Koinonia Gennaio 2017


LA POSTA IN GIOCO DI SEMPRE

 

KOINONIA ANNO XLI N. 1 (431): anche i numeri a volte possono dire la loro. A noi stanno a ricordare che  la posta in gioco è da anni sempre la stessa: la prospettiva storica di un soggetto-chiesa rinnovato in profondità, processo aperto e compito di tutti. Quindi niente di formale e di compiuto da presentare, ma solo disponibilità ad una maturazione di coscienza e di attitudine dentro il variegato organismo del Popolo di Dio, sempre alla ricerca di una sua funzione profetica dentro la storia. Tutto ciò aiuta a leggere un passato di totale provvisorietà e ad orientarci verso un futuro altrettanto precario, salvo la certezza di una speranza-guida. Quella che anima e si traduce nel presente via via possibile. E veniamo così ai nostri giorni, sapendo che non abbiamo e non offriamo un sistema di riferimento, ma ci muoviamo in campo aperto. Cos’altro è mai un cammino di fede condiviso?

 

Nella sua viva presentazione di Girolamo Savonarola - nel corso nell’incontro del 18 dicembre - il prof.Giancarlo Garfagnini non ha mancato, in sede di dialogo, di fare riferimento a Giorgio La Pira come a savonaroliano dei nostri giorni, a testimonianza di una voce profetica che viene da lontano ma che si fa sentire potentemente anche oggi. Avevamo già in animo di rivisitare la stagione della Firenze lapiriana, per raccogliere anche di lì segni e stimoli di partecipazione a quel movimento di riforma che attraversa il tempo e che via via emerge nella storia.

 

In effetti, è questa la spinta propulsiva che ci anima, senza alcuna presunzione di diventare significativi, ma stando attenti a che il lucignolo fumigante della speranza  non si spenga. Quello che vogliamo fare non è offrire realizzazioni formali e soluzioni preconfezionate allo stato di “crisi” della fede e della chiesa nel mondo, quanto piuttosto averne coscienza sempre più viva e lasciarsi coinvolgere nel processo di cambiamento epocale. A renderci solidali è prima di tutto il “soffrire insieme per il vangelo” (cfr 2Tm 1,8) e “oltre a tutto questo, l’ assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese” (2Cor 11,28).

 

Qualcosa che nasce dentro la propria chiamata alla fede e dalla responsabilità di confessarla pubblicamente nella predicazione del Vangelo. Forse non è un caso che la giornata di incontro del 18 dicembre sia stata vissuta all’insegna delle parole di apertura della lettera ai Romani, quasi sostituendosi a Paolo quando dice: “Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio… per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome” (Rm 1,1.5). Da tenere presente che la giornata veniva vissuta anche per fare memoria dell’ottavo centenario della nascita storica dell’Ordine dei Predicatori con la Bolla Religiosam vitam di papa Onorio III il 22 dicembre del 1216, giubileo che è stato celebrato all’insegna del motto “Mandati a predicare il vangelo”.

Ed allora è stato inevitabile rifarsi alla diagnosi che nell’incontro di novembre don Severino Dianich ci aveva offerto sul senso e sullo stato della evangelizzazione, vero nodo sempre da sciogliere, là dove si consuma una vera riforma, prima ancora che negli ordinamenti e nelle strutture: come dire che ciascuno è chiamato in causa in prima persona sia quanto al convertirsi al vangelo e sia quanto al predicare il vangelo, lampada da non lasciare sotto il moggio: “Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Cor 9,16). 

 

Don Severino ci diceva che, per quanto “in Europa la secolarizzazione della cultura e la laicizzazione dell’ordinamento sociale” siano di vecchia data, questa situazione sembra ancora assente in vasti strati della coscienza cattolica e lontana da rappresentare una sfida per la chiesa: la quale vi trova più un motivo di conflitto e di condanna che una inedita opportunità.

 

Per superare questa impasse non basta più parlare di fine definitiva della societas christiana o post-cristiana, ma renderci conto e prendere atto che abbiamo davanti un mondo di “gentili”, non più soltanto come periferia di una cristianità costituita, ma come spazio in cui imparare di nuovo a vivere da cristiani rispondendo  a nuove responsabilità. Alla periferia semmai ci sono i cristiani e i credenti: periferia siamo noi, mentre il mondo in cui viviamo ruota intorno ad altre centralità. Siamo pronti a riconoscere ed accettare questo stato di cose e a farne motivo di discernimento e di scelte?

 

È chiaro a tutti - in linea di principio - che non è più possibile affidarsi a prassi pastorali che affidavano per tradizione millenaria la trasmissione della fede o in seno alle famiglie o all’interno di comunità costituite ed autarchiche: “Tramontano i modelli di vita ecclesiale degli ultimi quindici secoli e ritornano quelli dei primi cinque”. Ce ne rendiamo conto e ci preoccupiamo di dare la risposta adeguata? O continuiamo a somministrare palliativi o placebo ad un mondo bisognoso di salvezza?

 

Per contro e per fortuna, torna in campo quello che per natura sua è il nucleo portante della missione della chiesa, paradossalmente rimasto in ombra in un  passato fatto di pura amministrazione sacramentale e gestione di potere: siamo tornati a parlare di Vangelo e di evangelizzazione,  intesa nel suo senso essenziale di comunicazione della fede ai non cristiani e ai non credenti. Certamente resta la necessità della evangelizzazione all’interno della chiesa costituita, anche se questa si presenta oggi con confini incerti, in una ricca tipologia di posizioni diversificate sia rispetto alla fede in Dio e in Cristo, sia quanto ad appartenenza; e forse questo caleidoscopio di chiese può ritrovare una sua polarizzazione unitaria proprio nel compito e nell’esercizio di una evangelizzazione spoglia ed essenziale tutta da reinventare.

A parte l’inflazione  di questa parola, usata genericamente per indicare ogni attività pastorale di conservazione, è da vedere se nel suo significato specifico l’evangelizzazione rimane il prodotto di una chiesa storicamente esistente o diventa il fondamento e il motivo per una chiesa nascente e in fieri nel tempo. In ogni caso,  “la via per attribuire all’evangelizzazione il suo primato, non sarà la creazione (salvo opportunità particolari) di iniziative specifiche, ma la formazione dei fedeli ad esserne i primi e fondamentali soggetti responsabili”. Ed è qui che una riforma prende corpo: nella modificazione genetica della evangelizzazione, che generi a sua volta un modo diverso di essere  chiesa nel mondo, pur lasciando tra parentesi ciò che tradizionalmente la veicola.

 

“Il ritorno all’impegno dell’evangelizzazione dovrebbe propiziare un salto di qualità nella partecipazione dei laici, dal piano fino ad ora più frequentato della collaborazione nella vita della comunità a quello del versante estroverso della vita ecclesiale. È una prospettiva nella quale il rapporto fra pastori e fedeli tende a rovesciarsi essendo i carismi laicali in rapporto con coloro che non appartengono alla comunità. Ma solo l’ampiezza dei carismi laicali può assicurare all’evangelizzazione la possibilità di realizzarsi come testimonianza cristiana a tutto campo e di una fede vivibile in tutte le situazioni di vita dell’uomo”. È una chiamata di tutto il Popolo di Dio a fare da traino per portare la chiesa fuori dalle secche clericali e celebrative, non con pianificazioni ma a prezzo della propria vita da perdere a causa del vangelo.

 

Siamo portati a dire che una vera riforma anche della chiesa nasce prima di tutto da un rinnovato rapporto con la Parola di Dio e col vangelo in quanto rivolti al mondo, e quindi con una riforma della stessa evangelizzazione, da riportare alla sua forma specifica e primigenia: la predicazione in continuità  col “fare e insegnare” (At 1,1) di Gesù! Se è vero che il vangelo è annunciato ai poveri, l’evangelizzazione va rivissuta e ripensata a partire dal basso, dai destinatari, dalla situazione dell’umanità e dello stato della fede nel mondo, un mondo povero prima di tutto di fede. Quale salvezza annunciare in un mondo non più religioso, e come un mondo ancora religioso può trasformarsi in vangelo vivente e credibile per gli uomini?

 

Da questa diagnosi di don Severino Dianich  credo non si debba prescindere: è il banco di prova e di confronto del nostro modo di essere e di muoversi dentro la chiesa. Per convincercene, basterebbe riprendere queste sue parole: “La via per attribuire all’evangelizzazione il suo primato non sarà la creazione (salvo opportunità particolari) di iniziative specifiche, ma la formazione dei fedeli ad esserne i primi e fondamentali soggetti responsabili”. È l’istanza a cui cerchiamo di rispondere se non altro per mantenerla viva! Si tratta sempre meno di organizzazione, di mobilitazione, di affiliazione, di indottrinamento, ma semplicemente di conversione e di sequela: di risposta personale e di partecipazione  solidale all’avventura del Vangelo nel mondo!

 

Alberto Bruno Simoni op

 

 

 

 

 

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