Koinonia Gennaio 2017


Bibbia alla mano per riflettere

L’AUDACISSIMA FEDE DI GIOBBE (IV)

 

4. Ebed e Goél

 

Il dolore di Giobbe è ingiusto e Dio è chiamato a rispondere di questo, ed è chiamato a farlo proprio perché ancora e nonostante tutto è creduto buono e amato dal giusto che soffre sapendo di soffrire ingiustamente.

Ma più ancora del giusto che soffre, a scandalizzare è l’empio che gode (21,6-9). Il meccanismo davvero terribile tra noi – segno del peccato che ci abita molto in profondità – è quello che non solo costringe a soffrire il giusto che vede l’empio godere, ma anche quello che spinge l’empio a soffrire vedendo il giusto star bene, e a godere vedendolo invece soffrire. Dopo avere condannando a morte Gesù, in un attimo “Erode e Pilato diventarono amici tra loro: prima infatti tra loro vi era stata inimicizia” (Lc 23,12). Strano, e lo farà notare anche René Girard, come l’iniqua, unanime violenza di folla contro Cristo, contro la vittima innocente, facciano ritrovare riconciliazione e pace anche tra nemici, ma è così, lo sappiamo, ed è dietro a questi paradossali meccanismi che si cela il vero volto del male che un po’ tutti ci accomuna.

Se Giobbe soffre in quel modo è perché è vicino a Dio e a Dio assomiglia proprio per questo suo ingiusto soffrire mentre si aspettava la ricompensa e la gioia, la pienezza di vita, la salute, sapendo bene come sia proprio questo che Dio vuole per noi. Cosa desiderano un babbo e una mamma per la loro creatura? Ecco, forse qualcosa di diverso può desiderare e volere il Padre celeste per noi? Di questo è convintissimo Giobbe, avendolo direttamente sperimentato: “Potessi tornare com’ero ai mesi andati, / ai giorni in cui Dio vegliava su di me, / quando brillava la sua lucerna sopra il mio capo” (29,2-3). Ci sono nodi impossibili da sciogliere, momenti in cui consolare il giusto che soffre giustificando Dio che lo permette è impossibile.

Paolo De Benedetti ha nelle sue riflessioni voluto accostare due significativi termini ebraici, che rimandano entrambi alla radice di questi nodi e che troviamo, anche se non direttamente citati certamente espressi, nei loro significati, all’interno del Libro di Giobbe. Il primo è riv, che significa contesa, lite con Dio, lite che in diversi - e forse sull’esempio di Giobbe - hanno lungo la storia ebraica con forza intrapreso. E il secondo è tzimtzum, contrazione, restringimento in sé, una sorta di “esilio nel fondo dell’Essere divino”, il quale soltanto avrebbe consentito – secondo la qabbalà di Jizchaq Luria - il venire all’esistenza di tutto in principio. È soltanto all’interno di questa battaglia comune di Dio e dell’uomo contro le potenze del male e della morte, che possiamo intravvedere ancora qualcosa del vero volto di Dio, dopo che “i rassicuranti orizzonti metafisici di un Leibniz e di uno Hegel … sono svaniti come un miraggio davanti alle esperienze che hanno polverizzato i loro maestosi edifici della teodicea, della teologia razionale …, e la polvere è salita fino a oscurare Dio” (Quale Dio?).

Di fronte a certi eccessi di male e dolore o Dio è cattivo o Dio non può. Ma se Dio non può si aprono abissi e domande a cui difficilmente si riesce a rispondere, domande che hanno il loro massimo esempio nel grido del Golgota, là dov’è Dio stesso a domandare e non ottenere ancora risposta. No, nemmeno con la risurrezione di Gesù il Dio condannato in croce ha ottenuto risposta: sarà necessario il regno di Dio, la risurrezione dei morti nell’ultimo giorno, il giudizio sulla storia per dare una vera risposta al grido di Gesù morente e a tutte le grida dei poveri cristi morenti in ogni istante del mondo.

Ma la domanda più grande nel frattempo è questa: se Dio non ha potuto fin qui salvarci come ha promesso, potrà ancora farlo in futuro? Una domanda enorme, soprattutto se si riferisce a una salvezza concreta che si attende per qui e ora, per il nostro corpo, per il corpo e la vita delle persone che amiamo e abbiamo amato. E per il creato intero, della cui bontà abbiamo avuto esperienza, magari soltanto anche in un giorno uscendo di casa e la nostra cagnolina ci guardava cercandoci col suo musetto, per poi mettersi a saltellare allegra come dicendoci coi suoi guaiti tutto il bene che ci voleva.

Certo, una salvezza delle sole anime già giunte nell’eterno riposo di un aldilà onnipresente, ci semplificherebbe di molto la vita e la fede. Ma la salvezza ebraica e cristiana non prevede beatitudini celesti o riposi di questo tipo. Se qui i viventi gridano e invocano, altrettanto fanno, sotto l’altare, le anime dei giusti già morti, con un’invocazione molto simile a quella della “vedova” - nella parabola raccontata da Gesù - che attende la giustizia del giudice buono qui sulla terra (Lc 18,1-8). Un’unica fede unisce l’uno e l’altro grido, quello dei vivi: “Fammi giustizia” (Lc 18,3), e quello dei morti: “Fino a quando, Sovrano, /… / non farai giustizia?” (Ap 6,10).

La nostra speranza non è nell’oltretomba, ma nel Signore che viene ad aprirle le tombe, per far uscire coloro che da troppo tempo ne attendono la venuta, per giudicare i vivi e i morti, per donarci la vita del mondo nuovo promesso.  Una salvezza forse venuta in mente a Dio soltanto dopo avere ascoltato le insistenti grida dei sofferenti della terra.

 

Dunque lo abbiamo visto come Dio ad un certo punto intervenne, con tutto il peso della sua potenza, argomentando in maniera del tutto simile a quella degli amici di Giobbe, come facendo proprie le loro ragioni. Ma subito dopo ecco che Dio ci sorprende, è come se tutt’a un tratto cambiasse idea, fino a prendere decisamente posizione accanto a Giobbe, facendo proprie le ragioni di Giobbe. Come se dopo avere fatto irruzione e averlo ammutolito, annichilito e vedendolo lì umiliato e piegato, e tuttavia ancora colmo di attesa e di fede, si sia improvvisamente mosso a compassione come dicendo tra sé: ‘Ma non ha forse lui ragione e io torto? Sì, cari amici, la ragione sta dalla sua parte e si tratta a questo punto di rimediare a tutto ciò, di rispondere concretamente alle vittime che, come lui, gridano incessantemente al cielo, rispondere alla loro fame e sete di giustizia, al loro desiderio di essere saziate’. 

Ad un certo punto, come mette magistralmente in evidenza Lev Šestov alla luce di quel che prima di lui testimoniò un credente come Pascal, non è tanto il peso della “sventura” di Giobbe, ma quello del dolore di Giobbe e di Dio insieme a pesare più “della sabbia del mare” (Gb 6,2-3). Il dolore di tutte le vittime della storia umana a cui è toccato morire con la domanda gridata in gola, con fame e sete di giustizia mai ancora saziate. “I lamenti di Giobbe, il pianto di Geremia, i tuoni dei profeti e dell’Apocalisse - dice Šestov – ci annunciano che Dio si cura di ogni uomo e che alla fine dei tempi non sarà la realtà con la sua iniquità e implacabilità a trionfare, ma Dio che ‘conta i capelli sulla testa degli uomini’, Dio che è amore, che promette di asciugare ogni lacrima” (Contra Husserl).

 

“Chi è capace di fedeltà - dice Sergio Quinzio nel suo Commento a Giobbe - non può neppure pensare di abbandonare il Dio di cui ha udito il nome, il nome di Dio non si cancella mai più dal suo cuore. L’unica certezza di Giobbe è Dio, certezza di orrore e certezza di tenerezza (2,10). Dio è tutto. Dio è la causa di ogni male anzitutto perché promette ogni bene” (Vol II, p. 13). Nessuno come Giobbe, e proprio grazie alla sua incrollabile fede, arriva a cogliere come tutto alla fine venga da Dio, il quale resta buono e soffre soprattutto davanti alle sue creature buone che soffrono, agnellini dallo sguardo indifeso che belano continuamente divorati da bestie feroci che li stritolano e li inghiottono senza tregua.

È questo il motivo per cui Giobbe non si rassegna e nemmeno si volge a lanciare lamenti a destra e a manca cercando cause chissà dove, un po’ come fa chi non è mai sazio di quel che ha. No, Giobbe è direttamente a Dio che si rivolge, fino a sfidarlo, costringendolo a farsi vivo. È come se gli dicesse: ‘Ma non vedi come sono ridotto, non provi pena per me?’.

“La domanda di Giobbe a Dio – dice Quinzio – è più grande del suo dolore, è un dolore più grande. Il dolore di Giobbe è appena un’occasione per la sua domanda. Il supremo male, l’unico male, non è che Dio ci uccida, ma è non vederlo, non udirlo, non capirlo, esserne lontani: proprio ciò che per la sapienza tradizionale è invece il sacro mistero da adorare” (pp. 14-15).

Giobbe esplode col suo grido e con la sua domanda fino a mandare in frantumi tutti gli schemi della sapienza tradizionale, delle persone molto religiose e sicure di sé. Se il Libro di Giobbe non ci mette in crisi e non ci scandalizza non possiamo comprenderlo. Fermandoci prima, tenendo per buone soltanto le cose che già riteniamo di sapere, non facciamo altro che rimanere ingabbiati nelle nostre categorie teologiche, continuando a vivere la nostra vita di ogni giorno come se vera novità non dovesse più esserci all’orizzonte, come se dovesse continuare in eterno un mondo nel quale pochissimi gozzovigliano di fronte alla sterminata massa di innocenti che soffrono.

Né Eliu, il quarto uomo che intervenne a replicare a Giobbe, né Dio stesso, che intervenne per ultimo, in realtà rispondono. Tutto quanto audacemente sollevato dalle grida di Giobbe rimane ancora in sospeso nel libro e nella storia. E questo accade, dice ancora Quinzio, “perché la domanda di Giobbe è in realtà la domanda del Dio che è con lui nella tribolazione. Le Scritture infatti, ci sono offerte come storia di Dio”. E se è così, allora “il discorso sapienziale rotto dal grido di Giobbe è l’ordine sacro rotto dal grido di Dio” (p. 17). E da tale rottura trapelano energicamente la sofferenza e l’impotenza di Dio e, insieme, anche la sua credibilità e potenza, soprattutto di fronte a chi ha sofferto, è morto, ed era innocente.

Il giusto tribolato Giobbe grida al cielo e finisce col trascinare giù Dio a terra, fino a far sì che nasca e cresca nel grembo santissimo di Maria, facendo propria, nella sua carne e nella sua interiorità di giovane uomo innocente, la condizione di servo, la croce e la morte, e solo così dando anche a noi speranza di giustizia e di vita eterna. Che Gesù sia risorto lo attesterà il fatto concreto e reale dei morti che risorgono, ma soprattutto lo attesterà la nuova venuta del Risorto. Il Cristo risorto è l’Ebed, il Servo sofferente di YHWH, e il Goél, il Redentore, insieme. Chi ci salverà è l’Onnipotente creatore di tutto sceso tra noi negli abissi della kenosis (Fil 2,8), come servo insieme al suo servo Giobbe e a tutti i servi della storia del mondo, un Dio che nel suo regno ha promesso di servirci “a tavola” (Lc 12,37).

La conclusione del Commento di Quinzio a Giobbe, lungi dal perdersi in interminabili ed erudite citazioni e argomentazioni torna, dopo quasi mezzo secolo, a dirci questo: “La verità detta da Giobbe rivela tutto il suo terribile senso soltanto oggi, quando anche la sofferenza di Giobbe, la sofferenza di Dio (36,21; Atti, 2,36), è stata inghiottita da un nuovo, bimillenario, più angusto ordine sacro, che giustifica il male presentando la tomba come la tranquilla porta della salvezza. Il Libro di Giobbe è perciò profezia della condizione dei santi negli ultimi giorni del mondo, quando la distruzione del mondo (2Pt 3,7) dovrà rivelare fino in fondo il fallimento non più sostenibile di ogni ordine mondano” (p. 19). 

E dovrà rivelarlo squarciando ordini sacri “da cima a fondo”, facendo tremare “la terra”, spezzando “le rocce” e aprendo le tombe, facendo risuscitare i “corpi” di coloro che sono “morti” -esattamente come già avvenne, in un mistero di insondabile primizia, per “molti corpi di santi” che “apparvero a molti” entrando “nella città santa, subito dopo la risurrezione di Gesù (Mt 27,51-53) - affinché siano finalmente consegnati e per sempre alla vita e al banchetto del “regno di Dio” (Mc 14,25).

 

Daniele Garota

(4.fine)

 

 

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