo il culto storico di monumenti?

 

Se problema c’è, non lo invento io, anche perché è qui l’asse portante e il filo conduttore della Esortazione apostolica “Evangelii gaudium”, in cui leggiamo: “Questo Popolo di Dio si incarna nei popoli della Terra, ciascuno dei quali ha la propria cultura. La nozione di cultura è uno strumento prezioso per comprendere le diverse espressioni della vita cristiana presenti nel Popolo di Dio. Si tratta dello stile di vita di una determinata società, del modo peculiare che hanno i suoi membri di relazionarsi tra loro, con le altre creature e con Dio. Intesa così, la cultura comprende la totalità della vita di un popolo. Ogni popolo, nel suo divenire storico, sviluppa la propria cultura con legittima autonomia. Ciò si deve al fatto che la persona umana, «di natura sua ha assolutamente bisogno d’una vita sociale» ed è sempre riferita alla società, dove vive un modo concreto di rapportarsi alla realtà. L’essere umano è sempre culturalmente situato: «natura e cultura sono quanto mai strettamente connesse». La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve”. (n.115)

 

Certamente, se cultura sta per insieme di beni culturali acquisiti da salvaguardare, chiesa e città non possono che risultare  quel sistema integrato che ben conosciamo, e il vangelo potrebbe essere fattore esterno destabilizzante. Se “cultura comprende la totalità della vita di un popolo” ed è quel processo vitale in cui siamo comunque immersi, allora il vangelo può essere seme, sale, lievito,  luce, che nulla toglie al corso degli eventi ma li orienta diversamente: non ne cambia il significato ma il senso! Appunto “la grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve”.

 

E qui è inevitabile riandare con Paolo ad Atene, quando avviene una svolta decisiva non solo per la sua vita ma  nell’incontro vangelo-cultura, evento emblematico per i secoli futuri. Sappiamo che in un primo tempo Paolo deve lottare all’interno per avere la libertà di andare ai “Gentili” o senza il giogo della circoncisione. Ma una volta che arriva ai Gentili, deve fare i conti anche con loro, perché non basta una base di accordo sul “Dio ignoto” o sulla religione convenzionale per ammettere che questo Dio “ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti” (At 17.31). Il passaggio è troppo impervio per gli ateniesi ed allora è meglio rifugiarsi nell’ironia!

 

Ma proprio questa sconfitta porterà Paolo a capire e a cambiare strategia, come del resto ci lascia intendere in parole così decisive: “Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,22-25). E questa stoltezza altro non è che “la stoltezza della predicazione” con la quale “è piaciuto a Dio salvare i credenti” (ib,21). Che è poi la stoltezza della croce  come sapienza di Dio da non vanificare. È in sostanza il Vangelo!

 

Ora c’è da dire che tutto questo è risaputo e dato per scontato come dominio riservato alla categoria dei credenti, ma non possiamo sottovalutare il fatto che è proprio qui quella differenza radicale che Paolo aveva cercato di proporre agli ateniesi in linea con la loro mentalità, ma che poi prende forma nella “stoltezza della predicazione”, qualcosa appunto che non può non emergere  in tutta la sua originalità. Al n.34 di “Evangelii gaudium” sembra ci sia questa consapevolezza: “Nel mondo di oggi, con la velocità delle comunicazioni e la selezione interessata dei contenuti operata dai media, il messaggio che annunciamo corre più che mai il rischio di apparire mutilato e ridotto ad alcuni suoi aspetti secondari. Ne deriva che alcune questioni che fanno parte dell’insegnamento morale della Chiesa rimangono fuori del contesto che dà loro senso. Il problema maggiore si verifica quando il messaggio che annunciamo sembra allora identificato con tali aspetti secondari che, pur essendo rilevanti, per sé soli non manifestano il cuore del messaggio di Gesù Cristo”.

 

Siamo riportati in qualche modo alla esperienza di Atene, così come al n.65: “La Chiesa Cattolica è un’istituzione credibile davanti all’opinione pubblica, affidabile per quanto concerne l’ambito della solidarietà e della preoccupazione per i più indigenti… Però ci costa mostrare che, quando poniamo sul tappeto altre questioni che suscitano minore accoglienza pubblica, lo facciamo per fedeltà alle medesime convinzioni sulla dignità della persona umana e il bene comune”. Laicamente e culturalmente deve emergere l’irriducibilità del credere, che non può essere relegato ad opzione soggettiva pur essendo quanto di più personale ci possa essere; ma proprio per questo è quanto di più trasversale  ci sia, così come la coscienza!

 

Viene da chiedersi allora se “predicare il vangelo” richieda preventivamente “glosse” di facilitazione o non debba mantenere una sua irriducibilità, che faccia appello immediatamente agli eventi salvifici da condividere al di là di loro plausibili significati. È come se riguardo al Messia ci sentissimo ripetere quello che Gesù  dice alla donna samaritana: “Sono io, che parlo con te” (Gv 4,26). Si tratta, come si può vedere, di una differenza radicale, che da una parte fa da criterio di discernimento e dall’altra postula decisioni e scelte  di campo molto chiare.

 

In altre parole, se va da sé che il vangelo inteso come sistema-chiesa e apparato culturale possa fare corpo con la Capitale della cultura e ne incrementi la risonanza, forse è bene che anche  il “vangelo sine glossa” sia fatto sentire come “stoltezza” e appello ad una fede meno integrata e standardizzata, ma più viva e creativa, capace   di darsi un rivestimento culturale nuovo: ma dove sono i luoghi, i gesti e i segni di una Parola di Dio che non sia “incatenata”? (2Tm 2,9)

 

ABS

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