Koinonia Gennaio 2017


CHE  RAZZA  DI EBREO  SONO  IO*

 

“Nonno, mi spieghi cosa vuol dire che sei ebreo?”. Questa è la domanda della nipotina Eli di sei anni, che un giorno mette in imbarazzo il nonno, Bruno Segre, e lo spinge a spiegare, in questa intervista ad Alberto Saibene, la sua particolare identità di ebreo secolarizzato. Cresciuto in una famiglia laica e cosmopolita, da ragazzo vive con sofferenza le limitazioni dovute alle leggi razziali fasciste, ma solo dopo la Shoa prende coscienza della sua “ebraicità” e saluta con entusiasmo la nascita dello Stato di Israele che visita per la prima volta nel 1961. Solo il fatto di aver sposato una non ebrea gli impedirà di trasferirsi laggiù. È uno dei pochi che si rende conto di come la schiacciante vittoria sugli arabi del 1967 costituisca una svolta in negativo per il giovane stato: “il senso di onnipotenza e la convinzione di essere oggetto di una speciale predilezione divina” che ne derivarono cambiarono definitivamente lo spirito  che aveva dato origine alla sua fondazione, avviandolo a una deriva sempre più fondamentalista. Di qui la sua adesione, come presidente dell’Associazione italiana “Amici di Nevé Shalom”, allo spirito del villaggio fondato in Israele dal domenicano Bruno Hussar che rivendicava una quadruplice identità: oltre che cristiano, era ebreo per famiglia, cairota di nascita e  israeliano per cittadinanza.

Collaboratore di  Adriano Olivetti, nell’ambito dell’ebraismo italiano che, dice, “tende a destra perché la sinistra è filo-palestinese”, sarà sempre una figura di riferimento; dal 2001, per 10 anni, esce sotto la sua direzione la rivista Keshet (Arcobaleno) che “dà corpo a una definizione di laicità compatibile con la cultura ebraica... per dare una dimensione plurale dell’ebraismo”. “Ci premeva sottolineare che gli ebrei, insieme con il resto dell’umanità (cristiani, mussulmani ed altri), stanno oggi al centro del villaggio globale, non fuori o al di sopra di esso”.

Dall’anno 2000 in poi, ogni anno va nelle scuole per la Giornata della Memoria, facendo sempre presente agli studenti che “se il ricordo dell’orrore non si salda  a un’interrogazione lucida circa il nostro orrido presente e non suggerisce ai giovani l’idea di un futuro meno indecente... la rituale invocazione ‘ciò non deve accadere mai più’ cade nel vuoto, non serve a nulla”.

Segre pensa che sia un errore far passare la Shoa per una questione esclusivamente ebraica, un “trauma privato” e non invece come  “un paradigma e una testimonianza della millenaria follia del mondo”. Per non parlare di numerosi esponenti del governo di Israele che cercano di sfruttare quella memoria “come certificazione della propria legittimità politica”. Severo è il suo giudizio su l’Israele di oggi che “sconta ancora, a quasi 70 anni dalla nascita, il ‘compromesso storico’ sancito con i partiti dell’ortodossia religiosa dal ‘padre della patria’ Ben Gurion”. A tutt’oggi senza una Costituzione, Israele ha nel Gran Rabbinato, un sistema che “invade e influenza in profondità la sfera della vita personale dei cittadini”. E, secondo le statistiche demografiche, il peso degli haredim non può che crescere nel futuro. “Dopo la guerra dei sei giorni, abbiamo lasciato tutti insieme, ebrei della diaspora ed ebrei israeliani che si gonfiasse, crescesse a dismisura e si ossificasse l’idea esiziale del ‘Grande Israele’: una sorta di ‘vitello d’oro’ dei coloni... un feticcio che le frange estreme dell’opzione nazional-religiosa hanno preteso e ancora oggi pretenderebbero di mettere al centro del ‘pensiero unico’ dell’ebraismo mondiale”. Mentre scrivo, l’amministrazione democratica americana agli sgoccioli si è finalmente decisa a far passare all’ONU una condanna degli insediamenti; non possiamo non pensare a come sarebbe oggi la situazione se la presa di posizione degli Usa non fosse stata così tardiva e... inutile, viste le convinzioni del prossimo presidente.

Una pagina interessante del volume riguarda il nuovo atteggiamento della Chiesa cattolica verso “i nostri fratelli maggiori”, concretizzatosi nel paragrafo IV della dichiarazione Nostra Aetate che raccomanda ai cristiani di “predisporsi a un ‘fraterno dialogo’ con gli ebrei, attraverso quella mutua conoscenza che può nascere dal confrontarsi con loro nell’esegesi biblica e negli studi teologici”. Nei decenni successivi al concilio, i contatti tra i due ambienti religiosi hanno riguardato infatti quasi esclusivamente questi due ambiti “con risultati significativi sul piano spirituale”.   “Ma non sembra, dice Segre, che il popolo cristiano e il popolo ebraico si siano messi davvero a dialogare fra loro”, complice anche un restante, quasi inconsapevole, antisemitismo, perché ... “il deposito di secoli e secoli di predicazione disumanizzante non evapora in cinquant’anni... Il cumulo dei pregiudizi che è andato depositandosi nelle coscienze collettive dei due gruppi non si scalfisce così rapidamente... La ‘paura dell’ebreo’ sopravvive oggigiorno ed è destinata a perdurare, magari per inerzia, anche in contesti nei quali non è presente, in carne ed ossa, neppure un ebreo”.

All’intervistatore che gli chiede di spiegare cosa intende  col suo qualificarsi come ebreo secolarizzato, Bruno Segre risponde che il suo identificarsi  “come ebreo non ha molto a che fare col suo essere o non essere un ebreo osservante” e aggiunge che “pur essendo un ebreo profondamente secolarizzato, nutre “il massimo rispetto per la religiosità dei religiosi genuini. Dato che concepisco la laicità come sinonimo di pluralismo”. Anche se nella nostra lunghissima storia “la religione ha giocato un ruolo fondamentale di collante... diaspore prolungate e variamente dislocate... ci hanno reso molto diversi fra noi e soprattutto capaci di produrre espressioni culturali nuovissime nel segno di una variegata pluralità”.

Per quanto poi riguarda l’ebraismo italiano, osserva come da qualche tempo ci sia stata un’involuzione da  “un ebraismo capace di interagire fattivamente con la società...a un ebraismo ripiegato su se stesso... sempre più orientato verso una religiosità rigida, venata di fondamentalismo”, forse anche per il grande afflusso di ebrei provenienti dal mondo arabo che ha molto cambiato il profilo del mondo ebraico italiano.

Tornando alla domanda della nipotina Eli, Bruno Segre ci spiega come si è cavato dall’imbarazzo: approfittando dell’avvicinarsi del Pesach, la Pasqua ebraica, diversamente da tutti gli altri anni ha allestito il tradizionale seder (la cena rituale) per tutta la famiglia e ha raccontato ai nipoti una storia, di come “tutti loro fossero i lontani discendenti di una torma di schiavi che, fuggiti dall’Egitto, si sono ritrovati nel deserto come popolo libero e, sempre nel deserto, hanno ricevuto grazie al loro capo Mosè le tavole della Legge, cioè un codice  di comportamento di valore universale”, concludendo che “la conquista della libertà non può andare disgiunta da un’assunzione di responsabilità”. I nipotini sono stati entusiasti dell’iniziativa che si è ripetuta  poi sempre negli anni successivi. Il che dimostra, come io ho sempre pensato, che una bella storia vale più di cento tomi di teologia.

 

Donatella Coppi

 

* Bruno Segre, Che razza di ebreo sono io  (a cura di A. Saibene), Edizioni Casagrande, 2016, pp.128, € 13,80

 

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